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A questo punto si sentirono i passi della madre sulla caletta di legno; essa entrò ridendo. “Ecucchì stavi parlando, “ghetto mio? Non lo vedi che il tuo amico dorme?”

Padre Pirrone si vergognò un poco; non rispose ma disse: “Adesso lo accompagno fuori. Poveretto, dovrà stare al freddo tutta la notte.” Estrasse il lucignolo della lanterna, lo accese a una fiammella del lampadario rizzandosi sulla punta dei piedi e imbrattando di olio la propria tunica; lo rimise a posto, chiuse lo sportellino. Don Pietrino veleggiava nei sogni; un filo di bava gli scorreva giù da un labbro e andava a spandersi sul bavero. Ci volle del tempo per svegliarlo. “Scusami, Padre, ma dicevi cose tanto strane e imbrogliate.” Sorrisero, scesero, uscirono. La notte sommergeva la casetta, il paese, la vallata; si scorgevano appena i monti che erano vicini e, come sempre, imbronciati. Il vento si era calmato ma faceva un gran freddo; le stelle brillavano con furia, producevano migliaia di gradi di calore ma non riuscivano a riscaldare un povero vecchio. “Povero don Pietrine! Volete che vada a prendervi un altro mantello?”

“Grazie, ci sono abituato. Ci vedremo domani e allora mi dirai come il principe di Salina ha sopportato la rivoluzione.” “Ve lo dico subito in quattro parole: dice che non c’è stata nessuna rivoluzione e che tutto continuerà come prima.”

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“Evviva il fesso! E a tè non pare una rivoluzione che il Sindaco mi vuoi far pagare per le erbe create da Dio e che io stesso raccolgo? o ti sei guastato la testa anche tu?”

La luce della lanterna si allontanava a scatti, fini con lo scomparire nelle tenebre fitte come un feltro.

Padre Pirrone pensava che il mondo doveva sembrare un gran rompicapo a chi non conoscesse matematiche ne teologia. “Signor mio, soltanto la Tua Omniscienza poteva escogitare tante complicazioni.”

Un altro campione di queste complicazioni gli capitò fra le mani l’indomani mattina. Quando scese giù pronto per andare a dir messa in Parrocchia trovò Sarina sua sorella che tagliava cipolle in cucina. Le lagrime che essa aveva negli occhi gli sembrarono maggiori di quanto quell’attività comportasse.

“Cosa c’è, Sarina? Qualche guaio? Non ti avvilire: il Signore affligge e consola.”

La voce affettuosa dissipò quel tanto di riserbo che la povera donna possedevaancora; si mise a piangere clamorosamente, con la faccia appoggiata all’untumedella tavola. Fra i singhiozzi si sentivano sempre le stesse parole: “Angelina,Angelina... Se Vicenzino lo sa li ammazza a tutti e due... Angelina... Quello liammazza!”

Le mani cacciate nella larga cintura nera, con i soli pollici fuori, padre Pirrone all’impiedi la guardava. Non era difficile capire: Angelina era la figlia nubile di Sarina, il Vicenzino del quale si temevano le furie, il padre, suo cognato. L’unica incognita dell’equazione era il nome dell’altro, dell’eventuale amante di Angelina.

Questa il Gesuita la aveva rivista ieri, ragazza, dopo averla lasciata piagnucolosa bambina sette anni fa. Doveva avere diciotto anni ed era bruttina assai, con la bocca sporgente di tante contadine del luogo, con gli occhi spauriti di cane senza padrone. La aveva notata arrivando ed anzi in cuor suo aveva fatto poco caritatevoli paragoni fra essa, meschina come il plebeo diminutivo del proprio nome e quell’Angelica, sontuosa come il suo nome ariostesco, che di recente aveva turbato la pace di casa Salina.

Il guaio dunque era grosso e lui vi era incappato in pieno; si ricordò di ciò che diceva Don Fabrizio: ogni volta che s’incontra un parente s’incontra una spina; e poi si pentì di essersene ricordato. Estrasse la sola destra dalla cintura, si tolse il cappello e batté sulla spalla sussultante della sorella. “Andiamo, Salina, non fare così! Ci sono qua io, per fortuna, e piangere non serve a niente. Vicenzino dov’è?”

Vicenzino era già uscito per andare a Rimato a trovare il campiere degli Schirò.

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Meno male, si poteva parlare senza timore di sorprese. Fra singhiozzi, risucchi di lagrime e soffiate di naso tutta la squallida storia venne fuori: Angelina (anzi

‘Ncilina) si era lasciata sedurre; il grosso patatrac era successo durante l’estate di S. Martino; andava a trovare l’innamorato nel pagliaio di donna Nunziata; adesso era incinta di tre mesi; pazza di terrore si era confessata alla madre; fra qualche tempo si sarebbe cominciata a vedere la pancia, e Vicenzino avrebbe fatto un macello. “Anche a me ammazza quello perché non ho parlato; lui è ‘uomo di onore’.”

Infatti con la sua fronte bassa, con i suoi “cacciolani,” le ciocche di capelli lasciate crescere sulle tempie, col dondolio del suo passo, col perpetuo rigonfiamento della tasca destra dei calzoni, si capiva subito che Vicenzino era

“uomo di onore”; uno di quegli imbecilli violenti capaci di ogni strage.

Su Sarina sopravvenne una nuova crisi di pianto più forte della prima perché in essa affiorava pure un demente rimorso di aver demeritato dal marito, quello specchio di cavalleria.

“Sarina, Sarina, di nuovo! Non fare così! Il giovanotto la deve sposare, la sposerà. Andrò a casa sua, parlerò con lui e con i suoi, tutto s’aggiusterà.

Vicenzino saprà solo del fidanzamento e il suo prezioso onore resterà intatto. Però debbo sapere chi è stato. Se lo sai, dimmelo.”

La sorella rialzò la testa: negli occhi le si leggeva adesso un altro terrore, non più quello animalesco delle coltellate ma uno più ristretto, più acerbo che il fratello non poté per il momento decifrare.

“Santino Pirrone è stato! Il figlio di Turi! e lo ha fatto per sfregio, per sfregio a me, a nostra madre, alla Santa Memoria di nostro padre. Io non gli ho mai parlato, tutti dicevano che era un buon figliuolo, invece è un infamone, un degno figlio di quella canaglia di suo padre, uno sdisonorato. Me lo sono ricordato dopo: in quei giorni di Novembre lo vedevo sempre passare qui davanti con due amici e con un geranio rosso dietro l’orecchio. Fuoco d’inferno, fuoco d’inferno!”

Il Gesuita prese una sedia, sedette vicino alla donna. Era chiaro, avrebbe dovuto ritardare la messa. L’affare era grave. Turi, il padre di Santino, del seduttore, era un suo zio; il fratello, anzi il fratello maggiore della Buon’Anima.

Venti anni fa era stato associato al defunto nella guardianìa, proprio al momento della maggiore e più meritevole attività. Dopo, una lite aveva diviso i fratelli, una di quelle liti familiari dalle radici inestricabili, che è impossibile sanare perché nessuna delle due parti parla chiaro, avendo ciascuna molto da nascondere. Il 137

fatto era che quando la Santa Memoria venne in possesso del piccolo mandorleto, il fratello Turi aveva detto che in realtà i metà apparteneva a lui perché la metà dei denari, o la metà della fatica, l’aveva fornita lui; però l’atto di acquisto era al solo nome di Gaetano, buon’anima. Turi tempestò e percorse le strade di S. Cono con la schiuma alla bocca: il prestigio della Santa Memoria si mise in gioco, amici s’intromisero e il peggio fu evitato; il mandorleto rimase a Gaetano, ma l’abisso fra i due rami della famiglia Pirrone divenne incolmabile; Turi non assistette, poi, nemmeno ai funerali del fratello e nella casa delle sorelle era nominato come “la canaglia” e basta. Il Gesuita era stato informato di tutto mediante intricate lettere dettate al Parroco e circa la canaglieria si era formato idee personalissime che non esprimeva per reverenza filiale. Il mandorleto, adesso, apparteneva a Sarina.

Tutto era evidente: l’amore, la passione non c’entravano. Era soltanto una porcata che vendicava un’altra porcata. Rimediabile però: il Gesuita ringraziò la Provvidenza che lo aveva condotto a S. Cono proprio in quei giorni. “Senti, Sarina, il guaio tè lo aggiusto io in due ore; tu però mi devi aiutare: la metà di Chìbbaro (era il mandorleto) lo devi dare in dote a ‘Ncilina. Non c’è rimedio: quella stupida vi ha rovinato.” E pensava come il Signore si serva talvolta anche delle cagnette in calore per attuare la giustizia Sua.

Sarina inviperì: “Metà di Chìbbaro! A quel seme di farabutti! Mai! Meglio morta!”

“Va bene. Allora dopo la Messa andrò a parlare con Vicenzino. Non aver paura, cercherò di calmarlo.” Si rimise il cappello in testa e le mani nella cintura.

Aspettava paziente, sicuro di sé.

Una edizione delle furie di Vicenzino, sia pure riveduta ed espurgata da un Padre Gesuita, si presentava sempre come illeggibile per la infelice Sarina che per la terza volta ricominciò a piangere; a poco a poco i singhiozzi però decrebbero, cessarono. La donna si alzò: “Sia fatta la volontà di Dio: aggiusta tu la cosa, qua non è più vita. Ma quel bei Chìbbaro! Tutto sudore di nostro padre!”

Le lagrime erano sul punto di ricominciare, ma Padre Pirrone era di già andato via.

Celebrato che fu il Divino Sacrifìzio, accettata la tazza di caffè offerta dal Parroco, il Gesuita si diresse di filato alla casa dello zio Turi. Non vi era mai stato ma sapeva che era una poverissima bicocca, proprio in Cima al paese, vicino alla forgia di mastro Ciccu. La trovò subito e dato che non vi pH erano finestre e che la porta era aperta per lasciar entrare un po’ di sole, si fermò sulla soglia: 138

nell’oscurità, dentro, si vedevano accumulati basti per muli, bisacce e sacchi: don Turi tirava avanti facendo il mulattiere, aiutato, adesso, dal figlio.

“Doràzio!” gridò Padre Pirrone. Era una abbreviazione della formula Deo gratias (agamus) che serviva agli ecclesiastici per chiedere il permesso di entrare. La voce di un vecchio gridò: “Chi è?” e un uomo si alzò dal fondo della stanza e si avvicinò alla porta. “Sono vostro nipote, il padre Saverio Pirrone. Vorrei parlarvi, se permettete.”

La sorpresa non fu grande: da due mesi almeno la visita sua o di un suo sostituto doveva essere attesa. Lo zio Turi era un vecchio vigoroso e diritto, cotto e ricotto dal sole e dalla grandine, con sul volto i solchi sinistri che i guai tracciano sulle persone non buone.

“Entra” disse, senza sorridere; gli fece largo ed anche, di malavoglia, l’atto di baciargli la mano. Padre Pirrone sedette su una delle grandi selle di legno.

L’ambiente era quanto mai povero: due galline razzolavano in un cantone e tutto odorava di stereo, di panni bagnati e di miseria cattiva.

“Zio, sono moltissimi anni che non ci vediamo, ma non è stata tutta colpa mia; io non sto in paese, come sapete, e voi del resto non vi fate mai vedere a casa di mia madre, vostra cognata; e questo ci dispiace.” “Io in quella casa i piedi non ce li metterò mai. Mi si rivolta lo stomaco quando vi passo davanti. Turi Pirrone i torti ricevuti non li dimentica, neppure dopo vent’anni.”

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