"Unleash your creativity and unlock your potential with MsgBrains.Com - the innovative platform for nurturing your intellect." » » ,,Il gattopardo'' di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Add to favorite ,,Il gattopardo'' di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Select the language in which you want the text you are reading to be translated, then select the words you don't know with the cursor to get the translation above the selected word!




Go to page:
Text Size:

Quello si. Anche lui aveva “corteggiato la morte,” anzi con l’abbandono di tutto aveva organizzato per sé quel tanto di morte che è possibile metter su continuando a vivere. Ma gli altri... C’erano anche i nipoti: Fabrizietto, il più giovane dei Salina, così bello, così vivace, tanto caro.

Tanto odioso. Con la sua doppia dose di sangue Màlvica, con gl’istinti goderecci, con le sue tendenze verso un’eleganza borghese. Era inutile sforzarsi a credere il contrario, l’ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo. Perché il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie; Fabrizietto avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a quelli dei suoi compagni di ginnasio, ricordi di merende economiche, di scherzucci malvagetti agli insegnanti, di cavalli acquistati avendo l’occhio al loro prezzo più che ai loro pregi; ed il senso del nome si sarebbe mutato in vuota pompa sempre amareggiata dall’assillo che altri potessero pompeggiare più di lui. Si sarebbe svolta la caccia al matrimonio ricco quando questa sarebbe divenuta una routine consueta e non più un’avventura audace e predatoria come era stato quello di Tancredi. Gli arazzi di Donnafugata, i mandorleti di Ragattisi, magari, chissà, la fontana di Anfitrite avrebbero avuto la sorte grottesca di esser metamorfizzati in terrine di foie-gras presto digerite, in donnine da Ba-ta-clan più labili del loro belletto, da quelle delicate e sfumate cose che erano. E di lui sarebbe rimasto soltanto il ricordo di un vecchio e collerico nonno che era schiattato in un pomeriggio di Luglio proprio a tempo per impedire al ragazzo di andare a fare i bagni a Livorno. Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto.

Dalla camera vicina aperta sullo stesso balcone gli giungeva la voce di Concetta: “Non se ne poteva fare a meno; bisognava farlo venire; non mi sarei mai consolata se non lo si fosse chiamato.” Comprese subito: si trattava del prete. Un momento ebbe l’idea di rifiutare, di mentire, di mettersi a gridare che stava benissimo, che non aveva bisogno di nulla. Presto si accorse del ridicolo delle proprie intenzioni: era il principe di Salina e come un principe di Salina doveva 165

morire, con tanto di prete accanto. Concetta aveva ragione. Perché poi avrebbe dovuto sottrarsi a ciò che era desiderato da migliaia di altri morenti? E tacque aspettando di udire il campanellino del Viatico. Quel ballo dai Ponteleone: Angelica aveva odorato come un fiore fra le sue braccia. Lo senti presto: la parrocchia della Pietà era quasi di fronte. Il suono argentino e festoso si arrampicava sulle scale, irrompeva nel corridoio, si fece acuto quando la porta si apri: preceduto dal direttore dell’Albergo, svizzerotto seccatissimo di avere un moribondo nel proprio esercizio, padre Balsàno, il parroco entrò recando sotto la pisside il Santissimo custodito dall’astuccio di pelle. Tancredi e Fabrizietto sollevarono la poltrona, la riportarono nella stanza; gli altri erano inginocchiati.

Più col gesto che con la voce, disse: “Via! via!” Voleva confessarsi. Le cose si fanno o non si fanno. Tutti uscirono, ma quando dovette parlare si accorse che non aveva molto da dire: ricordava alcuni peccati precisi ma gli sembravano tanto meschini che davvero non valeva la pena di aver importunato un degno sacerdote in quella giornata di afa. Non che si sentisse innocente: ma era tutta la vita ad esser colpevole, non questo o quel singolo fatto; vi è un solo peccato vero, quello originale; e ciò non aveva più il tempo di dirlo. I suoi occhi dovettero esprimere un turbamento che il sacerdote poté scambiare per espressione di contrizione; come di fatto in un certo senso era; fu assolto. Il mento, a quanto sembrava, gli poggiava sul petto perché il prete dovette inginocchiarsi lui per insinuargli la particela fra le labbra. Poi furono mormorate le sillabe immemoriali che spianano la via e il sacerdote si ritirò.

La poltrona non fu più trascinata sul balcone. Fabrizietto e Tancredi gli sedettero vicino e gli tenevano ciascuno una mano; il ragazzo lo guardava fisso con la curiosità naturale in chi assista alla sua prima agonia, e niente di più; chi moriva non era un uomo, era un nonno, il che è assai diverso. Tancredi gli stringeva forte la mano e parlava, parlava molto, parlava allegro: esponeva progetti cui lo associava, commentava i fatti politici; era deputato, gli era stata promessa la legazione di Lisbona, conosceva molti fatterelli segreti e sapidi. La voce nasale, il vocabolario arguto delineavano un rutile fregio sul sempre più fragoroso erompere delle acque della vita. Il Principe era grato delle chiacchiere, e gli stringeva la mano con grande sforzo ma con trascurabile risultato. Era grato, ma non lo stava a sentire. Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici: eccoli. Due settimane prima del suo matrimonio, sei 166

settimane dopo; mezz’ora in occasione della nascita di Paolo, quando senti l’orgoglio di aver prolungato di un rametto l’albero di casa Salina. (L’orgoglio era abusivo, lo sapeva adesso, ma la fierezza vi era stata davvero); alcune conversazioni con Giovanni prima che questi scomparisse, alcuni monologhi, per esser veritieri, durante i quali aveva creduto scoprire nel ragazzo un animo simile al suo; molte ore in osservatorio assolte nell’astrazione dei calcoli e nell’inseguimento dell’irraggiungibile; ma queste ore potevano davvero esser collocate nell’attivo della vita? Non erano forse un’elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie? Non importava, c’erano state.

Nella strada sotto, fra l’albergo e il mare, un organetto si fermò e suonava nell’avida speranza di commuovere i forestieri che in quella stagione non c’erano.

Macinava “Tu che a Dio spiegasti l’ale”; quel che rimaneva di Don Fabrizio pensò a quanto fiele venisse in quel momento mescolato a tante agonie in Italia da queste musiche meccaniche. Tancredi col suo intuito corse al balcone, buttò giù una moneta, fece segno di tacere. Il silenzio fuori si richiuse, il fragore dentro ingigantì.

Tancredi. Certo, molto dell’attivo proveniva da lui: la sua comprensione tanto più preziosa in quanto ironica, il godimento estetico di veder come si destreggiasse fra le difficoltà della vita, l’affettuosità beffarda come si conviene che sia; dopo, i cani: Fufi, la grossa mops della sua infanzia, Tom, l’irruento barbone confidente ed amico, gli occhi mansueti di Svelto, la balordaggine deliziosa di Bendicò, le zampe carezzevoli di Pop, il pointer che in questo momento lo cercava sotto i cespugli e le poltrone della villa e che non lo avrebbe più ritrovato; qualche cavallo, questi già più distanti ed estranei. Vi erano le prime ore dei suoi ritorni a Donnafugata, il senso di tradizione e di perennità espresso in pietra ed in acqua, il tempo congelato; lo schioppettare allegro di alcune cacce, il massacro affettuoso dei conigli e delle pernici, alcune buone risate con Tumeo, alcuni minuti di compunzione al convento fra l’odore di muffa e di confetture. Vi era altro? Sì, vi era altro: ma erano di già pepite miste a terra: i momenti sodisfatti nei quali aveva dato risposte taglienti agli sciocchi, la contentezza provata quando si era accorto che nella bellezza e nel carattere di Concetta si perpetuava una vera Salina; qualche momento di foga amorosa; la sorpresa nel ricevere la lettera di Arago che spontaneamente si congratulava per l’esattezza dei difficili calcoli relativi alla cometa di Huxley. E perché no? L’esaltazione pubblica quando aveva ricevuto la medaglia in Sorbona, la sensazione delicata di alcune 167

sete di cravatte, l’odore di alcuni cuoi macerati, l’aspetto ridente, l’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate, quella intravista ancora ieri alla stazione di Catania, mescolata alla folla col suo vestito marrone da viaggio e i guanti di camoscio che era sembrata cercare il suo volto disfatto dal di fuori dello scompartimento insudiciato. Che gridio di folla. “Panini gravidi!” “Il Corriere dell’Isola!” E poi quell’anfanare del treno stanco senza fiato... E quell’atroce sole all’arrivo, quei sorrisi bugiardi, l’eromper via delle cateratte...

Nell’ombra che saliva si provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto: il suo cervello non dipanava più il semplice calcolo: tre mesi, venti giorni, un totale di sei mesi, sei per otto ottantaquattro... quarantottomila... V 840.000...

Si riprese. “Ho settantatré anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due... tre al massimo.” E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settantenni.

Senti che la mano non stringeva più quella dei nipoti. Tancredi si alzò in fretta ed uscì... Non era più un fiume che erompeva da lui, ma un oceano, tempestoso, irto di spume e di cavalloni sfrenati...

Doveva aver avuto un’altra sincope perché si accorse a un tratto di esser disteso sul letto: qualcuno gli teneva il polso: dalla finestra il riflesso spietato del mare lo accecava; nella camera si udiva un sibilo: era il suo rantolo ma non lo sapeva; attorno vi era una piccola folla, un gruppo di persone estranee che lo guardavano fisso con un’espressione impaurita: via via li riconobbe: Tancredi, Concetta, Angelica, Francesco-Paolo, Carolina, Fabrizietto; chi gli teneva il polso era il dottor Cataliotti; credette di sorridere a questo per dargli il benvenuto ma nessuno poté accorgersene: tutti, tranne Concetta, piangevano; anche Tancredi che diceva: “Zio, zione caro!”

Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora: snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappelline di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliosa avvenenza del volto. Insinuava una manina inguantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari.

Il fragore del mare si placò del tutto.

168

169

PARTE OTTAVA

Maggio 1910

Chi andava a far visita alle vecchie signorine Salina trovava quasi sempre almeno un cappello di prete sulle sedie dell’anticamera. Le signorine erano tre, segrete lotte per l’egemonia casalinga le avevano dilaniate, e ciascuna di esse, caratteri forti a proprio modo, desiderava avere un confessore particolare. Come in quell’anno 1910 si usava ancora le confessioni avvenivano in casa e gli scrupoli delle penitenti esigevano che esse fossero frequenti. A quel plotoncino di confessori bisognava aggiungere il cappellano che ogni mattina veniva a celebrare la Messa nella cappella privata, il Gesuita che aveva assunto la direzione spirituale generale della casa, i monaci e i preti che venivano a riscuotere elargizioni per questa o per quella parrocchia od opera pia; e si comprenderà subito come il viavai di sacerdoti fosse incessante e perché l’anticamera di villa Salina ricordasse spesso uno di quei negozi romani intorno a piazza della Minerva che espongono in vetrina tutti i copricapo ecclesiastici immaginabili da quelli color di fiamma dei Cardinali a quelli color tizzone per curati di campagna.

In quel tale pomeriggio di Maggio 1910 l’adunata di cappelli era addirittura senza precedenti. La presenza del Vicario Generale dell’Archidiocesi era attestata dal suo vasto cappello di fine castoro di un delizioso color “fuchsia” adagiato su di una sedia appartata, con accanto un guanto solo, il destro, in seta intrecciata del medesimo delicato colore; quella del suo segretario da una lucente peluche nera a peli lunghi, la calotta del quale era circondata da un sottile cordoncino violetto; quella di due padri gesuiti dai loro cappelli dimessi in feltro tenebroso, simboli di riserbo e modestia. Il copricapo del cappellano giaceva su una sedia isolata come si conviene a quello di persona sottoposta a inchiesta.

La riunione di quel giorno, infatti, non era roba da poco. In esecuzione di disposizioni pontificie il cardinale-arcivescovo aveva iniziato una ispezione agli oratori privati dell’Archidiocesi allo scopo di assicurarsi dei meriti delle persone che avevano l’autorizzazione di farvi officiare, della conformità dell’arredamento e del culto ai canoni della Chiesa, dell’autenticità delle reliquie in esse venerate. La cappella privata delle signorine Salina era la più nota della città e una delle prime 170

che Sua Eminenza si proponeva di visitare; e proprio per predisporre questo avvenimento, fissato per l’indomani mattina, Monsignor Vicario si era recato a villa Salina. Alla Curia Arcivescovile erano pervenute, sgocciolate attraverso chissà quali filtri, voci incresciose in relazione a quella cappella; non certo in rapporto ai meriti delle proprietarie ed al loro diritto di adempiere in casa propria ai loro doveri religiosi; questi erano argomenti fuori discussione, e neppure si poneva in dubbio la regolarità e la continuità del culto, cose che erano quasi perfette se si volesse trascurare una soverchia riluttanza, del resto comprensibile, delle signorine Salina a far partecipare ai riti sacri persone estranee alla loro più intima cerchia familiare. L’attenzione del Cardinale era stata attratta su di una immagine venerata nella cappella e sulle reliquie, sulle diecine di reliquie, esposte: circa l’autenticità di esse erano corse le dicerie più inquietanti e si desiderava che la loro genuinità venisse comprovata. Il cappellano, che pur era un ecclesiastico di buona cultura e di migliori speranze, era stato rimproverato con energia per non aver sufficientemente aperto gli occhi alle vecchie signorine: egli aveva avuto, se è lecito esprimersi così, “una lavata di tonsura.”

La riunione si svolgeva nel salone centrale della villa, quello delle bertucce e dei pappagalli. Su di un divano ricoperto di panno bleu con filettature rosse acquisto di trent’anni prima che stonava malamente con le tinte evanescenti del prezioso parato, sedeva la signorina Concetta con Monsignor Vicario alla destra; ai lati del divano due poltrone simili ad esso avevano accolto la signorina Carolina ed uno dei Gesuiti, padre Corti, mentre la signorina Caterina, che aveva le gambe paralizzate, se ne stava su una seggiolina a rotelle e gli altri ecclesiastici si accontentavano delle sedie ricoperte della medesima seta del parato che allora sembravano a tutti di minor pregio delle invidiate poltrone.

Le tre sorelle erano tutte poco al di qua o poco al di là , della settantina, e Concetta non era la maggiore; ma la lotta egemonica alla quale si è fatto cenno all’inizio essendosi chiusa da tempo con la debellatio delle avversarie, nessuno avrebbe mai pensato a contestarle il rango di padrona di casa. Nella persona di lei emergevano ancora i relitti di una passata bellezza: grassa e imponente nei suoi rigidi abiti di moire nera, portava i capelli bianchissimi rialzati sulla testa in modo da scoprire la fronte quasi indenne; questo, insieme agli occhi sdegnosi e ad una contrazione astiosetta al di sopra del naso, le conferiva un aspetto autoritario e quasi imperiale; a tal punto che un suo nipote, avendo intravisto il ritratto di una zarina illustre in non sapeva più qual libro, la chiamava in privato La Grande 171

Catherine, appellativo sconveniente che, del resto, la totale purezza di vita di Concetta e l’assoluta ignoranza del nipote in fatto di storia russa rendevano, a conti fatti, innocente.

La conversazione durava da un’ora, il caffè era stato preso, e si faceva tardi; Monsignor Vicario riassunse i propri argomenti: “Sua Eminenza paternamente desidera che il culto celebrato in privato sia conforme ai più puri riti di Santa Madre Chiesa ed è proprio per questo che la sua cura pastorale si rivolge fra le prime alla vostra cappella perché egli sa come la vostra casa splenda, faro di luce, sul laicato palermitano, e desidera che dalla ineccepibilità degli oggetti venerati scaturisca maggiore edificazione per voi stesse e per tutte le anime religiose.”

Concetta taceva, ma Carolina, la sorella maggiore, esplose: “Adesso ci dovremo presentare alle nostre conoscenze come delle accusate; questa di una verifica alla nostra cappella è una cosa, scusatemi Monsignore, che non avrebbe dovuto nemmeno passare per la testa di Sua Eminenza.”

Monsignore sorrideva, divertito: “Signorina, Lei non immagina quanto la Sua emozione appaia grata ai miei occhi: essa è l’espressione della fede ingenua, assoluta, graditissima alla Chiesa e, certamente, a Gesù Cristo Nostro Signore; ed è soltanto per più far fiorire questa fede e per purificarla che il Santo Padre ha raccomandato queste revisioni le quali, d’altronde, si vanno compiendo da qualche mese in tutto l’orbe cattolico.”

Il riferirsi al Santo Padre non era a dir vero opportuno. Carolina infatti faceva parte di quelle schiere di cattolici che sono persuasi di possedere le verità religiose più a fondo del Papa; ed alcune moderate innovazioni di Pio Decimo, l’abolizione di alcune secondarie feste di precetto in ispecie, la avevano già prima esasperata. “Questo Papa dovrebbe badare ai fatti propri; farebbe meglio.” Poiché le sorse il dubbio di essere andata troppo oltre, si segnò, mormorò un Gloria Patri.

Concetta intervenne: “Non lasciarti trascinare a dire cose che non pensi, Carolina. Che impressione riporterà di noi Monsignore qui presente?”

Questi, a dir vero, sorrideva più che mai; pensava soltanto che si trovava di fronte a una bambina invecchiata nella ristrettezza di idee e nelle pratiche senza luce. E, benigno, indulgeva.

“Monsignore pensa che si trovi dinanzi a tre sante donne,” disse. Padre Corti, il Gesuita, volle rallentare la tensione. “Io, Monsignore, sono fra quelli che meglio possono confermare le Vostre parole. Padre Pirrone, la cui memoria è venerata da quanti lo hanno conosciuto, mi narrava spesso, quando ero novizio, del santo 172

ambiente nel quale le signorine sono state allevate; del resto il nome di Salina basterebbe a render conto di tutto.”

Monsignore desiderava giungere a fatti concreti: “Piuttosto, signorina Concetta, adesso che tutto è stato chiarito, vorrei visitare, se loro lo permettono, la cappella per poter preparare Sua Eminenza, alle meraviglie di fede che vedrà domattina.”

Ai tempi del Principe Fabrizio nella villa non vi era cappella: tutta la famiglia si recava in chiesa nei giorni di festa ed anche Padre Pirrone per celebrare la propria messa doveva ogni mattina fare un pezzo di strada. Dopo la morte di Don Fabrizio però, quando per varie complicazioni ereditarie che sarebbe fastidioso narrare, la villa divenne esclusiva proprietà delle tre sorelle, esse pensarono subito a metter su il proprio oratorio. Venne scelto un salotto un po’ fuor di mano che, con le sue mezze colonne di finto marmo incastrate nelle pareti destava un tenuissimo ricordo di basilica romana; dal centro del soffitto venne raschiata via una pittura sconvenientemente mitologica e si addobbò un altare. E tutto era fatto.

Quando Monsignore entrò la cappella era illuminata dal sole del pomeriggio calante; e al disopra dell’altare il quadro veneratissimo dalle signorine si trovava in piena luce: era un dipinto nello stile di Cremona e rappresentava una giovinetta esile, assai piacente, gli occhi rivolti al ciclo, i molli capelli bruni sparsi in grazioso disordine sulle spalle seminude; nella destra essa stringeva una lettera spiegazzata; l’espressione sua era di trepida attesa non disgiunta da una certa letizia che le brillava nei candidissimi occhi; nel fondo verdeggiava un mite paesaggio lombardo. Niente Gesù Bambini, ne corone, ne serpenti, ne stelle, nessuno insomma di quei simboli che sogliono accompagnare l’immagine di Maria; il pittore doveva essersi fidato che l’espressione verginale fosse sufficiente a farla riconoscere. Monsignore si avvicinò, sali uno dei gradini dell’altare e, senza essersi segnato, rimase a guardare il quadro per qualche minuto, esprimendo una sorridente ammirazione, come se fosse stato un critico d’arte. Dietro di lui le sorelle si facevano segni della croce e mormoravano delle Ave Maria.

Poi il prelato ridiscese il gradino, si volse: “Una bella pittura” disse, “molto espressiva.”

“Una immagine miracolosa, Monsignore, miracolosissima!” spiegò Caterina la povera inferma, sporgendosi dal suo strumento di tortura ambulante. “Quanti miracoli ha fatto!” Carolina incalzava: “Rappresenta la Madonna della Lettera. La Vergine è sul punto di consegnare la Santa Missiva ed invoca dal Figlio Divino la protezione sul popolo messinese; quella protezione che è stata gloriosamente 173

concessa, come si è visto dai molti miracoli avvenuti in occasione del terremoto di due anni fa.”

“Bella pittura, signorina; qualunque cosa rappresenti è un bei quadro e bisogna tenerlo da conto.” Poi si volse alle reliquie: settantaquattro ve ne erano e coprivano fitte le due parti di parete di fianco all’altare: ciascuna era chiusa in una cornice che conteneva anche un cartiglio con l’indicazione di che cosa fosse e un numero che si riferiva alla documentazione di autenticità. I documenti stessi, spesso voluminosi e gravati di sigilli, erano chiusi in una cassa ricoperta di damasco che stava in un angolo. Vi erano cornici di argento scolpito e di argento liscio, cornici di rame e di corallo, cornici di tartaruga; ve ne erano di filigrana, di legni rari, di bosso, di velluto rosso e di velluto azzurro; grandi e minuscole, ottagonali, quadrate, tonde, ovali; cornici che valevano un patrimonio e cornici comperate ai magazzini Bocconi; tutte amalgamate, per quelle anime devote, ed esaltate dal loro religioso compito di custodi dei soprannaturali tesori.

Carolina era stata la vera creatrice di questa raccolta: aveva scovato donna Rosa, una grassissima vecchia, per metà monaca, che possedeva relazioni fruttuose in tutte le chiese, tutti i conventi e tutte le opere pie di Palermo e dintorni. Era stata questa donna Rosa a portare a villa Salina ogni paio di mesi una reliquia di santi avvolta in carta velina. Era riuscita, diceva, a strapparla ad una parrocchia disagiata o a un casato in decadenza. Se il nome del venditore non era fatto era soltanto a cagione di una comprensibile, anzi encomiabile, discrezione; e d’altronde le prove di autenticità che essa recava e consegnava sempre erano lì chiare come il sole, scritte com’erano in latino o in caratteri misteriosi che venivano detti greci o siriaci. Concetta, amministratrice e tesoriera, pagava. Dopo vi era la ricerca e l’adattamento delle cornici. E di nuovo l’impassibile Concetta pagava. Vi fu un momento, un paio d’anni durò, durante il quale la smania collezionista turbò financo i sonni di Carolina e Caterina; al mattino si raccontavano l’un l’altra i loro sogni di miracolosi ritrovamenti, e speravano si realizzassero come talvolta avveniva dopo che i sogni erano stati confidati a donna Rosa. Quel che sognasse Concetta non lo sapeva nessuno. Poi donna Rosa mori e l’afflusso delle reliquie cessò quasi del tutto; del resto era sopravvenuta una certa sazietà.

Monsignore guardò con una certa fretta alcune delle cornici più a portata di vista. “Tesori” diceva “tesori; che bellezza di cornici.” Poi, congratulandosi dei belli arredi (proprio così disse, dantescamente) e promettendo di ritornare l’indomani 174

con Sua Eminenza (“sì, alle nove precise”), si genuflette e si segnò rivolto a una modesta Madonna di Pompei appesa su una parete laterale, e uscì dalla cappella.

Presto le sedie rimasero vedove di cappelli, e gli ecclesiastici salirono sulle carrozze dell’Arcivescovado che, con i loro cavalli morelli, avevano aspettato in cortile.

Monsignore tenne ad avere nella propria carrozza il cappellano, padre Titta, che da questa distinzione fu molto confortato. Le vetture si mossero e Monsignore taceva, si costeggiò la ricca villa Falconeri, con la “bougainvillea” fiorita che si spandeva oltre il muro del giardino splendidamente curato; quando si giunse alla discesa verso Palermo, fra gli aranceti, Monsignore parlò.

“E così Lei, padre Titta, ha avuto il fegato di celebrare per anni il Santo Sacrificio dinanzi al quadro di quella ragazza? Di quella ragazza che ha ricevuto l’appuntamento ed aspetta l’innamorato. Non venga a dirmi che anche Lei credeva che fosse una immagine sacra.” “Monsignore, sono colpevole, lo so. Ma non è facile affrontare le signorine Salina, la signorina Carolina. Lei questo non può saperlo.” Monsignore rabbrividì al ricordo. “Figliolo, hai toccato la piaga col dito; e questo sarà preso in considerazione.”

Carolina era andata a sfogare la propria ira in una lettera a Chiara, la sorella sposata a Napoli; Caterina, stancata dalla lunga conversazione penosa, era stata posta a letto; Concetta rientrò nella sua camera solitaria. Era una di quelle stanze (sono numerose a tal punto che si potrebbe esser tentati di dire che lo sono tutte) che hanno due volti: uno, quello mascherato, che mostrano al visitatore ignaro; l’altro, quello nudo, che si rivela soltanto a chi sia al corrente delle cose, al loro padrone anzitutto cui si palesano nella propria squallida essenza. Soleggiata era questa camera, e si affacciava sul profondo giardino; in un angolo un alto letto con quattro guanciali (Concetta soffriva del cuore e doveva dormire quasi seduta); niente tappeti ma un bei pavimento bianco con intricate filettature gialle, un monetario prezioso con diecine di cassettini ricoperti di pietra dura e di scagliola; scrivania, tavolo centrale e tutto il mobilio di un brioso stile maggiolino di esecuzione paesana, con figure di cacciatori, di cani, di selvaggina che si affaccendavano ambrate sul fondo di palissandro; arredamento questo che Concetta stessa stimava antiquato e persino di pessimo gusto e che, venduto all’asta che segui la morte di lei, forma oggi l’orgoglio di uno spedizioniere dovizioso quando la “sua signora” offre un cocktail alle amiche invidiose. Sulle pareti ritratti, acquarelli, immagini sacre; tutto pulito, in ordine. Due cose 175

Are sens