ronzanti intorno siano dei mosconi innocui. Queste sono cose che, non si sa poiperché, non si confessano; si lascia che gli altri le intuiscano e nessuno intorno a luile aveva intuite mai, nessuna delle fìglie che sognavano un oltretomba identico aquesta vita, completo di magistratura, cuochi, conventi e orologiai, di tutto; nonStella che divorata dalla cancrena del diabete si era pure aggrappatameschinamente a questa esistenza di pene. Forse solo Tancredi per un attimoaveva compreso quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia: “Tu, zione,corteggi la morte.” Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo si,la fuga decisa, lo scompartimento nel treno, riservato.
Perché adesso la faccenda era differente, del tutto diversa. Seduto su una poltrona, le gambe lunghissime avvolte in una coperta, sul balcone dell’albergo Trinacria, sentiva che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Reno. Era il mezzogiorno di un Lunedì di fine Luglio, ed il mare di Palermo compatto, oleoso, inerte, si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobile ed appiattito come un cane che si sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il sole immoto e perpendicolare stava li sopra piantato a gambe larghe e lo frustava senza pietà.
Il silenzio era assoluto. Sotto l’altissima luce Don Fabrizio non udiva altro suono che quello Ulteriore della vita che erompeva via da lui.
Era arrivato la mattina da Napoli, poche ore fa; vi si era recato per consultare il professore Sémmola. Accompagnato dalla quarantenne figlia Concetta, dal nipote Fabrizietto, aveva compiuto un viaggio lugubre, lento come una cerimonia funebre. Il tramestio del porto alla partenza e quello dell’arrivo a Napoli, l’odore acre della cabina, il vocio incessante di quella città paranoica lo avevano esasperato, di quella esasperazione querula dei debolissimi che li stanca e li prostra, che suscita l’esasperazione opposta dei buoni cristiani che hanno molti anni di vita nelle bisacce. Aveva preteso di ritornare per via di terra: decisione improvvida che il medico aveva cercato di combattere; ma lui aveva insistito e così imponente era ancora l’ombra del suo prestigio che la aveva spuntata; col risultato di dover poi rimanere trentasei ore rintanato in una scatola rovente, soffocato dal fumo delle gallerie che si ripetevano come sogni febbrili, accecato dal sole nei tratti scoperti, espliciti come tristi realtà, umiliato dai cento bassi servizi che aveva dovuto richiedere al nipote spaurito; si attraversavano paesaggi malefici, giogaie maledette, pianure malariche e torpide; quei paesaggi calabresi e basilischi che a lui sembravano barbarici mentre di fatto erano tali e quali quelli 161
siciliani. La linea ferroviaria non era ancora compiuta: nel suo ultimo tratto vicino a Reggio faceva una larga svolta per Metaponto attraverso paesaggi lunari che per scherno portavano i nomi atletici e voluttuosi di Crotone e di Sibari. A Messina poi, dopo il mendace sorriso dello Stretto, sbugiardato subito dalle riarse colline peloritane, di nuovo una svolta, lunga come una crudele mora procedurale; si era discesi a Catania, ci si era arrampicati verso Castrogiovanni; la locomotiva che annaspava su per i pendii favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforzato; e, dopo una discesa fragorosa, si era giunti a Palermo. All’arrivo le solite maschere dei familiari con il dipinto sorriso di compiacimento per il buon esito del viaggio. Fu anzi dal sorriso consolatorio delle persone che lo aspettavano alla stazione, dal loro finto, e mal finto, aspetto rallegrato che gli si rivelò il vero senso della diagnosi di Sémmola che a lui stesso aveva detto soltanto delle rassicuranti generalità; e fu allora, dopo esser sceso dal treno, mentre abbracciava la nuora sepolta nelle gramaglie di vedova, i figli che mostravano i loro denti nei sorrisi, Tancredi con i suoi occhi timorosi Angelica con la seta del corpetto ben tesa dai seni maturi, fu allora che si fece udire il fragore della cascata.
Probabilmente svenne, perché non ricordava come fosse arrivato alla vettura; vi si trovò disteso con le gambe rattrappite, col solo Tancredi vicino. La carrozza non si era ancora mossa e da fuori gli giungeva all’orecchio il parlottare dei familiari.
“Non è niente” “II viaggio è stato troppo lungo” “Con questo caldo sveniremmo tutti.” “Arrivare sino alla villa lo stancherebbe troppo.” Era di nuovo perfettamente lucido: notava la conversazione seria che si svolgeva fra Concetta e Francesco Paolo, l’eleganza di Tancredi, il suo vestito a quadretti marrone e bigi, la bombetta bruna; e notò anche come il sorriso del nipote non fosse una volta tanto beffardo, anzi come fosse tinto di malinconico affetto; e da questo ricevette la sensazione agrodolce che il nipote gli volesse bene ed anche che sapesse che lui era spacciato, dato che la perpetua ironia si era adattata ad esser spazzata via dalla tenerezza. La carrozza si mosse e svoltò sulla destra. “Ma dove andiamo, Tancredi?” La propria voce lo sorprese, vi avvertiva l’eco del rombo interiore.
“Zione, andiamo all’albergo Trinacria; sei stanco e la villa è lontana; ti riposerai una notte e domani tornerai a casa. Non ti sembra giusto?” “Ma allora andiamo alla nostra casa di mare; è ancora più vicina.” Questo però non era possibile: la casa non era montata, come ben sapeva; serviva solo per occasionali colazioni in vista del mare; non vi era neppure un letto. “All’albergo starai meglio, zio; avrai 162
tutte le comodità.” Lo trattavano come un neonato; di un neonato, del resto, aveva appunto il vigore.
Un medico fu la prima comodità che trovò all’albergo; era stato fatto chiamare in fretta, forse durante la sua sincope. Ma non era il dottor Cataliotti, quello che sempre lo curava, incravattato di bianco sotto il volto sorridente e i ricchi occhiali d’oro; era un povero diavolo, il medico di quel quartiere angustiato, il testimonio impotente di mille agonie miserabili. Al di sopra della redingote sdrucita si allungava il povero volto emaciato irto di peli bianchi, un volto disilluso d’intellettuale famelico; quando estrasse dal taschino l’orologio senza catena si videro le macchie di verderame che avevano trapassato la doratura posticcia.
Anche lui era una povera otre che lo sdrucio della mulattiera aveva liso e che spandeva senza saperlo le ultime gocce di olio. Misurò i battiti del polso, prescrisse delle gocce di canfora, mostrò i denti cariati in un sorriso che voleva essere rassicurante e che invece chiedeva pietà; se ne andò a passi felpati.
Presto dalla farmacia vicina giunsero le gocce; gli fecero bene; si senti un po’
meno debole ma l’impeto del tempo che gli sfuggiva non diminuì la propria foga.
Don Fabrizio si guardò nello specchio dell’armadio: riconobbe più il proprio vestito che sé stesso: altissimo, allampanato, con le guance infossate, la barba lunga di tre giorni; sembrava uno di quegli inglesi maniaci che deambulano nelle vignette dei libri di Verne che per Natale regalava a Fabrizietto, un Gattopardo in pessima forma. Perché mai Dio voleva che nessuno morisse con la propria faccia?
Perché a tutti succede cosi: si muore con una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso imbrattato; anche Paolo quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la faccia contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il cavallo che lo aveva sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore della vita in fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri corpi giovani? Avrebbe voluto contravvenire per quanto potesse a quest’assurda regola del camuffamento forzato; sentiva però che non poteva, che sollevare il rasoio sarebbe stato come, un tempo, sollevare il proprio scrittoio. “Bisogna far chiamare un barbiere” disse a Francesco Paolo. Ma subito pensò: “No. È una regola del gioco, esosa ma formale. Mi raderanno dopo.” E disse forte: “Lascia stare; ci penseremo poi.” L’idea di questo estremo abbandono del cadavere con il barbiere accovacciato sopra non lo turbò.
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Il cameriere entrò con una bacinella di acqua tiepida e una spugna, gli tolse la giacca e la camicia, gli lavò la faccia e le mani, come si lava un bimbo, come si lava un morto. La fuliggine di un giorno e mezzo di ferrovia rese funerea anche l’acqua. Nella stanza bassa si soffocava: il caldo faceva lievitare gli odori, esaltava il tanfo delle peluches mal spolverate; le ombre delle diecine di scarafaggi che vi erano stati calpestati apparivano nel loro odore medicamentoso; fuori dal tavolino di notte i ricordi tenaci delle orine vecchie e diverse incupivano la camera. Fece aprire le persiane: l’albergo era in ombra ma la luce riflessa dal mare metallico era accecante; meglio questo però che quel fetore di prigione; disse di portare una poltrona sul balcone; appoggiato al braccio di qualcheduno si trascinò fuori e dopo quel paio di metri sedette con la sensazione di ristoro che provava un tempo riposandosi dopo sei ore di caccia in montagna. “Di’ a tutti di lasciarmi in pace; mi sento meglio; voglio dormire.” Aveva sonno davvero; ma trovò che cedere adesso al sopore era altrettanto assurdo quanto mangiare una fetta di torta subito prima di un desiderato banchetto. Sorrise. “Sono sempre stato un goloso saggio.” E se ne stava li immerso nel grande silenzio esteriore, nello spaventevole rombo interno.
Poté volgere la testa a sinistra: a fianco di Monte Pellegrino si vedeva la spaccatura nella cerchia dei monti, e più lontano i due colli ai piedi dei quali era la sua casa; irraggiungibile com’era questa gli sembrava lontanissima; ripensò al proprio osservatorio, ai cannocchiali destinati ormai a decenni di polvere; al povero Padre Pirrone che era polvere anche lui; ai quadri dei feudi, alle bertucce del parato, al grande letto di rame nel quale era morta la sua Stelluccia; a tutte queste cose che adesso gli sembravano umili anche se preziose, a questi intrecci di metallo, a queste trame di fili, a queste tele ricoperte di terre e di succhi d’erba che erano tenute in vita da lui, che fra poco sarebbero piombate, incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio; il cuore gli si strinse, dimenticò la propria agonia pensando all’imminente fine di queste povere cose care. La fila inerte delle case dietro di lui, la diga dei monti, le distese flagellate dal sole, gli impedivano financo di pensare chiaramente a Donnafugata; gli sembrava una casa apparsa in sogno; non più sua, gli sembrava: di suo non aveva adesso che questo corpo sfinito, queste lastre di lavagna sotto i piedi, questo precipizio di acque tenebrose verso l’abisso. Era solo, un naufrago alla deriva su una zattera, in preda a correnti indomabili.
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C’erano i figli, certo. I figli. Il solo che gli rassomigliasse, Giovanni, non era più qui. Ogni paio di anni inviava saluti da Londra; non aveva più nulla da fare con il carbone e commerciava in brillanti; dopo che Stella era morta era giunta all’indirizzo di lei una letterina e poco dopo un pacchettino con un braccialetto.
Quello si. Anche lui aveva “corteggiato la morte,” anzi con l’abbandono di tutto aveva organizzato per sé quel tanto di morte che è possibile metter su continuando a vivere. Ma gli altri... C’erano anche i nipoti: Fabrizietto, il più giovane dei Salina, così bello, così vivace, tanto caro.
Tanto odioso. Con la sua doppia dose di sangue Màlvica, con gl’istinti goderecci, con le sue tendenze verso un’eleganza borghese. Era inutile sforzarsi a credere il contrario, l’ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo. Perché il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie; Fabrizietto avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a quelli dei suoi compagni di ginnasio, ricordi di merende economiche, di scherzucci malvagetti agli insegnanti, di cavalli acquistati avendo l’occhio al loro prezzo più che ai loro pregi; ed il senso del nome si sarebbe mutato in vuota pompa sempre amareggiata dall’assillo che altri potessero pompeggiare più di lui. Si sarebbe svolta la caccia al matrimonio ricco quando questa sarebbe divenuta una routine consueta e non più un’avventura audace e predatoria come era stato quello di Tancredi. Gli arazzi di Donnafugata, i mandorleti di Ragattisi, magari, chissà, la fontana di Anfitrite avrebbero avuto la sorte grottesca di esser metamorfizzati in terrine di foie-gras presto digerite, in donnine da Ba-ta-clan più labili del loro belletto, da quelle delicate e sfumate cose che erano. E di lui sarebbe rimasto soltanto il ricordo di un vecchio e collerico nonno che era schiattato in un pomeriggio di Luglio proprio a tempo per impedire al ragazzo di andare a fare i bagni a Livorno. Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto.
Dalla camera vicina aperta sullo stesso balcone gli giungeva la voce di Concetta: “Non se ne poteva fare a meno; bisognava farlo venire; non mi sarei mai consolata se non lo si fosse chiamato.” Comprese subito: si trattava del prete. Un momento ebbe l’idea di rifiutare, di mentire, di mettersi a gridare che stava benissimo, che non aveva bisogno di nulla. Presto si accorse del ridicolo delle proprie intenzioni: era il principe di Salina e come un principe di Salina doveva 165
morire, con tanto di prete accanto. Concetta aveva ragione. Perché poi avrebbe dovuto sottrarsi a ciò che era desiderato da migliaia di altri morenti? E tacque aspettando di udire il campanellino del Viatico. Quel ballo dai Ponteleone: Angelica aveva odorato come un fiore fra le sue braccia. Lo senti presto: la parrocchia della Pietà era quasi di fronte. Il suono argentino e festoso si arrampicava sulle scale, irrompeva nel corridoio, si fece acuto quando la porta si apri: preceduto dal direttore dell’Albergo, svizzerotto seccatissimo di avere un moribondo nel proprio esercizio, padre Balsàno, il parroco entrò recando sotto la pisside il Santissimo custodito dall’astuccio di pelle. Tancredi e Fabrizietto sollevarono la poltrona, la riportarono nella stanza; gli altri erano inginocchiati.
Più col gesto che con la voce, disse: “Via! via!” Voleva confessarsi. Le cose si fanno o non si fanno. Tutti uscirono, ma quando dovette parlare si accorse che non aveva molto da dire: ricordava alcuni peccati precisi ma gli sembravano tanto meschini che davvero non valeva la pena di aver importunato un degno sacerdote in quella giornata di afa. Non che si sentisse innocente: ma era tutta la vita ad esser colpevole, non questo o quel singolo fatto; vi è un solo peccato vero, quello originale; e ciò non aveva più il tempo di dirlo. I suoi occhi dovettero esprimere un turbamento che il sacerdote poté scambiare per espressione di contrizione; come di fatto in un certo senso era; fu assolto. Il mento, a quanto sembrava, gli poggiava sul petto perché il prete dovette inginocchiarsi lui per insinuargli la particela fra le labbra. Poi furono mormorate le sillabe immemoriali che spianano la via e il sacerdote si ritirò.
La poltrona non fu più trascinata sul balcone. Fabrizietto e Tancredi gli sedettero vicino e gli tenevano ciascuno una mano; il ragazzo lo guardava fisso con la curiosità naturale in chi assista alla sua prima agonia, e niente di più; chi moriva non era un uomo, era un nonno, il che è assai diverso. Tancredi gli stringeva forte la mano e parlava, parlava molto, parlava allegro: esponeva progetti cui lo associava, commentava i fatti politici; era deputato, gli era stata promessa la legazione di Lisbona, conosceva molti fatterelli segreti e sapidi. La voce nasale, il vocabolario arguto delineavano un rutile fregio sul sempre più fragoroso erompere delle acque della vita. Il Principe era grato delle chiacchiere, e gli stringeva la mano con grande sforzo ma con trascurabile risultato. Era grato, ma non lo stava a sentire. Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici: eccoli. Due settimane prima del suo matrimonio, sei 166
settimane dopo; mezz’ora in occasione della nascita di Paolo, quando senti l’orgoglio di aver prolungato di un rametto l’albero di casa Salina. (L’orgoglio era abusivo, lo sapeva adesso, ma la fierezza vi era stata davvero); alcune conversazioni con Giovanni prima che questi scomparisse, alcuni monologhi, per esser veritieri, durante i quali aveva creduto scoprire nel ragazzo un animo simile al suo; molte ore in osservatorio assolte nell’astrazione dei calcoli e nell’inseguimento dell’irraggiungibile; ma queste ore potevano davvero esser collocate nell’attivo della vita? Non erano forse un’elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie? Non importava, c’erano state.
Nella strada sotto, fra l’albergo e il mare, un organetto si fermò e suonava nell’avida speranza di commuovere i forestieri che in quella stagione non c’erano.
Macinava “Tu che a Dio spiegasti l’ale”; quel che rimaneva di Don Fabrizio pensò a quanto fiele venisse in quel momento mescolato a tante agonie in Italia da queste musiche meccaniche. Tancredi col suo intuito corse al balcone, buttò giù una moneta, fece segno di tacere. Il silenzio fuori si richiuse, il fragore dentro ingigantì.
Tancredi. Certo, molto dell’attivo proveniva da lui: la sua comprensione tanto più preziosa in quanto ironica, il godimento estetico di veder come si destreggiasse fra le difficoltà della vita, l’affettuosità beffarda come si conviene che sia; dopo, i cani: Fufi, la grossa mops della sua infanzia, Tom, l’irruento barbone confidente ed amico, gli occhi mansueti di Svelto, la balordaggine deliziosa di Bendicò, le zampe carezzevoli di Pop, il pointer che in questo momento lo cercava sotto i cespugli e le poltrone della villa e che non lo avrebbe più ritrovato; qualche cavallo, questi già più distanti ed estranei. Vi erano le prime ore dei suoi ritorni a Donnafugata, il senso di tradizione e di perennità espresso in pietra ed in acqua, il tempo congelato; lo schioppettare allegro di alcune cacce, il massacro affettuoso dei conigli e delle pernici, alcune buone risate con Tumeo, alcuni minuti di compunzione al convento fra l’odore di muffa e di confetture. Vi era altro? Sì, vi era altro: ma erano di già pepite miste a terra: i momenti sodisfatti nei quali aveva dato risposte taglienti agli sciocchi, la contentezza provata quando si era accorto che nella bellezza e nel carattere di Concetta si perpetuava una vera Salina; qualche momento di foga amorosa; la sorpresa nel ricevere la lettera di Arago che spontaneamente si congratulava per l’esattezza dei difficili calcoli relativi alla cometa di Huxley. E perché no? L’esaltazione pubblica quando aveva ricevuto la medaglia in Sorbona, la sensazione delicata di alcune 167
sete di cravatte, l’odore di alcuni cuoi macerati, l’aspetto ridente, l’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate, quella intravista ancora ieri alla stazione di Catania, mescolata alla folla col suo vestito marrone da viaggio e i guanti di camoscio che era sembrata cercare il suo volto disfatto dal di fuori dello scompartimento insudiciato. Che gridio di folla. “Panini gravidi!” “Il Corriere dell’Isola!” E poi quell’anfanare del treno stanco senza fiato... E quell’atroce sole all’arrivo, quei sorrisi bugiardi, l’eromper via delle cateratte...
Nell’ombra che saliva si provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto: il suo cervello non dipanava più il semplice calcolo: tre mesi, venti giorni, un totale di sei mesi, sei per otto ottantaquattro... quarantottomila... V 840.000...
Si riprese. “Ho settantatré anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due... tre al massimo.” E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settantenni.
Senti che la mano non stringeva più quella dei nipoti. Tancredi si alzò in fretta ed uscì... Non era più un fiume che erompeva da lui, ma un oceano, tempestoso, irto di spume e di cavalloni sfrenati...
Doveva aver avuto un’altra sincope perché si accorse a un tratto di esser disteso sul letto: qualcuno gli teneva il polso: dalla finestra il riflesso spietato del mare lo accecava; nella camera si udiva un sibilo: era il suo rantolo ma non lo sapeva; attorno vi era una piccola folla, un gruppo di persone estranee che lo guardavano fisso con un’espressione impaurita: via via li riconobbe: Tancredi, Concetta, Angelica, Francesco-Paolo, Carolina, Fabrizietto; chi gli teneva il polso era il dottor Cataliotti; credette di sorridere a questo per dargli il benvenuto ma nessuno poté accorgersene: tutti, tranne Concetta, piangevano; anche Tancredi che diceva: “Zio, zione caro!”
Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora: snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappelline di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliosa avvenenza del volto. Insinuava una manina inguantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari.
Il fragore del mare si placò del tutto.
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PARTE OTTAVA