Concetta aveva sempre intercalato qualche frase nel ronzìo continuo della voce di Angelica; al nome di Tassoni però tacque. Rivedeva la scena, lontanissima ma chiara, come ciò che si scorge attraverso un cannocchiale rovesciato: la grande tavola bianca circondata da tutti quei morti; Tancredi vicino a lei, scomparso 178
adesso anch’egli come del resto essa stessa, di fatto, era morta; il racconto brutale, il riso isterico di Angelica, le proprie non meno isteriche lagrime. Era stata la svolta della sua vita, quella; la strada imboccata allora la aveva condotta fin qui, fino a questo deserto che non era neppure abitato dall’amore, estinto, e dal rancore, spento.
“Ho saputo delle seccature che hai con la Curia. Quanto sono noiosi! Ma perché non me lo hai fatto sapere prima? Qualcosa avrei potuto fare: il Cardinale ha dei riguardi per me; ho paura che adesso sia troppo tardi. Ma lavorerò nelle quinte. Del resto non sarà nulla.”
Il senatore Tassoni, che giunse presto, era un vispo elegantissimo vecchietto.
La sua ricchezza, che era grande e crescente, era stata conquistata attraverso competizioni e lotte; quindi anziché infiacchirlo lo aveva mantenuto in continuo stato energetico che adesso superava gli anni e li manteneva focosi. Nei pochi suoi mesi di servizio nell’Esercito Meridionale di Garibaldi aveva contratto un piglio militaresco destinato a non cancellarsi mai; unito alla cortesia ciò aveva formato un filtro che gli aveva procurato prima molti dolci successi e che adesso, mescolato al numero delle sue azioni, gli serviva egregiamente per terrorizzare i Consigli di Amministrazione bancari e cotonieri; mezza Italia e gran parte dei paesi balcanici cucivano i propri bottoni con i filati della ditta Tassoni & C.
“Signorina,” andava dicendo a Concetta mentre sedeva accanto a lei su di uno sgabellino basso adatto per un paggio e che appunto per questo aveva scelto
“signorina, si realizza adesso un sogno della mia gioventù lontanissima. Quante volte nelle gelide notti di bivacco sul Volturno o attorno agli spalti di Gaeta assediata, quante volte il nostro indimenticabile Tancredi mi ha parlato di Lei; mi sembrava di conoscere la sua persona, di aver frequentato questa casa fra le cui mura la sua giovinezza indomita trascorse; sono felice di potere, benché con tanto ritardo, deporre il mio omaggio ai piedi di chi fu la consolatrice di uno dei più puri eroi del nostro Riscatto!”
Concetta era poco avvezza alla conversazione con persone che non conoscesse fin dall’infanzia; era anche poco amante di letture; quindi non aveva avuto modo d’immunizzarsi contro la retorica ed anzi ne subiva il fascino sino a diventarne succube. Si commosse alle parole del senatore: dimenticò il semi-centenario aneddoto guerresco, non vide più in Tassoni il violatore di conventi, il beffeggiatore di povere religiose spaventate, ma un vecchio, un sincero amico di Tancredi che parlava di lui con affetto, che recava a lei, ombra, un messaggio del 179
morto trasmesso attraverso quegli acquitrini del tempo che gli scomparsi possono tanto di rado guadare. “E che cosa Le diceva di me il mio caro cugino?” chiese a mezza voce con una timidezza che faceva rivivere la diciottenne in quell’ammasso di seta nera e di capelli bianchi.
“Ah! molte cose! parlava di lei quasi quanto parlasse di donna Angelica; questa era per lui l’amore, Lei invece era l’immagine dell’adolescenza soave, di quell’adolescenza che per noi soldati passa tanto in fretta.”
Il gelo strinse di nuovo il vecchio cuore; e già Tassoni aveva alzato la voce, si rivolgeva ad Angelica: “Si ricorda, principessa, quanto egli ci disse a Vienna dieci anni fa?” Si rivolse di nuovo a Concetta per spiegare. “Ero andato lì con la delegazione italiana per il trattato di commercio; Tancredi mi ospitò all’ambasciata col suo grande cuore di amico e di camerata, con la sua affabilità di gran signore. Forse il rivedere un compagno d’armi in quella città ostile lo aveva commosso e quante cose del suo passato ci raccontò allora! In un retropalco dell’Opera, fra un atto e l’altro del ‘Don Giovanni’, ci confessò con la sua ironia impareggiabile, un peccato, un suo imperdonabile peccato, come diceva lui, commesso contro di lei; si, contro di lei, signorina.” S’interruppe un attimo per dare agio di prepararsi alla sorpresa. “Si figuri che ci raccontò come una sera, durante un pranzo a Donnafugata, si fosse permesso d’inventare una trottola e di raccontarla a Lei; una trottola guerresca in relazione ai combattimenti di Palermo nella quale figuravo anche io; e come Lei lo avesse creduto e si fosse offesa perché il fatterello narrato era un po’ audace, secondo l’opinione di cinquant’anni fa. Lei lo aveva rimproverato. ‘Era tanto cara’ diceva
‘mentre mi fissava con i suoi occhi incolleriti e mentre le labbra si gonfiavano graziosamente per l’ira come quelle di un cucciolo; era tanto cara che se non mi fossi trattenuto la avrei abbracciata li davanti a venti persone ed al mio terribile zione. Lei, signorina, lo avrà dimenticato; ma Tancredi se ne ricordava bene, tanta delicatezza vi era nel suo cuore; se ne ricordava anche perché il misfatto lo aveva commesso proprio il giorno nel quale aveva incontrato donna Angelica per la prima volta’.” Ed accennò verso la principessa uno di quei gesti di omaggio con la destra abbassantesi nell’aria la cui tradizione goldoniana si conservava soltanto fra i Senatori del Regno.
La conversazione continuò per qualche tempo ma non può dirsi che Concetta vi prendesse gran parte. L’improvvisa rivelazione penetrò nella sua mente con lentezza e dapprima non la fece troppo soffrire. Ma quando congedatisi e andati 180
via i visitatori essa rimase sola, cominciò a veder più chiaro e quindi a patire di più. Gli spettri del passato erano esorcizzati da anni; si trovavano, naturalmente, nascosti in tutto ed erano essi che conferivano amarezza al cibo, tedio alle compagnie; ma il loro volto vero non si era già da molto tempo mostrato; adesso saltava fuori avvolto nella funebre comicità dei guai irreparabili. Certo sarebbe assurdo dire che Concetta amasse ancora Tancredi; là eternità amorosa dura pochi anni e non cinquanta; ma come una persona da cinquant’anni guarita dal vaiolo ne porta ancora le macchie sul volto benché possa aver dimenticato il tormento del male, essa recava nella propria oppressa vita attuale le cicatrici della propria delusione ormai quasi storica, storica a tal punto anzi che se ne celebrava ufficialmente il cinquantenario. Ma fino ad oggi quando essa, raramente, ripensava a quanto era avvenuto a Donnafugata in quell’estate lontana si sentiva sostenuta da un senso di martirio subito, di torto patito, dall’animosità contro il padre che la aveva sacrificata, da uno struggente sentimento riguardo a quell’altro morto; questi sentimenti derivati che avevano costituito lo scheletro di tutto il suo modo di pensare si disfacevano anch’essi; non vi erano stati nemici ma una sola avversaria, essa stessa; il suo avvenire era stato ucciso dalla propria imprudenza, dall’impeto rabbioso dei Salina; le veniva meno adesso, proprio nel momento in cui dopo decenni i ricordi ritornavano a farsi vivi, la consolazione di poter attribuire ad altri la propria infelicità, consolazione che è l’ultimo ingannevole filtro dei disperati.
Se le cose erano come Tassoni aveva detto, le lunghe ore passate in saporosa degustazione di odio dinanzi al ritratto del padre, l’aver celato qualsiasi fotografia di Tancredi per non esser costretta a odiare anche lui, erano state delle balordaggini; peggio, delle ingiustizie crudeli; e soffri quando le tornò in mente l’accento caloroso, l’accento supplichevole di Tancredi mentre pregava lo zio di lasciarlo entrare nel convento; erano state parole di amore verso di lei, quelle, parole non comprese, poste in fuga dall’orgoglio e che di fronte alla sua asprezza si erano ritirate con la coda fra le gambe come cuceteli percossi. Dal fondo atemporale dell’essere un dolore nero salì a macchiarla tutta dinanzi a quella rivelazione della verità.
Ma era poi la verità questa? In nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve: il fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo genuino è scomparso, camuffato, abbellito, sfigurato, oppresso, annientato dalla fantasia e dagli interessi; il pudore, la paura, la generosità, il malanimo, l’opportunismo, la 181
carità, tutte le passioni le buone quanto le cattive si precipitano sul fatto e lo fanno a brani; in breve è scomparso. E l’infelice Concetta voleva trovare la verità di sentimenti non espressi ma soltanto intravisti mezzo secolo fa! La verità non c’era più; la sua precarietà era stata sostituita dall’irrefutabilità della pena.
Intanto Angelica e il Senatore compivano il breve tragitto sino a villa Falconeri.
Tassoni era preoccupato: “Angelica” disse (con lei aveva avuto una breve relazione galante trent’anni prima e conservava quella insostituibile intimità conferita da poche ore passate fra il medesimo paio di lenzuola) “temo di aver in qualche modo urtato vostra cugina; avete notato come era silenziosa alla fine della visita? mi dispiacerebbe, è una cara signora.” “Credo bene che la avete urtata, Vittorio”
disse Angelica esasperata da una duplice benché fantomatica gelosia “essa era pazzamente innamorata di Tancredi; ma lui non aveva mai badato a lei.” E così una nuova palata di terra venne a cadere sul tumulo della verità.
Il Cardinale di Palermo era davvero un sant’uomo; e adesso che da molto tempo non c’è più rimangono vivi i ricordi della sua carità e della sua fede.
Mentre viveva, però, le cose stavano diversamente: non era siciliano, non era neppure meridionale o romano e quindi l’attività sua di settentrionale si era molti anni prima sforzata a far lievitare la pasta inerte e pesante della spiritualità siciliana in generale e del clero in particolare. Coadiuvato da due o tre segretari del proprio paese si era illuso, nei primi anni, che fosse possibile rimuovere abusi, poter sgombrare il terreno dalle più flagranti pietre d’inciampo. Presto si era dovuto accorgere che era come sparar fucilate nella bambagia: il piccolo foro prodotto sul momento veniva colmato dopo brevi istanti da migliaia di fibrille complici e tutto restava come prima, con in più il costo della polvere, il deterioramento del materiale e il ridicolo dello sforzo inutile. Come per tutti coloro che, in quei tempi, volevano riformare checchessia nel carattere siciliano si era presto formata su di lui la reputazione che fosse un fesso (il che nelle circostanze ambientali era esatto) e doveva accontentarsi di compiere passive opere di misericordia che del resto non facevano se non diminuire ancora la sua popolarità se esse esigevano dai beneficati la benché minima fatica come, per esempio, quella di recarsi al Palazzo Arcivescovile per ricevere gli aiuti.
Il prelato anziano che la mattina del quattordici Maggio si recò a villa Salina era quindi un uomo buono ma disilluso che aveva finito con l’assumere verso i propri diocesani una attitudine di sprezzante misericordia (talvolta, dopo tutto, 182
ingiusta) che lo spingeva ad adottare dei modi bruschi e taglienti che sempre più lo trascinavano nella palude della disaffezione.
Le tre sorelle Salina, come sappiamo, erano fondamentalmente offese dall’ispezione alla loro cappella: ma, anime infantili e, dopo tutto femminili com’erano, ne pregustavano anche le soddisfazioni marginali ma innegabili: quella di ricevere in casa loro un Principe della Chiesa, quella di poter mostrargli il fasto di casa Salina che esse in buona fede credevano ancora intatto, ed innanzi tutto quella di poter per mezz’ora vedere aggirarsi in casa loro una specie di sontuoso volatile rosso e di poter ammirare i toni vari ed armonizzati delle sue diverse porpore e la marezzatura delle pesantissime sete. Le poverette però erano destinate a rimaner deluse anche in questa ultima modesta speranza: quando esse, discese al basso della scala esterna videro uscire dalla vettura Sua Eminenza dovettero constatare che essa si era posta in piccola tenuta: sulla severa tonaca nera soltanto minuscoli bottoncini purpurei stavano ad indicare il suo altissimo rango; malgrado il volto di oltraggiata bontà il cardinale non aveva maggiore imponenza dell’arciprete di Donnafugata. Fu cortese ma freddo e con troppa sapiente mistura seppe mostrare il proprio rispetto per casa Salina e le virtù individuali delle signorine unito al proprio disprezzo per la loro inettitudine e formalistica devozione; non rispose parola alle esclamazioni di Monsignor Vicario sulla bellezza dell’arredamento dei salotti che traversarono, rifiutò di accettare checchessia del sontuoso rinfresco preparato (“grazie, signorina, soltanto un po’ di acqua: oggi è la vigilia della festa del mio Santo Patrono”), non si sedette neppure. Andò in cappella, si genuflesse un attimo dinanzi alla Madonna di Pompei, ispezionò di sfuggita le reliquie. Però benedisse con pastorale mansuetudine le padrone di casa e la servitù inginocchiate in sala d’ingresso, e dopo: “Signorina” disse a Concetta che aveva sul volto i segni di una notte insonne “per tre o quattro giorni non si potrà celebrare nella cappella il Servizio Divino; ma sarà mia cura di far provvedere prestissimo alla riconsacrazione. A mio parere l’immagine della Madonna di Pompei occuperà degnamente il posto del quadro che è al disopra dell’altare, il quale, del resto, potrà unirsi alle belle opere d’arte che ho ammirato traversando i vostri salotti. In quanto alle reliquie lascio qui don Pacchiotti, mio segretario e sacerdote competentissimo; egli esaminerà i documenti e comunicherà loro i risultati delle sue ricerche; e quanto deciderà sarà come se lo avessi deciso io stesso.”
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Da tutti si lasciò benignamente baciare l’anello, e, pesante, sali in vettura insieme al piccolo seguito.
Le carrozze non erano ancora giunte allo svolto di Falconeri che Carolina con le mascelle serrate e gli occhi saettanti esclamava: “Per me questo Papa è un turco,”
mentre si era costretti a far fiutare dell’etere solforico a Caterina. Concetta s’intratteneva calma con don Pacchiotti che aveva finito con l’accettare una tazza di caffè e un babà.
Poi il sacerdote chiese la chiave della cassa dei documenti, domandò permesso e si ritirò nella cappella non senza aver prima estratto da una sua borsa un martelletto, una seghetta, un cacciavite, una lente d’ingrandimento e un paio di matite. Era stato allievo della Scuola di Paleografia Vaticana, inoltre era Piemontese: il suo lavoro fu lungo e accurato; le persone di servizio che passavano davanti all’ingresso della cappella udivano martellatine, stridorini di viti e sospiri. Dopo tre ore ricomparve con la tonaca impolveratissima e le mani nere ma lieto e con un’espressione di serenità sul volto occhialuto; si scusava perché recava in mano un grande cestino di vimini: “Mi sono permesso di appropriarmi di questo cestino per riporvi la roba scartata; posso posarlo qui?” E
depose in un angolo il suo aggeggio che straripava di carte stracciate, di cartigli, di scatoline contenenti ossami e cartilagini. “Sono lieto di dire che ho trovato cinque reliquie perfettamente autentiche e degne di essere oggetto di devozione.
Le altre sono lì” disse mostrando il cestino. “Potrebbero dirmi, signorine, dove posso spazzolarmi e ripulirmi le mani?”
Ricomparve dopo cinque minuti e si asciugava le mani con un grande asciugamano sull’orlo del quale un Gattopardo in filo rosso danzava.
“Dimenticavo di dire che le comici sono in ordine sul tavolo della cappella; alcune sono veramente belle.” Si congedava. “Signorine, i miei rispetti.” Ma Caterina si rifiutò di baciargli la mano. “E di quel che c’è nel cestino cosa dobbiamo fare?”
“Assolutamente quel che vogliono, signorine; conservarle, o buttarle nell’immondizia; non hanno valore alcuno.” E poiché Concetta voleva far ordinare una carrozza per riaccompagnarlo: “Non si dia pena, signorina; farò colazione dagli Oratoriani, qui a due passi: non ho bisogno di nulla.” E ricollocati nella borsa i propri strumentini, se ne andò con pie leggero.
Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il 184
ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno. Dopo un po’ le portarono una lettera. La busta era listata a nero con una grossa corona in rilievo: “Carissima Concetta, ho saputo della visita di Sua Eminenza e sono lieta che alcune reliquie si siano potute salvare. Spero di ottenere che Monsignor Vicario venga a celebrare la prima messa nella cappella riconsacrata. Il senatore Tassoni parte domani e si raccomanda al tuo bon souvenir. Io verrò presto a vederti e intanto ti abbraccio con affetto insieme a Carolina e Caterina. Tua Angelica.” Continuò a non sentir niente: il vuoto interiore era completo; soltanto dal mucchietto di pelliccia esalava una nebbia di malessere. Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. “Annetta” disse “questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso. Portatelo via, buttatelo.”
Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.
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