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“Ma, Padre, tu che vivi in mezzo alla ‘nobbiltà’, che cosa ne dicono i ‘signori’ ditutto questo fuoco grande? Che cosa ne dice il principe di Salina, grande, rabbioso eorgoglioso come è?”

Già più d’una volta Padre Pirrone aveva posto a sé stesso questa domanda e rispondervi non era stato facile soprattutto perché aveva trascurato o interpretato come esagerazioni quanto Don Fabrizio gli aveva detto una mattina in osservatorio quasi un anno fa. Adesso lo sapeva ma non trovava il modo di tradurlo in forma comprensibile a don Pietrine che era lungi dall’essere uno sciocco ma che s’intendeva meglio delle proprietà anticatarrali, carminative e magari afrodisiache delle sue erbe che di simili astrazioni.

“Vedete, don Pietrine, i ‘signori’ come dite voi, non sono facili da capirsi. Essi vivono in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio ma da loro stessi durante secoli di esperienze specialissime, di affanni e di gioie loro; essi posseggono una memoria collettiva quanto mai robusta e quindi si turbano o si allietano per cose delle quali a voi ed a me non importa un bei nulla ma che per loro sono vitali perché poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe. La Divina Provvidenza ha voluto che io divenissi umile particella dell’Ordine più glorioso di una Chiesa sempiterna alla quale è stata assicurata la vittoria definitiva; voi siete all’altro limite della scala, e non dico il più basso ma solo il più differente. Voi quando scoprite un cespo vigoroso di origano o un nido ben fornito di cantaridi (anche quelle cercate, don Pietrine, lo so) siete in comunicazione diretta con la natura che il Signore ha creato con possibilità indifferenziate di male e di bene affinché l’uomo possa esercitarvi la sua libera scelta; e quando siete consultato dalle vecchiette maligne o dalle ragazzine vogliose voi scendete nell’abisso dei secoli sino alle epoche oscure che hanno preceduto la luce del Golgota.”

Il vecchio guardava stupito: lui voleva sapere se il principe di Salina era sodisfatto o no del nuovo stato di cose, e l’altro gli parlava di cantaridi e di luci del Golgota. “A forza di leggere è diventato pazzo, meschinello.”

“I ‘signori’ no, non sono così; essi vivono di cose già manipolate. Noi ecclesiastici serviamo loro per rassicurarli sulla vita eterna, come voi erbuari per procurar loro emollienti o eccitanti. E con questo non voglio dire che sono cattivi: tutt’altro. Sono differenti; forse ci appaiono tanto strani perché hanno raggiunto 132

una tappa verso la quale tutti coloro che non sono santi camminano, quella della noncuranza dei beni terreni mediante l’assuefazione. Forse per questo non badano a certe cose che a noialtri importano molto; chi sta in montagna non si cura delle zanzare delle pianure, e chi vive in Egitto trascura i parapioggia. Il primo però teme le valanghe, il secondo i coccodrilli, cose che invece ci preoccupano poco. Per loro sono subentrati nuovi timori che noi ignoriamo: ho visto Don Fabrizio rabbuiarsi, lui uomo serio e saggio, per un colletto di camicia mal stirato; e so di certo che il principe di Làscari dal furore non ha dormito tutta una notte perché ad un pranzo alla Luogotenenza gli avevano dato un posto sbagliato. Ora, non vi sembra che il tipo di umanità che si turba soltanto per la biancheria o per il protocollo sia un tipo felice, quindi superiore?”

Don Pietrino non capiva più niente: le stramberie si moltiplicavano, adesso saltavano fuori i colletti delle camicie e i coccodrilli. Ma un fondo di buon senso rustico lo sosteneva ancora. “Ma se è così, Padre, andranno tutti all’inferno!” “E

perché? Alcuni saranno perduti, altri salvi, a secondo di come avranno vissuto dentro questo loro mondo condizionato. Ad occhio e croce Salina, per esempio, dovrebbe cavarsela; il giuoco suo lo gioca bene, segue le regole, non bara; il Signore Iddio punisce chi contravviene volontariamente alle leggi divine che conosce, chi imbocca volontariamente la cattiva strada; ma chi segue la propria via, purché su di essa non commetta sconcezze, è sempre a posto. Se voi, don Pietrino, vendeste cicuta invece di mentuccia, sapendolo, sareste fritto; ma se avrete creduto di essere nel vero, la gnà Tana farà la morte nobilissima di Socrate e voi andrete dritto dritto in cielo con tonaca e alucce, tutto bianco.”

La morte di Socrate era stata troppo, per l’erbuario; si era arreso e dormiva.

Padre Pirrone lo notò e ne fu contento perché adesso avrebbe potuto parlare libero senza timore di essere frainteso; e parlare voleva, fissare nelle volute concrete delle frasi le idee che oscuramente gli si agitavano dentro.

“E fanno molto bene anche. Se sapeste, per dirne una, a quante famiglie che sarebbero sul lastrico danno ricetto quei loro palazzi! E non richiedono nulla per questo, neppure un’astensione dai furtarelli. Ciò non viene fatto per ostentazione ma per una sorta di oscuro istinto atavico che li spinge a non poter fare altrimenti. Benché possa non sembrare, sono meno egoisti di tanti altri: lo splendore delle loro case, la pompa delle loro feste contengono in sé un che d’impersonale, un po’ come la magnificenza delle chiese e della liturgia, un che di fatto ad maiorem gentis gloriam, che li redime non poco; per ogni bicchiere di 133

sciampagna che bevono ne offrono cinquanta agli altri, e quando trattano male qualcheduno, come avviene, non è tanto la loro personalità che pecca quanto il loro ceto che si afferma. Fata crescunt Don Fabrizio ha protetto e educato il nipote Tancredi, per esempio, ha insomma salvato un povero orfano che altrimenti si sarebbe perduto. Ma voi direte che lo ha fatto perché il giovane era anche lui un signore, che non avrebbe messo un dito all’acqua fredda per un altro. È vero, ma perché avrebbe dovuto farlo se sinceramente, in tutte le radici del suo cuore gli

‘altri’ gli sembrano tutti esemplari mal riusciti, maiolichette venute fuori sformate dalle mani del figurinaio e che non vai la pena di esporre alla prova del fuoco?

“Voi, don Pietrine, se in questo momento non dormiste, saltereste su a dirmi che i signori fanno male ad avere questo disprezzo per gli altri e che tutti noi, egualmente soggetti alla doppia servitù dell’amore e della morte, siamo eguali dinanzi al Creatore; ed io non potrei che darvi ragione. Però aggiungerei che non è giusto incolpare di disprezzo soltanto i ‘signori,’ dato che questo è vizio universale. Chi insegna all’Università disprezza il maestrucolo delle scuole parrocchiali, anche se non lo dimostra, e poiché dormite posso dirvi senza reticenze che noi ecclesiastici ci stimiamo superiori ai laici, noi Gesuiti superiori al resto del clero, come voi erbuari spregiate i cavadenti che a loro volta v’irridono; i medici per conto loro prendono in giro cavadenti ed erbuari e vengono loro stessi trattati da asini dagli ammalati che pretendono di continuare a vivere con il cuore o il fegato in poltiglia. Per i magistrati gli avvocati non sono che dei seccatori che cercano di dilazionare il funzionamento delle leggi, e d’altra parte la letteratura ribocca di satire contro la pomposità, l’ignavia e talvolta peggio di quegli stessi giudici. Non ci sono che gli zappatori a esser disprezzati anche da loro stessi; quando avranno appreso a irridere gli altri il ciclo sarà chiuso e bisognerà incominciare da capo.

“Avete mai pensato, don Pietrine, a quanti nomi di mestiere sono diventati delle ingiurie? da quelli di facchino, ciabattino e pasticciere a quelli di reitre e di pompier in francese? La gente non pensa ai meriti dei facchini e dei pompieri; guarda solo i loro difetti marginali e li chiama tutti villani e vanagloriosi; e poiché non potete sentirmi posso dirvi che conosco benissimo il significato corrente della parola ‘gesuita.’

“Questi nobili poi hanno il pudore dei propri guai: ne ho visto uno, sciagurato, che aveva deciso di uccidersi l’indomani e che sembrava sorridente e brioso come un ragazzo alla vigilia della Prima Comunione; mentre voi, don Pietrine, lo so, se 134

siete costretto a bere uno dei vostri decotti di senna fate echeggiare il paese dei vostri lamenti. L’ira e la beffa sono signorili; l’elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se incontrate un ‘signore’ lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco.

“Un ceto difficile da sopprimere perché in fondo si rinnova continuamente e perché quando occorre sa morire bene, cioè sa gettare un seme al momento della fine. Guardate la Francia: si son fatti massacrare con eleganza e adesso son lì come prima, dico come prima perché non sono i latifondi e i diritti feudali a fare il nobile, ma le differenze. Adesso mi dicono che a Parigi vi sono dei conti polacchi che le insurrezioni e il despotismo hanno costretto all’esilio e alla miseria; fanno i fiaccherai ma guardano i loro clienti borghesi con tale cipiglio che i poveretti salgono in vettura, senza saper perché, con l’aria umile di cani in chiesa.

“E vi dirò pure, don Pietrine, se, come tante volte è avvenuto, questa classe dovesse scomparire, se ne costituirebbe subito un’altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi “rotti: non sarebbe più basata sul sangue forse, ma che so io...

sull’anzianità di presenza in un luogo o su pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro.”

A questo punto si sentirono i passi della madre sulla caletta di legno; essa entrò ridendo. “Ecucchì stavi parlando, “ghetto mio? Non lo vedi che il tuo amico dorme?”

Padre Pirrone si vergognò un poco; non rispose ma disse: “Adesso lo accompagno fuori. Poveretto, dovrà stare al freddo tutta la notte.” Estrasse il lucignolo della lanterna, lo accese a una fiammella del lampadario rizzandosi sulla punta dei piedi e imbrattando di olio la propria tunica; lo rimise a posto, chiuse lo sportellino. Don Pietrino veleggiava nei sogni; un filo di bava gli scorreva giù da un labbro e andava a spandersi sul bavero. Ci volle del tempo per svegliarlo. “Scusami, Padre, ma dicevi cose tanto strane e imbrogliate.” Sorrisero, scesero, uscirono. La notte sommergeva la casetta, il paese, la vallata; si scorgevano appena i monti che erano vicini e, come sempre, imbronciati. Il vento si era calmato ma faceva un gran freddo; le stelle brillavano con furia, producevano migliaia di gradi di calore ma non riuscivano a riscaldare un povero vecchio. “Povero don Pietrine! Volete che vada a prendervi un altro mantello?”

“Grazie, ci sono abituato. Ci vedremo domani e allora mi dirai come il principe di Salina ha sopportato la rivoluzione.” “Ve lo dico subito in quattro parole: dice che non c’è stata nessuna rivoluzione e che tutto continuerà come prima.”

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“Evviva il fesso! E a tè non pare una rivoluzione che il Sindaco mi vuoi far pagare per le erbe create da Dio e che io stesso raccolgo? o ti sei guastato la testa anche tu?”

La luce della lanterna si allontanava a scatti, fini con lo scomparire nelle tenebre fitte come un feltro.

Padre Pirrone pensava che il mondo doveva sembrare un gran rompicapo a chi non conoscesse matematiche ne teologia. “Signor mio, soltanto la Tua Omniscienza poteva escogitare tante complicazioni.”

Un altro campione di queste complicazioni gli capitò fra le mani l’indomani mattina. Quando scese giù pronto per andare a dir messa in Parrocchia trovò Sarina sua sorella che tagliava cipolle in cucina. Le lagrime che essa aveva negli occhi gli sembrarono maggiori di quanto quell’attività comportasse.

“Cosa c’è, Sarina? Qualche guaio? Non ti avvilire: il Signore affligge e consola.”

La voce affettuosa dissipò quel tanto di riserbo che la povera donna possedevaancora; si mise a piangere clamorosamente, con la faccia appoggiata all’untumedella tavola. Fra i singhiozzi si sentivano sempre le stesse parole: “Angelina,Angelina... Se Vicenzino lo sa li ammazza a tutti e due... Angelina... Quello liammazza!”

Le mani cacciate nella larga cintura nera, con i soli pollici fuori, padre Pirrone all’impiedi la guardava. Non era difficile capire: Angelina era la figlia nubile di Sarina, il Vicenzino del quale si temevano le furie, il padre, suo cognato. L’unica incognita dell’equazione era il nome dell’altro, dell’eventuale amante di Angelina.

Questa il Gesuita la aveva rivista ieri, ragazza, dopo averla lasciata piagnucolosa bambina sette anni fa. Doveva avere diciotto anni ed era bruttina assai, con la bocca sporgente di tante contadine del luogo, con gli occhi spauriti di cane senza padrone. La aveva notata arrivando ed anzi in cuor suo aveva fatto poco caritatevoli paragoni fra essa, meschina come il plebeo diminutivo del proprio nome e quell’Angelica, sontuosa come il suo nome ariostesco, che di recente aveva turbato la pace di casa Salina.

Il guaio dunque era grosso e lui vi era incappato in pieno; si ricordò di ciò che diceva Don Fabrizio: ogni volta che s’incontra un parente s’incontra una spina; e poi si pentì di essersene ricordato. Estrasse la sola destra dalla cintura, si tolse il cappello e batté sulla spalla sussultante della sorella. “Andiamo, Salina, non fare così! Ci sono qua io, per fortuna, e piangere non serve a niente. Vicenzino dov’è?”

Vicenzino era già uscito per andare a Rimato a trovare il campiere degli Schirò.

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Meno male, si poteva parlare senza timore di sorprese. Fra singhiozzi, risucchi di lagrime e soffiate di naso tutta la squallida storia venne fuori: Angelina (anzi

‘Ncilina) si era lasciata sedurre; il grosso patatrac era successo durante l’estate di S. Martino; andava a trovare l’innamorato nel pagliaio di donna Nunziata; adesso era incinta di tre mesi; pazza di terrore si era confessata alla madre; fra qualche tempo si sarebbe cominciata a vedere la pancia, e Vicenzino avrebbe fatto un macello. “Anche a me ammazza quello perché non ho parlato; lui è ‘uomo di onore’.”

Infatti con la sua fronte bassa, con i suoi “cacciolani,” le ciocche di capelli lasciate crescere sulle tempie, col dondolio del suo passo, col perpetuo rigonfiamento della tasca destra dei calzoni, si capiva subito che Vicenzino era

“uomo di onore”; uno di quegli imbecilli violenti capaci di ogni strage.

Su Sarina sopravvenne una nuova crisi di pianto più forte della prima perché in essa affiorava pure un demente rimorso di aver demeritato dal marito, quello specchio di cavalleria.

“Sarina, Sarina, di nuovo! Non fare così! Il giovanotto la deve sposare, la sposerà. Andrò a casa sua, parlerò con lui e con i suoi, tutto s’aggiusterà.

Vicenzino saprà solo del fidanzamento e il suo prezioso onore resterà intatto. Però debbo sapere chi è stato. Se lo sai, dimmelo.”

La sorella rialzò la testa: negli occhi le si leggeva adesso un altro terrore, non più quello animalesco delle coltellate ma uno più ristretto, più acerbo che il fratello non poté per il momento decifrare.

“Santino Pirrone è stato! Il figlio di Turi! e lo ha fatto per sfregio, per sfregio a me, a nostra madre, alla Santa Memoria di nostro padre. Io non gli ho mai parlato, tutti dicevano che era un buon figliuolo, invece è un infamone, un degno figlio di quella canaglia di suo padre, uno sdisonorato. Me lo sono ricordato dopo: in quei giorni di Novembre lo vedevo sempre passare qui davanti con due amici e con un geranio rosso dietro l’orecchio. Fuoco d’inferno, fuoco d’inferno!”

Il Gesuita prese una sedia, sedette vicino alla donna. Era chiaro, avrebbe dovuto ritardare la messa. L’affare era grave. Turi, il padre di Santino, del seduttore, era un suo zio; il fratello, anzi il fratello maggiore della Buon’Anima.

Venti anni fa era stato associato al defunto nella guardianìa, proprio al momento della maggiore e più meritevole attività. Dopo, una lite aveva diviso i fratelli, una di quelle liti familiari dalle radici inestricabili, che è impossibile sanare perché nessuna delle due parti parla chiaro, avendo ciascuna molto da nascondere. Il 137

fatto era che quando la Santa Memoria venne in possesso del piccolo mandorleto, il fratello Turi aveva detto che in realtà i metà apparteneva a lui perché la metà dei denari, o la metà della fatica, l’aveva fornita lui; però l’atto di acquisto era al solo nome di Gaetano, buon’anima. Turi tempestò e percorse le strade di S. Cono con la schiuma alla bocca: il prestigio della Santa Memoria si mise in gioco, amici s’intromisero e il peggio fu evitato; il mandorleto rimase a Gaetano, ma l’abisso fra i due rami della famiglia Pirrone divenne incolmabile; Turi non assistette, poi, nemmeno ai funerali del fratello e nella casa delle sorelle era nominato come “la canaglia” e basta. Il Gesuita era stato informato di tutto mediante intricate lettere dettate al Parroco e circa la canaglieria si era formato idee personalissime che non esprimeva per reverenza filiale. Il mandorleto, adesso, apparteneva a Sarina.

Tutto era evidente: l’amore, la passione non c’entravano. Era soltanto una porcata che vendicava un’altra porcata. Rimediabile però: il Gesuita ringraziò la Provvidenza che lo aveva condotto a S. Cono proprio in quei giorni. “Senti, Sarina, il guaio tè lo aggiusto io in due ore; tu però mi devi aiutare: la metà di Chìbbaro (era il mandorleto) lo devi dare in dote a ‘Ncilina. Non c’è rimedio: quella stupida vi ha rovinato.” E pensava come il Signore si serva talvolta anche delle cagnette in calore per attuare la giustizia Sua.

Sarina inviperì: “Metà di Chìbbaro! A quel seme di farabutti! Mai! Meglio morta!”

“Va bene. Allora dopo la Messa andrò a parlare con Vicenzino. Non aver paura, cercherò di calmarlo.” Si rimise il cappello in testa e le mani nella cintura.

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