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mogio mogio, il cameriere. Moroni si trascinò dietro le cassette degli ufficiali e le sciabole nelle loro fodere di flanella verde.

Intanto Tancredi scriveva: “Carissima Angelica, sono arrivato, e arrivato per tè.

Sono innamorato come un gatto, ma anche bagnato come un ranocchio, sudicio come un cane sperso e affamato come un lupo. Appena mi sarò ripulito e mi stimerò degno di mostrarmi alla bella fra le belle mi precipiterò da tè; fra due ore.

I miei ossequi ai tuoi cari genitori. A te... niente, per ora.” Il testo fu sottoposto all’approvazione del Principe; questi che era sempre stato un ammiratore dello stile epistolare di Tancredi lo approvò sorridendo; ed il biglietto venne subito inviato dirimpetto.

Tale era la foga della letizia generale che un quarto d’ora bastò perché i due giovani si asciugassero, si ripulissero, cambiassero divise e si ritrovassero nel

“Leopoldo” attorno al caminetto: bevevano tè e cognac e si lasciavano ammirare.

In quei tempi non vi era nulla di meno militare delle famiglie aristocratiche siciliane: gli ufficiali borbonici non si erano mai visti nei salotti palermitani ed i pochi garibaldini che vi erano penetrati vi avevano fatto più l’effetto di spaventapasseri pittoreschi che di militari veri e propri. Perciò quei due giovani ufficiali erano in verità i primi che le ragazze Salina vedessero da vicino; tutti e due in “doppio petto,” Tancredi con i bottoni d’argento dei lancieri, Carlo con quelli dorati dei bersaglieri, con l’alto colletto di velluto nero bordato d’arancione il primo; cremisi l’altro, allungavano verso la brace le gambe rivestite di panno azzurro e di panno nero. Sulle maniche i “fiori” d’argento o d’oro si snodavano in ghirigori, slanci e riprese senza fine: un incanto per quelle figliole avvezze alle redingotes severe ed ai “fracks” funerei. Il romanzo edificante giaceva rovesciato dietro una poltrona.

Don Fabrizio non capiva bene: li ricordava entrambi rossi come gamberi e trasandati. “Ma insomma, voialtri garibaldini non portate più la camicia rossa?” I due si voltarono come se li avesse morsi una vipera. “Ma che garibaldini e garibaldini, zione! Lo siamo stati, ora basta. Cavriaghi ed io siamo ufficiali dell’esercito regolare di Sua Maestà il re di Sardegna per qualche mese ancora, d’Italia fra poco. Quando l’esercito di Garibaldi si sciolse si poteva scegliere: andare a casa o restare nell’esercito del Re. Lui ed io come tutte le persone per bene siamo entrati nell’esercito ‘vero’. Con quelli li non si poteva restare, non è così, Cavriaghi?” “Mamma mia che gentaglia! Uomini da colpi di mano, buoni a 103

sparacchiare, e basta! Adesso siamo fra persone come si deve, siamo ufficiali sul serio, insomma” e sollevava i battetti in una smorfia di adolescente disgusto.

“Ci hanno tolto un grado, sai, zione; tanta poca stima avevano della serietà della nostra esperienza militare; io da capitano son ridiventato tenente, vedi” e mostrava gli intrichi dei ‘fiori’ “lui da tenente è sottotenente. Ma siamo contenti come se ci avessero promossi. Siamo rispettati in tutt’altro modo adesso con le nostre divise.” “Sfido io” interruppe Cavriaghi “la gente non ha più paura che rubiamo le galline, ora.” “Dovevi vedere da Palermo a qui quando ci fermavamo alle stazioni di posta per il cambio dei cavalli! Bastava dire: ‘ordini urgenti per il servizio di Sua Maestà,’ ed i cavalli comparivano come per incanto; e noi a mostrare gli ordini che erano poi i conti dell’albergo di Napoli bene avvolti e sigillati.”

Esaurita la conversazione sui mutamenti militari si passò a più vaghi argomenti. Concetta e Cavriaghi si erano seduti insieme un po’ discosti ed il contino mostrava a lei il regalo che aveva penato da Napoli: i “Canti” di Aleardo Aleardi che aveva fatto splendidamente rilegare. Sull’azzurro cupo della pelle una corona principesca era profondamente incisa e, sotto, le cifre di lei: “C.C.S. ” Più sotto ancora caratteri grandi e vagamente gotici dicevano: “Sempre sorda.”

Concetta, divertita, rideva. “Ma perché sorda, conte? Q.C.S. ci sente benissimo.” Il volto del contino s’infiammò di fanciullesca passione. “Sorda, sì, sorda, signorina, sorda ai miei sospiri, sorda ai miei gemiti, e cieca anche, cieca alle suppliche che i miei occhi le rivolgono. Sapesse quanto ho patito a Palermo, quando loro sono partiti per qui: nemmeno un saluto, nemmeno un cenno, mentre le vetture scomparivano nel viale! E vuole che non la chiami sorda? ‘Crudele’ avrei dovuto far scrivere.”

La concitazione letteraria di lui fu congelata dal riserbo della ragazza. “Lei è ancora stanco per il lungo viaggio, i suoi nervi non sono a posto. Si calmi: mi faccia piuttosto sentire qualche bella poesia.”

Mentre il bersagliere leggeva i molli versi con una voce accorata e pause piene di sconforto, davanti al caminetto Tancredi estraeva di tasca un astuccetto di raso celeste. “Ecco l’anello, zione, l’anello che dono ad Angelica; o piuttosto quello che tu per mia mano le regali.” Fece scattare la molletta ed apparve uno zaffiro scurissimo, tagliato in ottagono schiacciato, serrato tutt’intorno stretto stretto da una moltitudine di piccoli purissimi diamantini. Un gioiello un po’ tetro “la altamente consono al gusto cimiteriale del tempo, e che valeva chiaramente le 104

trecento onze spedite da Don Fabrizio. Di realtà era costato assai meno: in quei mesi di semi-saccheggio e di fughe a Napoli si trovavano bellissimi gioielli d’occasione; dalla differenza di prezzo era saltata fuori una spilla, un ricordo per la Schwarzwald. Anche Concetta e Cavriaghi vennero chiamati ad ammirarlo ma non si mossero perché il contino l’aveva già visto e Concetta rimandò quel piacere a più tardi. L’anello girò di mano in mano, fu ammirato, lodato; e venne esaltato il prevedibile buon gusto di Tancredi. Don Fabrizio chiese “Ma per la misura come si farà? bisognerà mandare l’anello a Girgenti per farla fare giusta.” Gli occhi di Tancredi sprizzarono malizia: “Non ci sarà bisogno, zio; la misura è esatta; la avevo presa prima.” E Don Fabrizio tacque: aveva riconosciuto un maestro.

L’astuccetto aveva compiuto tutto il giro attorno al caminetto ed era ritornato nelle mani di Tancredi, quando da dietro la porta si udì un sommesso “Si può?”

Era Angelica. Nella fretta e nell’emozione non aveva trovato di meglio per ripararsi dalla pioggia dirotta che mettersi uno “scappolare”, uno di quegli immensi tabarri da contadino di ruvidissimo panno: avviluppato nelle rigide pieghe bleu-scure, il corpo di lei appariva snellissimo; di sotto al cappuccio bagnato gli occhi verdi erano ansiosi e smarriti; parlavano di voluttà.

Da quella vista, da quel contrasto anche fra la bellezza della persona e la rusticità del mantello, Tancredi ricevette come una frustata: si alzò, corse verso di lei senza parlare e la baciò sulla bocca. L’astuccio che teneva nella destra solleticava la nuca recline. Poi fece scattare la molla, prese Panello lo passò all’anulare di lei; l’astuccio cadde per terra. “Tieni, bella, è per tè, dal tuo Tancredi.” L’ironia si ridestò: “E ringrazia anche zione per esso.” Poi la riabbracciò: l’ansia sensuale li faceva tremare entrambi: il salone, gli astanti per essi sembravano molto lontani; ed a lui parve davvero che in quei baci riprendesse possesso della Sicilia, della terra bella e infida sulla quale i Falconeri avevano per secoli spadroneggiato e che adesso, dopo una vana rivolta si arrendeva di nuovo a lui, come ai suoi da sempre, fatta di delizie carnali e di raccolti dorati.

In seguito all’arrivo degli ospiti benvenuti il ritorno a Palermo fu rinviato; e seguirono due settimane d’incanti. L’uragano che aveva accompagnato il viaggio dei due ufficiali, era stato l’ultimo di una serie e dopo di esso risplendette l’estate di San Manine che è la vera stagione di voluttà in Sicilia: temperie luminosa e azzurra, oasi di mitezza nell’andamento aspro delle stagioni, che con la mollezza persuade e travia i sensi mentre con il tepore invita alle nudità segrete. Di nudità 105

erotiche nel palazzo di Donnafugata non era il caso di parlare ma vi era copia di esaltata sensualità tanto più acre quanto maggiormente rattenuta. Il palazzo dei Salina era stato ottant’anni prima un ritrovo per quegli oscuri piaceri nei quali si era compiaciuto il Settecento agonizzante; ma la reggenza severa della principessa Carolina, la neoreligiosità della Restaurazione, il carattere soltanto bonariamente carnale dell’attuale Don Fabrizio avevano perfino fatto dimenticare i suoi bizzarri trascorsi; i diavoletti incipriati erano stati posti in fuga; esistevano ancora, certamente, ma allo stato larvale ed ibernavano sotto cumuli di polvere in chissà quale soffitta dello smisurato edificio. La venuta a palazzo della bella Angelica aveva fatto un po’ rinvenire quelle larve, come forse si ricorderà; ma fu l’arrivo dei giovanotti innamorati che ridestò davvero gli istinti rimpiattati nella casa; essi adesso si mostravano dappertutto, come formiche destate dal sole, disintossicati forse ma oltremodo vivaci. L’architettura, la decorazione stessa rococò con le loro curve impreviste evocavano anche distese e seni eretti; l’aprirsi di ogni portale frusciava come una cortina d’alcova.

Cavriaghi era innamorato di Concetta; ma, fanciullo com’egli era e non soltanto nell’aspetto come Tancredi ma nel proprio intimo, il suo amore si sfogava nei facili ritmi di Prati e di Aleardi, nel sognare ratti al chiaro di luna dei quali non si arrischiava a contemplare il logico seguito e che del resto la sordità di Concetta schiacciava in embrione. Non si sa se nella reclusione della sua camera verde egli non si abbandonasse a un più concreto vagheggiare; certo è che alla scenografia galante di quell’autunno donnafugasco egli contribuiva solo come abbozzatore di nuvole e di orizzonti evanescenti e non come ideatore di masse architettoniche. Le due altre ragazze invece Carolina e Caterina, tenevano assai bene la loro parte nella sinfonia di desideri che in quel Novembre risuonava per tutto il palazzo mescolandosi al mormorio delle fontane, allo scalciare dei cavalli in amore nelle scuderie ed al tenace scavo di nidi nuziali dei tarli nei vecchi mobili. Erano giovanissime ed avvenenti e benché prive d’innamorati particolari si ritrovavano immerse nella corrente di stimoli che s’incrociavano fra gli altri; e spesso il bacio che Concetta negava a Cavriaghi, la stretta di Angelica che non aveva saziato Tancredi si riverberavano sulle loro persone, sfiorava i loro corpi intatti e per esse si sognava, esse stesse sognavano ciocche madide di speciosi sudori, gemiti brevi.

Financo l’infelice mademoiselle Dombreuil a forza di dover funzionare da parafulmine, come gli psichiatri si infettano e soccombono alle frenesie dei loro ammalati, fu attratta in quel vortice torbido e ridente; quando dopo una giornata 106

d’inseguimenti e agguati moralistici essa si stendeva sul suo letto solingo palpava i propri seni appassiti e mormorava indiscriminate invocazioni a Tancredi, a Carlo, a Fabrizio...

Centro e motore di questa esaltazione sensuale era naturalmente la coppia Tancredi-Angelica. Le nozze sicure benché non vicine stendevano in anticipo le loro ombre rassicuranti sul terriccio arso dei loro mutui desideri; la differenza di ceti faceva credere a don Calogero normali nella nobiltà i lunghi colloqui appaltati, ed alla principessa Maria Stella abituali nel rango dei Sedàra la frequenza delle visite di Angelica ed una certa libertà di contegno che essa, certamente, non avrebbe trovata lecita nelle proprie figlie; e così le visite di Angelica al palazzo divennero sempre più frequenti sino ad essere quasi perpetue ed essa fini con l’essere solo formalmente accompagnata dal padre che si recava subito in Amministrazione per scoprire (o per tessere) nascoste trame o dalla cameriera che scompariva nel riposto per bere il caffè ed incupire i domestici sventurati.

Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie vecchie e foresterie nuove, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, i teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, anditi, scalette, terrazzine e porticati, e soprattutto di una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano un intrico labirintico e misterioso. Tancredi non si rendeva conto (oppure si rendeva conto benissimo) che vi trascinava la ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale, ed Angelica, in quel tempo, voleva ciò che Tancredi aveva deciso. Le scorribande attraverso il quasi illimitato edificio erano interminabili; si partiva come verso una terra incognita, ed incognita era davvero perché in parecchi di quegli appartamenti sperduti neppure Don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto, gli era cagione di non piccolo compiacimento perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscessero tutte le stanze non era degno di essere abitato. I due innamorati s’imbarcavano verso Citerà su una nave fatta di camere cupe e di camere solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di relitti di mobilio eterogeneo. Partivano accompagnati da mademoiselle Dombreuil o da Cavriaghi (padre Pirrone con la sagacia del suo Ordine si rifiutò sempre a farlo), talvolta da tutti e due; la decenza esteriore era salva. Ma nel palazzo non era difficile di fuorviare chi volesse seguirvi: bastava infilare un corridoio (ve ne erano lunghissimi, stretti e tortuosi con finestrine 107

grigliate che non si potevano percorrere senza angoscia), svoltare per un ballatoio, salire una scaletta complice, e i due ragazzi erano lontano, invisibili, soli come su un’isola deserta. Restavano a guardarli soltanto un ritratto a pastello sfumato via e che l’inesperienza del pittore aveva creato senza sguardo o su un soffitto obliterato una pastorella subito consenziente. Cavriaghi, del resto, si stancava presto ed appena trovava sulla propria rotta un ambiente conosciuto o una scaletta che scendeva in giardino se la svignava, tanto per far piacere all’amico che per andare a sospirare guardando le gelide mani di Concetta. La governante resisteva più a lungo, ma non per sempre; per qualche tempo si udivano sempre, più lontani, i suoi appelli, mai corrisposti: “Tancrède, Angelica, où ètes-vous?” Poi tutto si richiudeva nel silenzio, striato solo dal galoppo dei topi al di sopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera centenaria dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento: pretesti per desiderate Paure, per un aderire rassicurante delle membra. E l’Eros era sempre con loro, malizioso e tenace, il gioco in cui trascinava due fidanzati era pieno di azzardi e di malia. Tutti e due vicinissimi ancora all’infanzia prendevano piacere al gioco in sé godevano nell’inseguirsi, nel perdersi, nel ritrovarsi; ma quando si erano raggiunti i loro sensi aguzzati prendevano il sopravvento e le cinque dita di lui che s’incastravano nelle dita di lei, col gesto caro ai sensuali indecisi, il soffregamento soave dei polpastrelli sulle vene pallide del dorso, turbava tutto il loro essere, preludeva a più insinuate carezze.

Una volta lei si era nascosta dietro un enorme quadro posato per terra; e per un po’ “Arturo Corbera all’assedio di Antiochia” protesse l’ansia speranzosa della ragazza; ma quando fu scoperta, col sorriso intriso di ragnatele e le mani velate di polvere, venne avvinghiata e stretta, e rimase una eternità a dire “No, Tancredi, no,” diniego che era un invito perché di fatto lui non faceva altro che fissare nei verdissimi occhi di lei l’azzurro dei propri. Una volta in una mattinata luminosa e fredda essa tremava nella veste ancora estiva; su di un divano coperto di stoffa a brandelli lui la strinse a sé per riscaldarla; il fiato odoroso di lei gli agitava i capelli sulla fronte; e furono momenti estatici e penosi, durante i quali il desiderio diventava tormento, i freni a loro volta, delizia.

Negli appartamenti abbandonati le camere non avevano ne fisionomia precisa ne nome; e come gli scopritori del Nuovo Mondo essi battezzavano gli ambienti attraversati col nome di ciò che in essi era accaduto a loro: una vasta stanza da letto nella cui alcova stava lo spettro di un letto adorno sul baldacchino da 108

scheletri di penne di struzzo, fu ricordata poi come la “camera delle pene”; una scaletta dai gradini di lavagna lisi e sbrecciati venne chiamata da Tancredi “la scala dello scivolone felice.” Più d’una volta non seppero più dove erano: a furia di giravolte, di ritorni, d’inseguimenti, di lunghe soste riempite di mormorii e contatti perdevano l’orientamento e dovevano sporgersi da una finestra senza vetri per comprendere dall’aspetto di un cortile, dalla prospettiva del giardino in quale ala del palazzo si trovassero. Talvolta però non si raccapezzavano lo stesso perché la finestra guardava non su uno dei grandi cortili ma su di un cortiletto interno, anonimo anch’esso e mai intravisto, contrassegnato soltanto dalla carogna di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa mai se vomitata o buttata via; e da un’altra finestra li scorgevano gli occhi di una cameriera pensionata. Un pomeriggio rinvennero dentro un cassettone con tre gambe quattro carillons, di quelle scatole per musica delle quali si dilettava l’artificiosa ingenuità del Settecento. Tre di esse, sommerse nella polvere e nelle ragnatele, rimasero mute; ma la quarta, più recente, meglio chiusa nello scrignetto di legno scuro, mise in moto il proprio cilindro di rame irto di punte e le linguette di acciaio sollevate fecero a un tratto udire una musichetta gracile, tutta in acuti argentini: il famoso “Carnevale di Venezia”; ed essi ritmarono i loro baci in accordo con quei suoni di giocondità disillusa; e quando la loro stretta si allentò si sorpresero nell’accorgersi che i suoni erano cessati da tempo e che le loro carezze non avevano seguito altra traccia che quella del ricordo di quel fantasma di musica.

Una volta la sorpresa fu di colore diverso. In una stanza della foresteria vecchia si avvidero di una porta nascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette presto a quelle dita che godevano nell’intrecciarsi e soffregarsi per forzarla; dietro, una lunga scala stretta si svolgeva in soffici curve con i suoi scalini di marmo rosa. In cima un’altra porta, aperta, e con spesse imbottiture disfatte, e poi un appartamentino vezzoso e strambo, sei piccole camere raccolte attorno a un salotto di mediocre grandezza, tutte e il salotto stesso con pavimenti di bianchissimo marmo, un po’ in pendio, declinanti verso una canaletta laterale.

Sui soffitti bassi bizzarri stucchi colorati che l’umidità aveva fortunatamente resi incomprensibili; sulle pareti grandi specchi attoniti, appesi troppo in giù, uno fracassato da un colpo quasi nel centro, ciascuno col contorto reggi-candela del Settecento; le finestre davano su un cortiletto segregato, una specie di pozzo cieco e sordo che lasciava entrare una luce grigia e sul quale non spuntava 109

nessun’altra apertura. In ogni camera ed anche nel salotto ampi, troppo ampi, divani che mostravano sulle inchiodature tracce di una seta strappata via; appoggiatoi maculati; sui caminetti, delicati, intricati intagli nel marmo, nudi parossistici, martoriati, però, Mutilati da martellate rabbiose. L’umidità aveva macchiato le Pareti in alto e, sembrava almeno, in basso ad altezza d’uomo, dove essa aveva assunto configurazioni strane, tinte cupe, “Consueti rilievi. Tancredi, inquieto, non volle che Angelica toccasse un armadio a muro del salotto; lo schiuse lui stesso. Era profondissimo e conteneva bizzarre cose: rotolini di corda di seta, sottile; scatolucce di argento impudicamente ornate con sul fondo esterno etichettine minuscole recanti in eleganti grafie indicazioni oscure, come le sigle che si leggevano sui vasi delle farmacie: “Estr. catch.” “Tirch-stram.” “Part-opp.”; bottigliette dal contenuto evaporato; un rotolo di stoffa sudicia, ritto in un angolo; dentro vi era un fascio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con manici in argento, altri rivestiti sino a metà da una graziosa seta molto vecchia, bianca a righine azzurre, sulla quale si scorgevano tre file di macchie nerastre; attrezzini metallici inspiegabili. Tancredi ebbe paura, anche di sé stesso, comprese di aver raggiunto il nucleo segreto centro d’irradiazione delle irrequietudini carnali del palazzo. “Andiamo via, cara, qui non c’è niente d’interessante.” Richiusero bene la porta, ridiscesero in silenzio la scala, rimisero a posto l’armadio; tutto il giorno poi i baci di Tancredi furono lievi, come dati in sogno ed in espiazione.

Dopo il Gattopardo, a dire il vero, la frusta sembrava essere l’oggetto più frequente a Donnafugata. L’indomani della loro scoperta dell’appartamentino enigmatico i due innamorati s’imbatterono in un altro frustino, di carattere ben diverso. Questo, in verità, non era negli appartamenti ignorati ma anzi in quello venerato detto del Duca-Santo, il più remoto del palazzo. Lì, a metà del Seicento un Salina si era ritirato come m un convento privato ed aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Ciclo. Erano stanze ristrette, basse di soffitto, con l’ammattonato di umile creta, con le pareti candide a calce, simili a quelle dei contadini più derelitti. L’ultima dava su un poggiuolo dal quale si dominava la distesa gialla dei feudi accavallati ai feudi, tutti immersi in una triste luce. Su di una parete un enorme Crocifisso più grande del vero: la testa del Dio martoriato toccava il soffitto, i piedi sanguinanti sfioravano il pavimento: la piaga sul costato sembrava una bocca cui la brutalità avesse vietato di pronunziare le parole della salvezza ultima. Accanto al cadavere divino pendeva giù da un chiodo 110

una frusta col manico corto dal quale si dipartivano sei strisce di cuoio ormai indurito, terminanti in sei palle di piombo grosse come nocciole. Era la

“disciplina” del Duca-Santo. In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle; nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne, come si dice. Invece le zolle erano sfuggite e molte di quelle che da lassù si vedevano appartenevano ad altri, a don Calogero anche; a don Calogero, cioè ad Angelica, quindi al loro futuro figlio. L’evidenza del riscatto attraverso la bellezza, parallelo all’altro riscatto attraverso il sangue diede a Tancredi come una vertigine. Angelica inginocchiata baciava i piedi trafitti di Cristo. “Vedi, tu sei come quell’arnese li, servi agli stessi scopi.” E mostrava la disciplina; e poiché Angelica non capiva ed alzato il capo sorrideva, bella ma vacua, lui si chinò e così genuflessa com’era le diede un aspro bacio che la fece gemere perché le ferì il labbro e le raschiò il palato.

I due passavano così quelle giornate in vagabondaggi trasognati; scoprirono inferni che l’amore poi redimeva, rinvenivano paradisi trascurati che quello stesso amore dopo profanava; il pericolo di far cessare il giuoco per incassarne subito la posta si acuiva, urgeva per tutti e due; alla fine non cercavano più, ma se ne andavano assorti nelle stanze più isolate, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state, solo invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano lì tutti e due stretti ed innocenti, a compatirsi l’un l’altro. Le più pericolose per loro erano le stanze della foresteria vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna col suo bei letto dalle materassa arrotolate che un colpo della mano avrebbe bastato a distendere... Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto: “Sono la tua novizia,” richiamando alla mente di lui con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri corso fra loro; e già la donna resa scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l’uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sorriso. Si ripresero; e l’indomani Tancredi doveva partire.

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Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull’inevitabile sfondo di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che stimavano più concreto benché poi risultasse formato di fumo e di vento soltanto.

Quando furono divenuti vecchi e inutilmente saggi i loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati i giorni del desiderio sempre presente perché sempre vinto, dei letti, molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, dello stimolo sensuale che appunto perché inibito si era, un attimo, sublimato in rinunzia, cioè in vero amore. Quei giorni furono la preparazione a quel loro matrimonio che, anche eroticamente, fu mal riuscito; una preparazione però che si atteggiò in un insieme a sé stante, squisito e breve: come quelle sinfonie che sopravvivono alle opere dimenticate e che contengono, accennati e con la loro giocosità velata di pudore, tutte quelle arie che poi nell’opera dovevano essere sviluppate senza destrezza, e fallire.

Quando Angelica e Tancredi ritornavano nel mondo dei viventi dal loro esilionell’universo dei vizi estinti, delle virtù dimenticate e, soprattutto, del desiderioperenne, venivano accolti con bonaria ironia. “Siete proprio scemi, ragazzi, adandare a impolverarvi così. Ma guarda un po’ come sei ridotto, Tancredi” sorridevaDon Fabrizio; e il nipote andava a farsi spazzolare. Cavriaghi a cavalcioni di unasedia fumava compunto un “virginia” e guardava l’amico che si lavava la faccia e ilcollo e che sbuffava per il dispetto di veder l’acqua diventare nera come il carbone.

“Io non dico di no, Falconeri: la signorina Angelica è la più bella ‘tosa’ che abbiamai visto; ma questo non ti giustifica: Santo Dio, un po’ di freni ci vogliono! oggisiete stati soli tre ore; se siete tanto innamorati sposatevi subito e non fate ridere lagente. Avresti dovuto vedere la faccia che ha fatto il padre oggi quando, uscitodall’amministrazione ha visto che voi stavate ancora navigando in quell’oceano distanze! Freni, caro amico, freni ci vogliono, e voi Siciliani ne avete pochini!”

Pontificava, lieto d’infliggere la propria saggezza al camerata più anziano, al cugino della “sorda” Concetta. Ma Tancredi mentre si asciugava i capelli era furibondo: essere accusato di mancare di freni, lui, che ne aveva tanti da poter fermare un treno! D’altra parte l’insolente bersagliere non aveva poi tutti i torti: anche alle apparenze bisognava pensare; però era divenuto tanto moralista per invidia, perché ormai era chiaro che la sua corte a Concetta non approdava a nulla. E poi quell’Angelica: quel gusto soavissimo di sangue oggi, quando le aveva morso l’interno del labbro! e quel suo piegarsi soffice, sotto l’abbraccio! Ma era 112

vero, non aveva senso comune. “Domani andremo a visitare la chiesa con tanto di Padre Pirrone e Monsignor Trottolino di scorta.”

Intanto Angelica era andata a mutar d’abito nella stanza delle ragazze. “Mais, Angelica, est-ce Dieu possible de se mettre en un tel état?” s’indignava la Dombreuil mentre la bella in corpetto e sottanina si lavava le braccia. L’acqua fredda le faceva sbollire l’eccitazione e doveva convenire fra sé che la governante aveva ragione: valeva la pena di stancarsi tanto, d’impolverarsi a quel modo, di far sorridere la gente e per che cosa, poi? per farsi guardare negli occhi, per lasciarsi percorrere da quelle dita sottili, per poco di più... E il labbro le doleva ancora. “Adesso basta. Domani resteremo in salotto con gli altri.” Ma l’indomani quegli stessi occhi, quelle stesse dita avrebbero riacquistato il loro sortilegio e di nuovo i due avrebbero ripreso il loro pazzesco gioco a nascondersi, a mostrarsi.

Il risultato paradossale di questi propositi, separati ma convergenti, era che la sera a pranzo i due più innamorati erano i due più sereni, poggiati sulle illusorie buone intenzioni per l’indomani e si divertivano a ironizzare sulle manifestazioni amorose degli altri, pur tanto minori. Concetta aveva deluso Tancredi: a Napoli aveva patito per un certo rimorso nei riguardi di lei e per questo si era tirato dietro Cavriaghi col quale sperava di rimpiazzare sé stesso nei riguardi della cugina; anche la compassione faceva parte della sua preveggenza. Sottilmente ma anche bonariamente astuto com’era, arrivando, aveva avuto l’aria di condolersi quasi con lei per il suo proprio abbandono; e spingeva avanti l’amico. Niente.

Concetta dipanava il proprio chiacchiericcio da collegiale, guardava il sentimentale contino con occhi gelidi dentro i quali si poteva financo notare un po’ di disprezzo. Quella ragazza era una sciocca, non se ne poteva tirar fuori niente di buono. Alla fine, cosa voleva? Cavriaghi era un bei ragazzo, una buona pasta d’uomo, aveva un buon nome, grasse cascine in Brianza; era insomma quel che con termine refrigerante si chiama un “ottimo partito.” Già: Concetta voleva lui, non era così? Anche lui la aveva voluta un tempo: era meno bella, assai meno ricca di Angelica, ma aveva in sé qualche cosa che la donnafugasca non avrebbe posseduto mai. Ma la vita è una cosa seria, che diamine! Concetta avrebbe dovuto capirlo; e poi perché aveva cominciato a trattarlo tanto male? Quella partaccia a Santo Spirito, tante altre dopo. Il Gattopardo, sicuro, il Gattopardo; ma dovrebbero esistere dei limiti anche per quella bestiaccia superba. “Freni ci vogliono, cara cugina, freni! E voi Siciliane ne avete pochini.”

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In cuor suo Angelica dava invece ragione a Concetta: Cavriaghi mancava troppo di pepe; dopo esser stata innamorata di Tancredi sposare lui sarebbe stato come bere dell’acqua dopo aver gustato questo Marsala che le stava davanti.

Concetta, va bene, la capiva a causa dei precedenti. Ma le altre due stupide, Carolina e Caterina, guardavano Cavriaghi con occhi di pesce morto e

“fricchicchiavano,” si sdilinquivano tutte quando lui le avvicinava. E allora! Con la mancanza di scrupoli paterna essa non capiva perché una delle due non cercasse di distogliere il contino da Concetta a proprio profitto. “A quell’età i giovanotti sono come cagnolini: basta fischiettare e si avanzano subito. Sono delle stupide: a forza di riguardi, divieti, superbie, finiranno si sa già come.”

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