“Ma gli altri di casa, don Ciccio, gli altri, come sono veramente?”
“Eccellenza, la moglie di Don Calogero non l’ha vista nessuno da anni, meno di me. Esce soltanto per andare a messa, alla prima messa, quella delle cinque, quando non c’è nessuno. A quell’ora servizio di organo non ce n’è; ma io una volta ho fatto una levataccia apposta per vederla. Donna Bastiana entrò accompagnata 82
dalla cameriera, ed io impedito dal confessionale dietro il quale mi ero nascosto, non riuscivo a vedere molto; ma alla fine del servizio il caldo fu più forte della povera donna ed essa scartò il velo nero. Parola d’onore, Eccellenza, essa è bella come il sole! e non si può dar torto a don Calogero se, scarafaggio come è lui, se la vuoi tenere lontana dagli altri. Però anche dalle case meglio custodite le notizie finiscono col gocciolare; le serve parlano; e pare che donna Bastiana sia una specie di animale: non sa leggere, non sa scrivere, non conosce l’orologio, quasi non sa parlare: una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza; è incapace anche di voler bene alla figlia; buona ad andare a letto e basta.” Don Ciccio che, pupillo di regine e seguace di principi, teneva molto alle proprie semplici maniere che stimava perfette, sorrideva compiaciuto: aveva scoperto il modo di prendersi un po’ di rivincita sull’annientatore della propria personalità. “Del resto” continuava
“non potrebbe essere altrimenti. Lo sapete, Eccellenza, di chi è figlia donna Bastiana?” Voltatesi, si alzò sulla punta dei piedi e con l’indice mostrava un lontano gruppetto di case che sembravano scivolare giù dal dirupo di un colle ed esservi a mala pena inchiodate da un campanile miserabile: un borgo crocifisso.
“È figlia di un vostro affittuario di Runci, Peppe Giunta si chiamava e tanto sudicio, e torvo era che tutti lo chiamavano ‘Peppe ‘Mmerda’. Scusate la parola, Eccellenza.” E, sodisfatto, avvolgeva attorno a un suo dito un orecchio di Teresina. “Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera che va a Rampinzeri, con dodici ‘lupare’ nella schiena.
Sempre fortunato don Calogero, perché quello stava diventando importuno e prepotente.”
Molte di queste cose erano già note a Don Fabrizio ed erano state passate in bilancio; ma il soprannome del nonno di Angelica non lo conosceva; esso apriva una prospettiva storica profonda, svelava abissi in paragone dei quali don Calogero sembrava un’aiuola da giardino. Senti veramente il terreno mancargli sotto i piedi; come avrebbe fatto Tancredi a mandar giù anche questo? e lui stesso? La sua testa si mise a calcolare quale legame di parentela avrebbe potuto unire il Principe di Salina, zio dello sposo, al nonno della sposa; non ne trovò, non ve n’erano. Angelica era Angelica, un fiore di ragazza, una rosa cui il soprannome del nonno era servito solo da fertilizzante. “Non olet” ripeteva “non olet” anzi “optime foeminam ac contubernium olet.”
“Di tutto mi avete parlato, don Ciccio, di madri selvagge e di nonni fecali, ma non di ciò che mi interessa di più, della signorina Angelica.”
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Il segreto sulle intenzioni matrimoniali di Tancredi, benché ancora embrionali sino a poche ore prima, sarebbe stato certamente divulgato se, per caso, non avesse avuto la fortuna di mimetizzarsi. Senza dubbio erano state notate le frequenti visite del giovane alla casa di don Calogero come pure i suoi sorrisi rapiti; le mille piccole premure, abituali e insignificanti in città, divenivano sintomi di violente brame agli occhi del puritanesimo donnafugasco. Lo scandalo maggiore era stato il primo: i vecchietti che si rosolavano al sole e i ragazzini che duellavano avevano visto tutto, compreso tutto e ripetuto tutto; sui significati ruffianeschi e afrodisiaci di quella dozzina di pesche erano state consultate megere espertissime e libri disvelatori di arcani fra i quali in primo luogo il Rutilio Benincasa, l’Aristotile delle plebi contadine. Per fortuna si era prodotto un fenomeno relativamente frequente da noi: il desiderio di malignare aveva mascherato la verità; tutti si erano costruiti il pupazzo di un Tancredi libertino che aveva fissato la propria lascivia su Angelica e che armeggiasse per sedurla, e basta. Il semplice pensiero di un matrimonio meditato fra un Principe di Falconeri e una nipote di Peppe ‘Mmerda non traversò neppure l’immaginazione di quei villici che rendevano così alle case feudali un omaggio equivalente a quello che il bestemmiatore rende a Dio. La partenza di Tancredi troncò poi queste fantasie e non se ne parlò più. Sotto questo riguardo Tumeo era stato alla pari con gli altri e perciò accolse la domanda del Principe con l’aria divertita di un uomo anziano che parli delle bricconate di un giovanotto.
“Della signorina, Eccellenza, non c’è niente da dire: essa parla da sé: i suoi occhi, la sua pelle, la sua magnificenza sono esplicite e si fanno capire da tutti.
Credo che il linguaggio che parlano sia stato ben compreso da Don Tancredi; o sono troppo maligno a pensarlo? In lei c’è tutta la bellezza della madre senza l’odor di beccume del nonno. E intelligente poi! Avete visto come questi pochi anni a Firenze sono bastati a trasformarla? È diventata una vera signora” continuava don Ciccio che era insensibile alle sfumature “una signora completa. Quando è ritornata dal collegio mi ha fatto venire a casa sua e mi ha suonato la mia vecchia mazurka: Suonava male ma vederla era una delizia, con quelle trecce nere, quegli occhi, quelle gambe, quel petto... Uuh! altro che odore di beccume! le sue lenzuola devono avere il profumo del paradiso!”
Il Principe si seccò: tanto geloso è l’orgoglio di classe, anche nel momento in cui traligna, che quelle lodi orgiastiche alla procacia della futura nipote lo offesero; come ardiva don Ciccio esprimersi con questo lascivo lirismo nei riguardi della 84
futura Principessa di Falconeri? Era vero però che il pover’uomo non ne sapeva niente; bisognava raccontargli tutto; del resto fra qualche ora la notizia sarebbe stata pubblica. Si decise subito e rivolse a Tumeo un sorriso Gattopardesco ma amichevole: “Calmatevi, caro don Ciccio, calmatevi; a casa ho una lettera di mio nipote che mi incarica di fare una domanda di matrimonio per la signorina Angelica; da ora in poi ne parlerete col vostro consueto ossequio. Siete il primo a conoscere la notizia, ma per questo vantaggio dovrete pagare: ritornato a palazzo sarete rinchiuso a chiave insieme a Teresina nella stanza dei fucili; avrete il tempo di ripulirne e oliarne parecchi e sarete posto in libertà soltanto dopo la visita di don Calogero; non voglio che niente trapeli prima.”
Sorpresi così alla sprovvista, le cento precauzioni, i cento snobismi di don Ciccio crollarono di botto come un gruppo di birilli centrati in pieno. Sopravvisse solo un sentimento antichissimo.
“Questa, Eccellenza, è una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così, è una resa senza condizioni. È la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!”
Detto questo chinò il capo e desiderò, angosciato, che la terra si aprisse sotto i suoi piedi. Il Principe era diventato paonazzo, financo le orecchie, financo i globi degli occhi sembravano sangue. Strinse i magli dei suoi pugni e fece un passo verso don Ciccio. Ma era un uomo di scienza, abituato dopo tutto a vedere il prò e contro delle cose; inoltre sotto l’aspetto leonino era uno scettico. Aveva di già subito tanto oggi: il risultato del Plebiscito, il soprannome del nonno di Angelica, le “lupare”! E Tumeo aveva ragione, in lui parlava la tradizione schietta. Però era uno stupido: questo matrimonio non era la fine di niente ma il principio di tutto; era nell’ambito di secolari consuetudini.
I pugni si riaprirono, i segni delle unghia rimasero impressi nei palmi.
“Andiamo a casa, don Ciccio; voi certe cose non le potete capire. D’accordo come prima, siamo intesi?”
E mentre discendevano verso la strada sarebbe stato difficile dire quale dei due fosse don Chisciotte e quale Sancio.
Quando alle quattro e mezza precise gli venne annunziata la venuta puntualissima di don Calogero, il Principe non aveva ancora finita la propria toletta; fece pregare il signor Sindaco di aspettare un momento nello studio e, continuò, placido a farsi bello. Si unse i capelli con il lemo-liscio, il Lime-Juice di 85
Atkinson, densa lozione biancastra che gli arrivava a cassette da Londra e che subiva, nel nome, la medesima deformazione etnica delle canzoni; rifiutò la redingote nera e la fece sostituire con una di tenuissima tinta lillà che gli sembrava più adatta all’occasione presunta festosa, indugiò ancora un poco per strapparsi dal mento, con una pinzetta, uno sfacciato peluzzo biondo che era riuscito a farla franca la mattina nell’affrettata rasatura; fece chiamare Padre Pirrone; prima di uscire prese su un tavolo un estratto delle Blatter der Himmeisforschung e con il fascicoletto arrotolato si fece il segno della croce, gesto di devozione che ha in Sicilia un significato non religioso più frequente di quanto s’immagini.
Traversando le due stanze che precedevano lo studio si illuse di essere un Gattopardo imponente dal pelo liscio e profumato che si preparasse a sbranare uno sciacalletto timoroso; ma per una di quelle involontarie associazioni di idee che sono la croce delle nature come la sua, davanti alla memoria gli passò l’immagine di uno di quei quadri storici francesi nei quali marescialli e generali austriaci, carichi di pennacchi e gale, sfilano, arrendendosi dinanzi a un ironico Napoleone; loro sono più eleganti, è indubbio, ma il vincitore è l’omiciattolo in cappottino grigio; e così, oltraggiato da questi inopportuni ricordi di Mantova e di Ulma, fu invece un Gattopardo irritato a entrare nello studio.
Don Calogero se ne stava li all’impiedi, piccolissimo, minuto e imperfettamente rasato; sarebbe davvero sembrato uno sciacalletto non fosse stato per i suoi occhietti sprizzanti intelligenza; ma poiché questo ingegno aveva uno scopo materiale opposto a quello astratto cui credeva tendere quello del Principe, esso venne considerato come segno di malignità. Sprovvisto del senso di adattamento dell’abito alle circostanze che nel Principe era innato, il sindaco aveva creduto far bene vestendosi quasi in gramaglie; egli era nero quasi quanto Padre Pirrone; ma, mentre questi si sedette in un cantuccio assumendo l’aria marmoreamente astratta dei sacerdoti che non vogliono pensare sulle decisioni altrui, il volto di lui esprimeva un sentimento di avida attesa quasi penoso da guardare. S’iniziarono subito le scaramucce di parole insignificanti che precedono le grandi battaglie verbali. Ma fu don Calogero a disegnare il grande attacco: “Eccellenza” chiese “ha ricevuto buone notizie da Don Tancredi?” Nei piccoli paesi allora il sindaco aveva modo di controllare, inofficiosamente, la posta, e l’inconsueta eleganza della lettera di Tancredi lo aveva forse posto in guardia. Il Principe quando questa idea gli passò per la testa, cominciò ad irritarsi.
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“No, don Calogero, no. Mio nipote è diventato pazzo...”
Ma esiste una Dea protettrice dei principi. Essa si chiama Buone Creanze, e spesso interviene a salvare i Gattopardi dai mali passi. Però gli si deve pagare un forte tributo. Come Pallade Athena interviene a frenare le intemperanze di Odissee così Buone Creanze si manifestò a Don Fabrizio per fermarlo sull’orlo dell’abisso; ma egli dovette pagare la salvezza divenendo esplicito una volta tanto in vita sua. Con perfetta naturalezza, Senza un attimo di sosta conchiuse la frase:
“pazzo di amore per vostra figlia, don Calogero; e me lo ha scritto ieri.” Il sindaco conservò una sorprendente equanimità; sorrise e si diede a scrutare il nastro del proprio cappello; Padre Pirrone aveva gli occhi rivolti al soffitto come se fosse un capomastro incaricato di saggiarne la solidità. Don Fabrizio rimase male: quelle taciturnità congiunte gli sottraevano anche la minima soddisfazione di aver stupefatto gli ascoltatori. Fu quindi con sollievo che si accorse che don Calogero stava per parlare.
“Lo sapevo, Eccellenza, lo sapevo. Sono stati visti baciarsi Martedì 25
Settembre, la vigilia della partenza di Don Tancredi; nel vostro giardino, vicino alla fontana. Le siepi di alloro non sempre sono fitte come si crede. Per un mese ho atteso un passo di vostro nipote, e adesso pensavo già di venire a chiedere a Vostra Eccellenza quali fossero le intenzioni di lui.”
Vespe numerose e pungenti assalirono Don Fabrizio. Anzi tutto, come si conviene ad ogni uomo non ancora decrepito, quella della gelosia carnale: Tancredi aveva assaporato quel gusto di fragole che a lui sarebbe rimasto sempre ignoto. Dopo, un senso di umiliazione sociale, quello di ritrovarsi ad essere l’accusato invece che il messaggero di buone nuove. Terzo un dispetto personale, quello di chi si sia illuso di controllare tutti e che invece trova che molte cose si svolgono senza che lui lo sappia.
“Don Calogero, non cambiarne le carte in tavola. Ricordatevi che sono stato io a pregarvi di venire qui. Volevo comunicarvi una lettera di mio nipote che è arrivata ieri. In essa si dichiara la passione sua per la signorina vostra figlia, passione che io...” (qui il Principe titubò un poco perché le bugie sono talvolta difficili da dire davanti a degli occhi a succhiello come quelli del sindaco) “della quale io ignoravo tutta l’intensità; ed a conclusione di essa egli mi ha incaricato di chiedere a voi la mano della signorina Angelica.”
Don Calogero continuava a rimanere impassibile; Padre Pirrone da perito edile si era trasformato in santone mussulmano e, incrociate quattro dita della sua 87
destra con quattro della, sinistra, faceva roteare i pollici l’uno attorno all’altro, invertendone e mutandone la direzione con sfoggio di fantasia coreografica. Il silenzio durò a lungo, il Principe si spazientì: “Adesso, don Calogero, sono io che aspetto che mi dichiariate le vostre intenzioni.”
Il sindaco che aveva tenuto gli occhi rivolti verso la frangia arancione della poltrona del Principe, se li coprì un istante con la destra, poi li rialzò; adesso apparivano candidi, colmi di stupefatta sorpresa, come se davvero se li fosse cambiati in, quell’atto.
“Scusatemi, Principe.” (Alla fulminea omissione dell’“Eccellenza” don Fabrizio capi che tutto era felicemente consumato.) “Ma la bella sorpresa mi aveva tolto la parola. Io però sono un padre moderno e non potrò darvi una risposta definitiva se non dopo aver interrogato quell’angelo che è la consolazione della nostra casa.
I diritti sacri di un padre, però, so anche esercitarli; io conosco tutto ciò che avviene nel cuore e nella mente di Angelica, e credo poter dire che l’affetto di Don Tancredi, che tanto ci onora tutti, è sinceramente ricambiato.”
Don Fabrizio fu sopraffatto da sincera commozione: il rospo era stato ingoiato, la testa e gl’intestini maciullati scende vano giù per la sua gola: restavano ancora da masticare le zampe ma era roba di poco conto in confronto del resto; il più era fatto. Assaporato questo senso di liberazione, cominciò in lui a farsi strada l’affetto per Tancredi; si raffigurò gli stretti occhi azzurri che avrebbero sfavillato leggendo la risposta festosa; immaginò, ricordò per dir meglio, i primi mesi di un matrimonio di amore durante i quali le frenesie, le acrobazie dei sensi sono smaltate e sorrette da tutte le gerarchie angeliche, benevole benché sorprese.
Ancor più in là intravide la vita sicura, la possibilità di sviluppo dei talenti di Tancredi, cui, senza questo, la mancanza di quattrini avrebbe tarpato le ali.
Il nobiluomo si alzò, fece un passo verso don Calogero attonito, lo sollevò dalla poltrona, se lo strinse al petto; le gambe corte del Sindaco rimasero sospese in aria. In quella stanza di remota provincia siciliana venne a raffigurarsi una stampa giapponese nella quale un moscone peloso pendesse i da un enorme iris violaceo. Quando don Calogero ritoccò il pavimento: “Debbo proprio regalargli un paio di rasoi inglesi” pensò Don Fabrizio “così non può andare avanti.”