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contrastare per non fare risalire alla propria memoria altri più calorosi versetti; mademoiselle Dombreuil, come si conviene alle governanti, piangeva di emozione, stringeva fra le sue mani deluse le spalle fiorenti della fanciulla dicendo:

“Angelica, Angelica, pensons à la joie de Tancrède. “ Bendicò soltanto, in contrasto con la consueta sua socievolezza, ringhiava nel fondo della propria gola, finché venne energicamente messo a posto da un Francesco Paolo indignato cui le labbra fremevano ancora.

Su ventiquattro dei quarantotto bracci del lampadario era stata accesa una candela e ognuno di questi ceri candido e acceso insieme, poteva sembrare una vergine che si struggesse di amore; i fiori bicolori di Murano sul loro stelo di curvo vetro guardavano in giù, ammiravano colei che entrava e le rivolgevano un sorriso cangiante e fragile. Il grande caminetto era acceso più in segno di giubilo che per riscaldare l’ambiente ancora tiepido e la luce delle fiamme palpitava sul pavimento, sprigionava intermittenti bagliori dalle dorature svanite del Mobilio; 97

esso rappresentava davvero il focolare domestico, il simbolo della casa, e in esso i tizzoni alludevano a sfavillii di desideri, la brace a contenuti ardori.

Dalla Principessa, che possedeva in grado eminente la Scolta di ridurre le emozioni al minimo comun denominatore, Annero narrati sublimi episodi della fanciullezza di Tancredi; e tanto essa insistette su questi che davvero si sarebbe potuto credere che Angelica dovesse riputarsi fortunata di sposare un uomo che a sei anni era stato tanto ragionevole da sottomettersi ai clisterini indispensabili senza far storie, e a dodici tanto ardito da aver osato rubare una manata di ciliegie; mentre questo episodio di banditismo temerario veniva ricordato, Concetta si mise a ridere: “Questo è un vizio che Tancredi non si è ancora potuto togliere” disse “ricordi, papa, quando due mesi fa ti ha portato via quelle pesche alle quali tenevi tanto?”; poi si rabbuiò ad un tratto come se fosse stata presidente di una società di frutticoltura danneggiata.

Presto la voce di Don Fabrizio pose in ombra queste inezie; parlò del Tancredi di adesso, del giovanotto sveglio e attento, sempre pronto a una di quelle uscite che rapivano chi gli voleva bene ed esasperavano gli altri; raccontò come durante un soggiorno a Napoli, presentato alla duchessa di Sanqualchecosa questa si fosse presa di una passione per lui e voleva vederlo a casa mattina, pomeriggio e sera, non importa se si trovasse in salotto o a letto, perché, diceva, nessuno sapeva raccontare les petits riens come lui; e benché Don Fabrizio si affrettasse a precisare come allora Tancredi non avesse ancora sedici anni e la duchessa fosse al di là della cinquantina, gli occhi di Angelica lampeggiarono perché essa possedeva precise informazioni sui giovanottini palermitani e forti intuizioni sul conto delle duchesse napoletane.

Se da questa attitudine di Angelica si volesse dedurre che essa amava Tancredi, ci si sbaglierebbe: essa possedeva troppo orgoglio e troppa ambizione per essere capace di quell’annullamento, provvisorio, della propria personalità senza il quale non c’è amore; inoltre la propria limitata esperienza giovanile e sociale non le permetteva ancora di apprezzare le reali qualità di lui, composte tutte di sfumature sottili; però, pur non amandolo, essa era, allora, innamorata di lui, il che è assai differente; gli occhi azzurri, l’affettuosità scherzosa, certi toni improvvisamente gravi della sua voce le causavano, anche nel ricordo, un turbamento preciso, e in quei giorni non desiderava altro che di esser piegata da quelle mani; piegata che fosse stata le avrebbe dimenticate e sostituite, come infatti avvenne, ma per il momento ad esser ghermita da lui essa teneva assai.

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Quindi la rivelazione di quella possibile relazione galante (che era, del resto, inesistente) le causò un attacco del più assurdo fra i flagelli, quello della gelosia retrospettiva; attacco presto dissipato, però, da un freddo esame dei vantaggi erotici ed extra-erotici che le sue nozze con Tancredi recavano.

Don Fabrizio continuava ad esaltare Tancredi; trascinato dall’affetto parlava di lui come di un Mirabeau: “Ha cominciato presto ed ha cominciato bene; la strada che farà è molta.” La fronte liscia di Angelica si chinava nell’assenso; in realtà all’avvenire politico di Tancredi non badava. Era una delle molte ragazze che considerano gli avvenimenti pubblici come svolgentisi in un universo separato e non immaginava neppure che un discorso di Cavour potesse con l’andar del tempo, attraverso mille ingranaggi minuti, influire sulla vita di lei e mutarla.

Pensava in siciliano: “Noi avremo il ‘furmento’ e questo ci basta; che strada e strada!” Ingenuità giovanili queste, che essa doveva in seguito rinnegare quando, nel corso degli anni, divenne una delle più viperine Egerie di Montecitorio e della Consulta.

“E poi, Angelica, voi non sapete ancora quanto è divertente Tancredi! Sa tutto, di tutto coglie un aspetto imprevisto. Quando si è con lui, quando è in vena, il mondo appare più buffo di come appaia sempre, talvolta anche più serio.” Che Tancredi fosse divertente Angelica lo sapeva; che fosse capace di rivelare mondi nuovi essa non soltanto lo sperava ma aveva ragione di sospettarlo fin dalla fine del mese scorso, nei giorni del famoso ma non unico bacio ufficialmente constatato che era stato infatti qualcosa di molto più sottile e sapido di quel che fosse stato il solo altro suo esemplare, quello regalatele dal ragazzetto giardiniere a Poggio a Calano, più di un anno fa. Ma ad Angelica importava poco dei tratti di spirito, della intelligenza anche, del fidanzato, assai meno ad ogni modo di quanto queste cose importassero a quel caro Don Fabrizio, tanto caro davvero, ma anche tanto “intellettuale.” In Tancredi essa vedeva la possibilità di avere un posto eminente nel Biondo nobile della Sicilia, mondo che essa considerava pieno di meraviglie assai differenti da quelle che esso in realtà conteneva ed in lui desiderava anche un vivace compagno di abbracciamenti. Se per di più era anche intellettualmente superiore, tanto meglio; ma lei, per conto suo, non ci teneva.

Divertirsi si poteva sempre. Per il momento, spiritoso o sciocco che fosse avrebbe voluto averlo qui, che le stuzzicasse almeno la nuca, di sotto le trecce, come soleva fare, fra l’altro. “Dio, Dio, come vorrei che fosse qui, tra noi, ora!”

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Esclamazione che commosse tutti, sia per la evidente sincerità, come per l’ignoranza in cui restava la sua cagione e che conchiuse la felicissima prima visita. Poco dopo infatti Angelica e suo padre si congedarono; preceduti da un mozzo di scuderia con una lanterna accesa che con l’oro incerto della sua luce accendeva il rosso delle foglie cadute dei platani, padre e figlia rientrarono in quella loro casa l’ingresso della quale era stato vietato a Peppe ‘Mmerda dalle

“lupare” che gli strafotterono i reni.

Un’abitudine nella quale si era riannidato Don Fabrizio ridiventato sereno era quella delle letture serali. In autunno, dopo il Rosario, poiché faceva troppo buio per uscire la famiglia si riuniva attorno al caminetto aspettando l’ora di pranzo, ed il Principe leggeva ai suoi, a puntate, un romanzo moderno; e sprizzava dignitosa benevolenza da ognuno dei propri pori.

Erano quelli, appunto, gli anni durante i quali, attraverso i romanzi si andavanoformando quei miti letterari che ancor oggi dominano le menti europee; la Siciliaperò, in parte per la sua tradizionale impermeabilità al nuovo, in pane per ladiffusa misconoscenza di qualsiasi lingua, in pane anche, occorre dirlo, per lavessatoria censura borbonica che agiva per mezzo delle dogane, ignoraval’esistenza di Dickens, di Eliot, della Sand e di Flaubert, financo quella di Dumas.

Un paio di volumi di Balzac, è vero, era giunto attraverso sotterfugi fino alle mani diDon Fabrizio che si era attribuito la carica di censore familiare; li aveva letti eprestati via, disgustato, ad un amico cui voleva del male, dicendo che essi erano ilfrutto di un ingegno senza dubbio vigoroso ma stravagante e “fissato” (oggi avrebbedetto monomaniaco); giudizio frettoloso, come si vede, non privo per altro di unacena acutezza. Il livello delle letture era quindi piuttosto basso, condizionatocom’era dal rispetto per i pudori verginali delle ragazze, da quello per gli scrupolireligiosi della Principessa e dallo stesso senso di dignità del Principe che si sarebberifiutato a far udire delle “porcherie” ai suoi familiari riuniti.

Si era verso il dieci di Novembre ed anche alla fine del soggiorno a Donnafugata. Pioveva fitto, imperversava un maestrale che spingeva rabbiosi schiaffi di pioggia sulle finestre; lontano si udiva un rotolio di tuoni; ogni tanto alcune gocce, avendo trovato la strada per penetrare negli ingenui fumaioli siciliani, friggevano un attimo sul fuoco e picchiettavano di nero gli ardenti tizzoni di ulivo. Si leggeva “Angiola Maria” e quella sera si era giunti alle ultime pagine: la descrizione dello sgomento viaggio della giovinetta attraverso la diaccia Lombardia invernale intirizziva il cuore siciliano delle signorine, pur nelle loro tiepide 100

poltrone. Ad un tratto si udì un gran tramestio nella stanza vicina e Mimi il cameriere entrò col fiato grosso: “Eccellenze” gridò dimenticando tutta la propria stilizzazione “Eccellenze! è arrivato il signorino Tancredi! È in cortile che fa scaricare i bagagli dal carrozzino. Bella Madre, Madonna mia, con questo tempo!”

E fuggì via.

La sorpresa rapi Concetta in un tempo che non corrispondeva più a quello reale, ed essa esclamò: “Caro!” ma il suono stesso della propria voce la ricondusse allo sconfortato presente e, com’è facile vedere, questi bruschi trapassi da una temporalità segregata e calorosa ad un’altra palese ma gelida le fecero molto male; per fortuna l’esclamazione, sommersa nell’emozione generale non venne udita.

Preceduti dai lunghi passi di Don Fabrizio tutti si precipitarono verso la scala; si traversarono in fretta i saloni bui, si discese; la grande porta era spalancata sullo scalone esterno e giù sul cortile; il vento irrompeva, faceva fremere le tele dei ritratti, spingendo innanzi a sé umidità e odor di terra; sullo sfondo del cielo lampeggiante gli alberi del giardino si dibattevano, e frusciavano come sete strapazzate. Don Fabrizio stava Per infilare la porta quando sull’ultimo gradino comparve una massa informe e pesante: era Tancredi avvolto nell’enorme Mantella azzurra della cavalleria piemontese, talmente inzuppate d’acqua da pesare cinquanta chili e da apparire nera. “Stai attento, zione: non mi toccare, sono una spugna!” La luce della lanterna della sala fece intravedere il suo volto.

Entrò, sganciò la catenella che tratteneva il mantello al collo, lasciò cadere l’indumento che si afflosciò a terra con un rumore viscido. Odorava di can bagnato e da tre giorni non si era tolto gli stivali, ma era lui, per Don Fabrizio che lo abbracciava, il ragazzo più amato che non i propri figli, per Maria Stella il caro nipote perfidamente calunniato, per Padre Pirrone la pecorella sempre smarrita e sempre ritrovata, per Concetta un caro fantasma rassomigliante al suo amore perduto; anche mademoiselle Dombreuil lo baciò con la bocca disavvezza alle carezze e gridava, la poveretta: “Tancrède, Tancrède, pensons à la joie d’Angelica, tante poche corde aveva il proprio arco, sempre costretta a raffigurarsi le gioie degli altri. Bendicò pure ritrovava il caro compagno di giochi, colui che come nessun altro sapeva soffiargli dentro il muso attraverso il pugno chiuso, ma, caninamente, dimostrava la propria estasi galoppando frenetico attorno alla sala e non curandosi dell’amato.

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Fu un momento davvero commovente quello del raggrupparsi della famiglia attorno al giovane che ritornava, tanto più caro in quanto non proprio della famiglia, tanto più lieto in quanto veniva a cogliere l’amore insieme ad un senso di perenne sicurezza. Momento commovente, ma anche lungo. Quando i primi impeti furono trascorsi, Don Fabrizio si accorse che sul limitare della porta stavano due altre figure, gocciolanti anch’esse ed anch’esse sorridenti. Tancredi se ne accorse pure e rise. “Scusatemi tutti, ma l’emozione mi aveva fatto perdere la testa. Zia” disse rivolto alla Principessa “mi sono permesso di portare qui un mio caro amico il conte Carlo Cavriaghi; del resto lo conoscete, è venuto tante volte alla villa quando era in servizio presso il generale. E quell’altro è il lanciere Moroni, il mio attendente.” Il soldato sorrideva nella sua faccia ottusamente onesta, se ne stava sull’attenti mentre dal grosso panno del pastrano l’acqua gli sgocciolava sul pavimento. Ma il contino non stava sull’attenti: toltosi il berrettino fradicio e sformato baciava la mano alla Principessa, sorrideva e abbagliava le ragazze con i baffetti biondi e l’insopprimibile erre moscia. “E pensare che a me avevano detto che quaggiù da voi non pioveva mai! Mamma mia, sono due giorni che siamo stati come dentro un fiume!” Dopo si fece serio: “Ma insomma, Falconeri, dov’è la signorina Angelica? Mi hai trascinato da Napoli fin qui per farmela vedere. Vedo molte belle, ma lei no.” Si rivolse a Dori Fabrizio: “Sa, principe, a sentire lui è la regina di Saba! Andiamo subito a riverire la formosissima et nigerrima. Muoviti, testone!”

Parlava così e trasportava il linguaggio delle mense ufficiali nell’arcigno salone con la sua doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati; e tutti si divertivano.

Ma Don Fabrizio e Tancredi la sapevano più lunga: conoscevano Don Calogero, conoscevano la “Bella Bestia” di sua moglie, l’incredibile trascuratezza della casa di quel riccone: cose queste che la candida Lombardia ignora.

Don Fabrizio intervenne: “Senta, conte; Lei credeva che in Sicilia non piovesse mai e può vedere invece come diluvia. Non vorrei Che credesse che da noi non ci sono le polmoniti e poi si trovasse a letto con quaranta di febbre. “Mimì” disse al suo cameriere “fai accendere i caminetti nella stanza del signorino Tancredi e in quella verde di foresteria. Fai preparare lo stanzino accanto per il soldato. E lei, conte, vada ad asciugarsi bene e a cambiar abito. Le farò portare un ponce e dei biscotti; e il pranzo è alle otto, fra due ore.” Cavriaghi era da troppi mesi abituato al servizio militare per non piegarsi subito alla voce autoritaria; salutò e segui 102

mogio mogio, il cameriere. Moroni si trascinò dietro le cassette degli ufficiali e le sciabole nelle loro fodere di flanella verde.

Intanto Tancredi scriveva: “Carissima Angelica, sono arrivato, e arrivato per tè.

Sono innamorato come un gatto, ma anche bagnato come un ranocchio, sudicio come un cane sperso e affamato come un lupo. Appena mi sarò ripulito e mi stimerò degno di mostrarmi alla bella fra le belle mi precipiterò da tè; fra due ore.

I miei ossequi ai tuoi cari genitori. A te... niente, per ora.” Il testo fu sottoposto all’approvazione del Principe; questi che era sempre stato un ammiratore dello stile epistolare di Tancredi lo approvò sorridendo; ed il biglietto venne subito inviato dirimpetto.

Tale era la foga della letizia generale che un quarto d’ora bastò perché i due giovani si asciugassero, si ripulissero, cambiassero divise e si ritrovassero nel

“Leopoldo” attorno al caminetto: bevevano tè e cognac e si lasciavano ammirare.

In quei tempi non vi era nulla di meno militare delle famiglie aristocratiche siciliane: gli ufficiali borbonici non si erano mai visti nei salotti palermitani ed i pochi garibaldini che vi erano penetrati vi avevano fatto più l’effetto di spaventapasseri pittoreschi che di militari veri e propri. Perciò quei due giovani ufficiali erano in verità i primi che le ragazze Salina vedessero da vicino; tutti e due in “doppio petto,” Tancredi con i bottoni d’argento dei lancieri, Carlo con quelli dorati dei bersaglieri, con l’alto colletto di velluto nero bordato d’arancione il primo; cremisi l’altro, allungavano verso la brace le gambe rivestite di panno azzurro e di panno nero. Sulle maniche i “fiori” d’argento o d’oro si snodavano in ghirigori, slanci e riprese senza fine: un incanto per quelle figliole avvezze alle redingotes severe ed ai “fracks” funerei. Il romanzo edificante giaceva rovesciato dietro una poltrona.

Don Fabrizio non capiva bene: li ricordava entrambi rossi come gamberi e trasandati. “Ma insomma, voialtri garibaldini non portate più la camicia rossa?” I due si voltarono come se li avesse morsi una vipera. “Ma che garibaldini e garibaldini, zione! Lo siamo stati, ora basta. Cavriaghi ed io siamo ufficiali dell’esercito regolare di Sua Maestà il re di Sardegna per qualche mese ancora, d’Italia fra poco. Quando l’esercito di Garibaldi si sciolse si poteva scegliere: andare a casa o restare nell’esercito del Re. Lui ed io come tutte le persone per bene siamo entrati nell’esercito ‘vero’. Con quelli li non si poteva restare, non è così, Cavriaghi?” “Mamma mia che gentaglia! Uomini da colpi di mano, buoni a 103

sparacchiare, e basta! Adesso siamo fra persone come si deve, siamo ufficiali sul serio, insomma” e sollevava i battetti in una smorfia di adolescente disgusto.

“Ci hanno tolto un grado, sai, zione; tanta poca stima avevano della serietà della nostra esperienza militare; io da capitano son ridiventato tenente, vedi” e mostrava gli intrichi dei ‘fiori’ “lui da tenente è sottotenente. Ma siamo contenti come se ci avessero promossi. Siamo rispettati in tutt’altro modo adesso con le nostre divise.” “Sfido io” interruppe Cavriaghi “la gente non ha più paura che rubiamo le galline, ora.” “Dovevi vedere da Palermo a qui quando ci fermavamo alle stazioni di posta per il cambio dei cavalli! Bastava dire: ‘ordini urgenti per il servizio di Sua Maestà,’ ed i cavalli comparivano come per incanto; e noi a mostrare gli ordini che erano poi i conti dell’albergo di Napoli bene avvolti e sigillati.”

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