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“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d’Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono , molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono una rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d’ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al ‘come’ più che al

‘perché’ e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche.” Tacque, lasciò in pace San Pietro. Continuò: “Posso dare a Lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?”

“Va da sé, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso.”

“C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra; egliha più meriti di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà conesserlo; più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza deimeriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi delMaggio scorso più che ineccepibile è stata utilissima; illusioni non credo che neabbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. È

l’individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dire che vuoi porrela propria candidatura alla camera dei deputati.” Di Sedàra si era molto parlato inPrefettura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalleysussultò: era un onest’uomo e la propria stima delle camere legislative era pari allapurità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece 124

bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più tardi, l’ottimo don Calogerodoveva ottenere il laticlavio. Benché onesto, però, Chevalley non era stupido;mancava si di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome diintelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità, e poi non aveva laimpenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l’amarezza e lo sconfortodi Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di neraindifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate avevainvidiato l’opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza lapropria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma serenoe vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delledonne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano così spesso alsuo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimopozzo.

Volle fare un ultimo sforzo; si alzò e l’emozione conferiva Pathos alla sua voce:

“Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori.”

Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: “Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare.’ Le racconterò un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, 125

il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. ‘ They are coming to teach us good manners’ risposi ‘ but won’t succeed, because we are gods.’

‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che da loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionali riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?

“Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è del feudalismo; mia cioè, per così dire.

Sarà. Ma il feudalismo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.

E tardi, Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di uomo civile.”

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L’indomani mattina presto Chevalley riparti e a Don Fabrizio, che aveva stabilito di andare a caccia, riuscì facile accomunarlo alla stazione di posta. Don Ciccio Tumeo era con ‘oro e portava sulle spalle il doppio peso dei due fucili, il suo e quello di Don Fabrizio, e dentro di sé la bile delle proprie virtù conculcate.

Intravista nel chiarore livido delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li rimestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti pigiati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini; esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state le mogli di quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti delle

“trazzere.” Gli uomini, abbrancato lo “zappone” uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l’alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee.

Chevalley pensava: “Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova, agile, moderna cambierà tutto.” Il Principe era depresso:

“Tutto questo” pensava “non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli... ; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.” Si ringraziarono scambievolmente, si salutarono.

Chevalley s’inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito.

Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio.

Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale del finestrino. Chevalley era solo; fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell’indice, ripulì il vetro per l’ampiezza di un occhio. Guardò; dinanzi a lui sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile.

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PARTE QUINTA

Febbraio 1861

I natali di Padre Pirrone erano rustici: era nato infatti a S. Cono, un paese piccino piccino che adesso, in grazia degli autobus, è quasi una delle stie-satelliti di Palermo ma che un secolo fa apparteneva, per così dire, a un sistema planetario a sé stante, lontano com’era quattro o cinque ore-carretto dal sole palermitano.

Il padre del nostro Gesuita era stato “soprastante” di due feudi che l’Abbazia di S. Eleuterio si lusingava di possedere nel territorio di S. Cono. Mestiere questo di

“soprastante” assai pericoloso, allora, per la salute dell’anima e per quella del corpo perché costringeva a frequentazioni strane ed alla cognizione di vari aneddoti il cui accumularsi cagionava una infermità che “di botto” (è la parola esatta) faceva cadere l’infermo stecchito ai piedi di qualche muricciuolo, con tutte le sue storielle sigillate nella pancia, irrecuperabili ormai alla curiosità degli sfaccendati. Però, don Gaetano, il genitore di Padre Pirrone, era riuscito a sfuggire a questa malattia professionale mercé una rigorosa igiene basata sulla discrezione e su un avveduto impiego di rimedi preventivi; ed era morto Pacificamente di polmonite una soleggiata Domenica di febbraio sonora di venti che sfogliavano i fiori dei mandorli. Egli lasciava la vedova e i tre figli (due ragazze e il sacerdote) in Indizioni economiche relativamente buone; da quel sagace uomo che era stato aveva saputo fare delle economie sullo stipendio incredibilmente esiguo pagategli dall’Abbazia, e, al momento del proprio transito possedeva alcune piante di mandorlo in fondo valle, qualche cespo di vite sui pendii e un po’

di pietroso pascolo più in alto; roba da poveretti, si sa; sufficiente però a conferire un certo peso nella depressa economia sanconetana; era anche proprietario di una casetta rigorosamente cubica, azzurra fuori e bianca dentro, quattro stanze sotto e quattro sopra, proprio all’ingresso del paese dalla parte di Palermo.

Padre Pirrone si era allontanato da quella casa a sedici anni quando i suoi successi alla scuola parrocchiale e la benevolenza dell’Abbate Mitrato di S.

Eleuterio lo avevano incamminato verso il seminario arcivescovile, ma, a distanza di anni, vi era ritornato più volte o per benedire le nozze delle sorelle o per dare 128

una (mondanamente, s’intende) superflua assoluzione a don Gaetano morente e vi ritornava adesso, sul finire del Febbraio 1861, per il quindicesimo anniversario della morte del padre; ed era una giornata ventosa e limpida, proprio come era stata quella.

Erano state cinque ore di scossoni, con i piedi penzoloni dietro la coda del cavallo; ma, una volta sormontata la nausea causata dalle pitture patriottiche dipinte di fresco sui pannelli del carretto e che culminavano nella retorica raffigurazione di un Garibaldi color di fiamma a braccetto di una Santa Rosalia color di mare, erano state cinque ore piacevoli. La vallata che sale da Palermo a S.

Cono riunisce in sé il paesaggio fastoso della zona costiera e quello inesorabile dell’interno, ed è percorsa da folate di vento improvvise che ne rendono salubre l’aria e che erano famose per esser capaci di sviare la traiettoria delle pallottole meglio premeditate, sicché i tiratori posti di fronte a problemi balistici ardui preferivano esercitarsi altrove. Il carrettiere, poi, aveva conosciuto molto bene il defunto e si era dilungato in ampie ricordanze dei meriti di lui, ricordanze che, benché non sempre adatte ad orecchie filiali ed ecclesiastiche, avevano lusingato l’ascoltatore assuefatto.

All’arrivo fu accolto con lacrimosa allegria. Abbracciò e benedisse la madre che ostentava i capelli candidi e la cera rosea delle vedove di fra le lane di un lutto imprescrittibile, salutò le sorelle e i nipoti ma, fra quest’ultimi guardò di traverso Carmelo che aveva avuto il pessimo gusto d’inalberare sulla berretta, in segno di festa, una coccarda tricolore. Appena entrato in casa fu assalito, come sempre, dalla dolcissima furia dei ricordi giovanili: tutto era immutato, il pavimento di coccio rosso come il parco mobilio; l’identica luce entrava dai finestrozzi esigui; il cane Romeo che latrava breve in un cantone era il trisnipote rassomigliantissimo di un altro cernieco compagno suo nei violenti giochi; e dalla cucina esalava il secolare aroma del “ragù” che sobbolliva, estratto di pomodoro, cipolle e carne di castrato, per gli “anelletti” dei giorni segnalati; ogni cosa esprimeva la serenità raggiunta mediante i travagli della Buon’Anima.

Presto si diressero alla chiesa per ascoltare la messa commemorativa. S. Cono, quel giorno, mostrava il proprio aspetto migliore e scialava in una quasi orgogliosa esibizione di feci diverse; caprette argute dai neri uberi penzolanti e molti di quei maialetti siciliani scuri e slanciati come puledri minuscoli, si rincorrevano fra la gente, su per le strade ripide; e poiché Padre Pirrone era divenuto una specie di gloria locale molte erano le donne, i bambini ed anche i 129

giovanotti che gli si affollavano intorno per chiedergli una benedizione o per ricordare i tempi passati.

In sacrestia si fece una rimpatriata col parroco e, ascoltata la Messa ci si recò sulla lapide sepolcrale, in una cappella di fianco: le donne baciarono il marmo lagrimando, il figlio pregò ad alta voce nel suo arcano latino; e quando si ritornò a casa gli “anelletti” erano pronti e piacquero molto a Padre Pirrone cui le raffinatezze culinarie di villa Salina non avevano guastato la bocca.

Verso sera poi gli amici vennero a salutarlo e si riunirono in camera sua: una lucerna di rame a tre braccia pendeva dal soffitto e spandeva la luce dimessa dei suoi moccoli a olio; in un angolo il letto ostentava le materassa variopinte e la soffocante trapunta rossa e gialla; un altro angolo della stanza era recinto da una alta e rigida stuoia, lo “zimmile” che custodiva il frumento color di miele che ogni settimana si recava al mulino per i bisogni della famiglia; alle pareti, da incisioni butterate, Sant’Antonio mostrava il Divino Infante, Santa Lucia i propri occhi divelti e S. Francesco Saverio arringava turbe di Indiani piumati e discinti; fuori, nel crepuscolo stellato, il vento zufolava e, a modo suo, era il solo a commemorare. Al centro della stanza, sotto la lucerna, si appiattiva al suolo il grande braciere racchiuso in una fascia di legno lucido sulla quale si posavano i piedi; tutt’intorno sedie di corda con gli ospiti. Vi era il parroco, i due fratelli Schirò, proprietari del luogo e don Pietrine, il vecchissimo erbuario: cupi erano venuti, cupi rimanevano perché, mentre le donne sfaccendavano abbasso, essi parlavano di politica e speravano di aver notizie consolanti da Padre Pirrone che arrivava da Palermo e che doveva saper molto dato che viveva fra i “signori.” Il desiderio di notizie era stato appagato, quello di conforto però fu deluso perché il loro amico gesuita un po’ per sincerità, un po’ anche per tattica mostrava loro nerissimo l’avvenire: su Gaeta sventolava ancora il tricolore borbonico ma il blocco era ferreo e le polveriere della piazzaforte saltavano in aria una per una, e li ormai non si salvava più nulla all’infuori dell’onore, cioè non molto; la Russia era amica ma lontana, Napoleone III infido e vicino, e degli insorti di Basilicata e Terra di Lavoro il Gesuita parlava poco perché sotto sotto se ne vergognava. Era necessario, diceva, subire la realtà di questo stato italiano che si formava, ateo e rapace, di queste leggi di espropria e di coscrizione che dal Piemonte sarebbero dilagate sin qui, come il colèra. “Vedrete” fu la sua non originale conclusione

“vedrete che non ci lasceranno neanche gli occhi per piangere.”

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A queste parole venne mescolato il coro tradizionale delle lagnanze rustiche. I fratelli Schirò e l’erbuario già sentivano il morso della fiscalità; per i primi vi erano stati contributi straordinari e centesimi addizionali; per l’altro una sconvolgente sorpresa: era stato chiamato in Municipio dove gli avevano detto che, se non avesse pagato venti lire ogni anno, non gli sarebbe più stato consentito di vendere i suoi semplici. “Ma io questa senna, questo stramonio, queste erbe sante fatte dal Signore me le vado a raccogliere con le mie mani sulle montagne, pioggia o sereno, nei giorni e nelle notti prescritte! me le essicco al sole che è di tutti e le metto in polvere da me col mortaio che era di mio nonno! Che c’entrate voi del Municipio? perché dovrei pagarvi venti lire? così per la vostra bella faccia?”

Le parole gli uscirono smozzicate dalla bocca senza denti, ma gli occhi gli s’incupirono di autentico furore. “Ho torto o ragione, Padre? Dimmelo tu!”

Il Gesuita gli voleva bene: se lo ricordava uomo già fatto, anzi già curvo per il continuo girovagare e raccattare quando lui stesso era un ragazzo che tirava sassate ai passeri; e gli era anche grato perché sapeva che quando vendeva un suo decotto alle donnette diceva sempre che senza tante o tanti “Ave Maria” o

“Gloriapatri” esso sarebbe rimasto inoperoso; il suo prudente cervello, poi, voleva ignorare che cosa ci fosse veramente negli intrugli e per quali speranze venissero richiesti.

“Avete ragione, don Pietrine, cento volte ragione. E come no? Ma se non prendono i soldi a voi e agli altri poveretti come voi dove li trovano per fare la guerra al Papa e rubargli ciò che gli appartiene?”

La conversazione si dilungava sotto la mite luce vacillante per il vento che riusciva a sorpassare le imposte massicce. Padre Pirrone spaziava nelle future inevitabili confische dei beni ecclesiastici: addio allora il mite dominio dell’Abbazia qui intorno; addio le zuppe distribuite durante gli inverni duri; e quando il più giovane degli Schirò ebbe l’imprudenza di dire che forse così alcuni contadini poveri avrebbero avuto un loro fondicello, la sua voce s’inaridì nel più deciso disprezzo. “Lo vedrete, don Antonino, lo vedrete. Il Sindaco comprerà tutto, pagherà le prime rate, e chi si è visto si è visto. Così di già è avvenuto in Piemonte.”

Finirono con l’andarsene, assai più accigliati di quando erano venuti e provvisti di mormorazioni per due mesi; rimase soltanto l’erbuario che quella notte non sarebbe andato a letto perché era luna nuova e doveva andare a raccogliere il 131

rosamarino sulle rocce dei Pietrazzi; aveva portato con sé il lanternino e si sarebbe incamminato appena uscito.

Are sens