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Nel salotto dove dopo la cena gli uomini si ritiravano per j fumare, anche le conversazioni fra Tancredi e Cavriaghi, i soli due fumatori della casa e quindi i due soli esiliati, assumevano un tono particolare. Il contino fini col confessare all’amico il fallimento delle proprie speranze amorose: “È troppo bella, troppo pura per me; non mi ama; sono stato temerario a sperarlo; me ne andrò da qui col pugnale del rimpianto infitto nel cuore. Non ho osato farle una proposta precisa. Sento che per lei sono come un verme della terra, ed è giusto che sia così; debbo trovare una vermessa che si accontenti di me.” E i suoi diciannove anni lo facevano ridere della propria sventura.

Tancredi, dall’alto della propria felicità assicurata, si provava a consolarlo: “Sai conosco Concetta dalla nascita; è la più cara creatura che esista, uno specchio d’ogni virtù; ma è un po’ chiusa, ha troppo ritegno, temo che stimi troppo sé stessa; e poi è siciliana sino al midollo delle ossa; non è mai uscita da qui; chi sa se si sarebbe mai trovata bene a Milano, un paesaccio dove per mangiare un piatto di maccheroni bisogna pensarci una settimana prima!”

L’uscita di Tancredi, una delle prime manifestazioni dell’unità nazionale, riuscì a far di nuovo sorridere Cavriaghi; su di lui pene e dolori non riuscivano a fermarsi. “Ma gliene avrei procurato delle casse dei vostri maccheroni, io! Ad ogni modo quel che è fatto è fatto; spero solo che i tuoi zii che sono stati tanto carini con me non mi odieranno poi per essermi venuto a cacciare fra voi senza costrutto.” Fu rassicurato, e sinceramente perché Cavriaghi era piaciuto a tutti, tranne che a Concetta (e del resto forse anche a Concetta) per il rumoroso buon umore che in lui si univa al sentimentalismo più flebile; e si parlò d’altro, cioè si parlò di Angelica.

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“Vedi, tu Falconeri, tu si che sei fortunato! Andare a scovare un gioiello come la signorina Angelica in questo porcile (scusa sai, caro). Che bella, Dio Signore, che bella! Bricconaccio tu che tè la porti a spasso per delle ore negli angoli più remoti di questa casa che è grande quanto il nostro Duomo! E poi non solo bella ma intelligente anche e colta; e poi buona: le si vede negli occhi la sua bontà, la sua cara ingenuità innocente.”

Cavriaghi continuava ad estasiarsi per la bontà di Angelica, sotto lo sguardo divertito di Tancredi. “In tutto questo il veramente buono sei tu, Cavriaghi.” La frase scivolò inavvertita dall’ottimismo ambrosiano. Poi: “Senti” disse il contino

“fra Pochi giorni partiremo: non ti sembra che sarebbe ora che rossi presentato alla madre della baronessina?”

Era la prima volta che così, da una voce lombarda, Tancredi udiva chiamare con un titolo la sua bella. Per un attimo non capi di chi si parlava. Poi il principe in lui si ribellò: “Ma che baronessina, Cavriaghi! È una bella e cara figliola cui voglio bene, e basta!”

Che fosse proprio “basta” non era vero; però Tancredi parlava sincero; con l’abitudine atavica ai larghi possessi gli sembrava davvero che Gibildolce, Settesoli e i sacchetti di tela fossero stati suoi dai tempi di Carlo d’Angiò, da sempre.

“Mi dispiace, ma credo che la madre di Angelica non potrai vederla; parte domani per Sciacca a far la cura delle stufe; è molto ammalata, poverina.”

Schiacciò nel buttacenere quel che avanzava del Virginia. “Andiamo in salotto, abbiamo fatto gli orsi abbastanza.”

Uno di quei giorni Don Fabrizio aveva ricevuto una lettera del prefetto di Girgenti, redatta in stile di estrema cortesia, che gli annunziava l’arrivo a Donnafugata del cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, segretario della prefettura che avrebbe dovuto intrattenerlo di un argomento che stava molto a cuore al Governo. Don Fabrizio, sorpreso, spedì l’indomani il figlio Francesco Paolo alla stazione di posta per ricevere il missus dominicus e invitarlo a venire ad alloggiare a palazzo, atto di vera misericordia quanto di ospitalità consistente nel non abbandonare il corpo del nobiluomo piemontese alle mille belvette che lo avrebbero straziato nella locanda-spelonca di Zzu Menico.

La corriera giunse sul far della notte con la sua guardia armata a cassetta e con lo scarso carico di volti chiusi. Da essa discese anche Chevalley di Monterzuolo, riconoscibile subito dall’aspetto esterrefatto e dal sorrisetto 115

guardingo; egli si trovava da un mese in Sicilia, nella parte più strenuamente indigena dell’isola per di più, e vi era stato sbalzato dritto dritto dalla propria terricciuola del Monferrato. Di natura timida e congenitamente burocratica si trovava molto a disagio. Aveva avuto la testa imbottita da quei racconti briganteschi mediante i quali i Siciliani amavano saggiare la resistenza nervosa dei nuovi arrivati e da un mese individuava un sicario in ciascun usciere del proprio ufficio ed un pugnale in ogni tagliacarte di legno sul proprio scrittoio; inoltre, la cucina all’olio aveva da un mese posto in disordine le sue viscere.

Adesso se ne stava li, nel crepuscolo, con la sua valigetta di tela bigia e guatava l’aspetto privo di qualsiasi civetteria della strada in mezzo alla quale era stato scaricato; l’iscrizione “Corso Vittorio Emanuele” che con i suoi caratteri azzurri su fondo bianco ornava la casa in sfacelo che gli stava di fronte, non bastava a convincerlo che si trovasse in un posto che dopo tutto era la sua stessa nazione; e non osava rivolgersi ad alcuno dei contadini addossati alle case come cariatidi, sicuro di non esser compreso e timoroso di ricevere una gratuita coltellata nelle budella sue che gli erano care benché sconvolte.

Quando Francesco Paolo gli si avvicinò presentandosi strabuzzò gli occhi perché si credette spacciato ma l’aspetto composto e onesto del ragazzone biondo lo rassicurò alquanto e quando poi comprese che era invitato ad alloggiare a palazzo Salina, fu sorpreso e sollevato; il percorso al buio sino al palazzo fu allietato da continue schermaglie fra la cortesia piemontese e quella siciliana (le due più puntigliose d’Italia) a proposito della valigia che fini con l’essere portata, benché leggerissima, da ambedue i cavaliereschi contendenti.

Giunto a palazzo, i volti barbuti dei “campieri” che stazionavano armati nel primo cortile turbarono di nuovo l’anima di Chevalley di Monterzuolo, mentre poi la bonarietà distante dell’accoglienza del Principe insieme all’evidente fasto degli ambienti intravisti lo precipitarono in opposte cogitazioni. Rampollo di una di quelle famiglie della piccola nobiltà piemontese che viveva in dignitosa ristrettezza sulla propria terra, era la prima volta che si trovava ospite di una grande casa e questo raddoppiava la sua timidità; mentre gli aneddoti sanguinosi uditi raccontare a Girgenti, l’aspetto oltremodo protervo del paese nel quale era giunto, e gli “sgherri” (come pensava lui) accampati nel cortile gli incutevano spavento; in modo che scese a pranzo martoriato dai contrastanti timori di chi è capitato in un ambiente al di sopra delle proprie abitudini e da quelle dell’innocente caduto in un agguato brigantesco.

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A cena mangiò bene per la prima volta da quando aveva toccato le sponde sicule, e l’avvenenza delle ragazze, l’austerità di Padre Pirrone e le grandi maniere di Don Fabrizio lo convinsero che il palazzo di Donnafugata non era l’antro del bandito Capraro e che da esso sarebbe probabilmente uscito vivo; ciò che più lo consolò fu la presenza di Cavriaghi che, come apprese, abitava li da dieci giorni ed aveva l’aria di star benissimo ed anche di essere un grande amico di quel giovanottino Falconeri, amicizia questa fra un siciliano ed un lombardo che gli apparve miracolosa. Alla fine del pranzo si avvicinò a Don Fabrizio e lo pregò di voler concedergli un colloquio privato perché intendeva ripartire l’indomani mattina; ma il Principe gli spiaccicò una spalla con una manata e col più gattopardesco sorriso: “Niente affatto, caro cavaliere” gli disse “adesso Lei è a casa mia e la terrò in ostaggio sinché mi piacerà; domani non partirà e per esserne sicuro mi priverò del piacere di parlare con lei a quattr’occhi sino al pomeriggio.”

Questa frase che avrebbe terrorizzato l’ottimo cavaliere tre ore prima lo rallegrò invece adesso; Angelica quella sera non c’era e quindi si giocò a whist; in un tavolo insieme a Don Fabrizio, Tancredi e Padre Pirrone vinse due rubbers e guadagnò tre lire e trentacinque centesimi, dopo di che si ritirò in camera sua, apprezzò la freschezza delle lenzuola e si addormentò del sonno fiducioso del giusto.

La mattina dopo Tancredi e Cavriaghi lo condussero in giro per il giardino, gli fecero ammirare la quadreria e la collezione di arazzi; gli fecero anche fare un giretto in paese; sotto il sole color di miele di Novembre esso appariva meno sinistro della sera prima; si vide financo in giro qualche sorriso, e Chevalley di Monterzuolo cominciava a rassicurarsi anche nei riguardi della Sicilia rustica.

Questo fu notato da Tancredi che venne subito assalito dal singolare prurito isolano di raccontare ai forestieri storie raccapriccianti, purtroppo sempre autentiche. Si passava davanti a un divertente palazzo con la facciata adorna di maldestri bugnati. “Questa, caro Chevalley, è la casa del barone Mutolo; adesso è vuota e chiusa perché la famiglia vive a Girgenti da quando il figlio del barone, dieci anni fa, è stato sequestrato dai briganti.” Il piemontese cominciava a fremere. “Poverino! chissà quanto ha dovuto pagare per liberarlo!” “No, non ha pagato nulla; si trovavano già in difficoltà finanziarie, privi di denaro contante come tutti qui. Ma il ragazzo è stato restituito lo stesso; a rate, però.” “Come, principe, cosa intende dire?” “A rate, dico bene, a rate; pezzo per pezzo. Prima è arrivato l’indice della mano destra. Dopo una settimana il piede sinistro ed infine 117

in un bei paniere, sotto uno strato di fichi (si era in Agosto) la testa; aveva gli occhi sbarrati e del sangue rappreso all’angolo delle labbra. Io non l’ho visto, ero un bambino allora; ma mi hanno detto che lo spettacolo non era bello. Il paniere era stato lasciato su quel gradino lì, il secondo davanti la porta da una vecchia con uno scialle nero sulla testa: non la ha riconosciuta nessuno.” Gli occhi di Chevalley si irrigidirono nel disgusto; aveva già udito narrare il fatto ma adesso, vedere sotto questo bei sole, lo scalino sul quale era stato deposto il dono insolito era un’altra cosa. La sua anima di funzionario lo soccorse: “Che polizia inetta avevano quei Borboni. Fra poco quando verranno qui i nostri carabinieri, tutto questo cesserà.” “Senza dubbio, Chevalley, senza dubbio.”

Si passò poi davanti al Circolo dei Civili che all’ombra dei platani della piazza faceva la propria mostra quotidiana di sedie in ferro e di uomini in lutto. Ossequi, sorrisi. “Li guardi bene, Chevalley, s’imprima la scena nella memoria: un paio di volte all’anno uno di questi signori vien lasciato stecchito sulla sua poltroncina: una fucilata sparata nella luce incerta del tramonto; e nessuno capisce mai chi sia stato a sparare.” Chevalley provò il bisogno di appoggiarsi al braccio di Cavriaghi per sentire vicino a sé un po’ di sangue continentale.

Poco dopo, in cima a una stradetta ripida, attraverso i festoni multicolori delle mutande sciorinate, s’intravide una chiesuola ingenuamente barocca. “Quella è Santa Ninfa. Il parroco cinque anni fa è stato ucciso li dentro mentre celebrava la messa.” “Che orrore! una fucilata in chiesa!” “Ma che niellata, Chevalley! siamo troppo buoni cattolici per fare delle malcreanze simili. Hanno messo semplicemente del veleno nel vino della Comunione; è più discreto, più liturgico vorrei dire. Non si è mai saputo chi lo abbia fatto: il parroco era un’ottima Persona e non aveva nemici.”

Come un uomo che svegliatesi la notte vede uno spettro seduto ai piedi del letto sui propri calzini, si salva dal terrore sforzandosi di credere ad una burla degli amici buontemponi, così Chevalley si rifugiò nella credenza di esser preso in giro: “Molto divertente, principe, davvero spassoso! Lei dovrebbe scrivere dei romanzi, racconta così bene queste trottole!” Ma la voce gli tremava; Tancredi ne ebbe compassione e benché prima di rincasare passassero davanti a tre o quattro luoghi per lo meno altrettanto evocatori, si astenne dal fare il cronista e parlò di Bellini e di Verdi, le sempiterne pomate curative delle piaghe nazionali.

Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo aspettava nello studio. Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici 118

imbalsamate, di quelle grigie a zampetto rosse stimate rare, trofei di caccie passate; una parete era nobilitata da una libreria alta e stretta colma di annate di riviste matematiche; al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature di famiglia: il padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto un Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di S. Gennaro; la principessa Carolina, già da vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la principessa di Falconeri seduta su una panca in un giardino, con alla destra i la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che le reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se la era cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi più sotto, Paolo, il primogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di salire su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell’uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compiaciuto col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo.

Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato:

“Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno di alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali son state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all’esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti.” Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena 119

intravedere lo sguardo. Immobile la zampacela dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.

Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa, Chevalley non si lasciò smontare: “Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto dover informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe di Suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale le autorità sperano molto è stato l’oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l’onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca.”

Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l’acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi ed abituati a esserlo. “Adesso questo qui s’immagina di venire a farmi un grande onore” pensava “a me, che sono quel che sono, fra l’altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev’essere press’a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi da il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo più grande di Giulio Làscari quando m’invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi da la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che si vede fin troppo.” Le idee sue in fatto di Senato erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato Romano, al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone:

“Senatore! boni viri, senatus autem mala bestia” Adesso vi era anche il Senato dell’Impero di Parigi, ma non era che una assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori!

Robetta per un Salina. Volle sincerarsi: “Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po’ che cosa è veramente essere senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?”

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Il Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s’inalberò: “Ma, Principe, il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese, prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire.”

Chevalley avrebbe forse continuato a lungo su questo tono, se Bendicò non avesse da dietro la porta chiesto alla “saggezza del Sovrano” di essere ammesso; Don Fabrizio fece l’atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestra e dormi.

“Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l’impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono.” “Ma allora, principe, perché non accettare?” “Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto

‘adesione’ non ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di 121

magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.”

Adesso Chevalley era turbato. “Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato.”

“L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s’impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto.”

Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l’indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio.

Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto.”

Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: “Ma non le sembra di esagerare 122

un po’, principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni.”

Il Principe si seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio li dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.

L’inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.

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