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Padre Pirrone bloccò il turbinare dei propri pollici, si alzò, strinse la mano al Principe. “Eccellenza, invoco la protezione divina su queste nozze; la vostra gioia è divenuta la mia.” A don Calogero porse le punte delle dita senza parlare. Poi con 88

una nocca percosse un barometro appeso al muro; calava; brutto tempo in vista.

Si risiedette, apri il breviario.

“Don Calogero” diceva il Principe “l’amore di questi due giovani è la base di tutto, l’unico fondamento sul quale può sorgere la loro felicità futura. Questo lo sappiamo; punto e basta. Ma noi, uomini anziani, siamo costretti a preoccuparci

“i altre cose. È inutile dirvi quanto sia illustre la famiglia Falconeri: venuta in Sicilia con Carlo d’Angiò, essa ha trovato modo di continuare a fiorire sotto gli Aragonesi, gli Spagnoli, i re Borboni (se mi è permesso nominarli dinanzi a voi) e sono sicuro che prospererà anche sotto la nuova dinastia continentale. (Dio guardi).” (Non era mai possibile conoscere quando Don Fabrizio ironizzasse o quando si sbagliasse); “furono Pari del Regno, Grandi di Spagna, Cavalieri di Santiago, e quando salta loro il ticchio di essere cavalieri di Malta non hanno che da alzare un dito, e via Condotti sforna loro i diplomi senza fiatare, come se fossero maritozzi, almeno fino ad oggi.” (Questa insinuazione perfida fu del tutto sprecata, che don Calogero ignorava nel modo più completo gli statuti del Sovrano Ordine Gerosolimitano di San Giovanni.) “Sono sicuro che vostra figlia con la sua rara bellezza ornerà ancor di più il vecchio tronco dei Falconeri, e con la sua virtù saprà emulare quella delle sante Principesse, l’ultima delle quali, mia sorella buon’anima, certo benedirà dal cielo gli sposi.” E Don Fabrizio si commosse di nuovo ricordando la sua cara Giulia la cui vita spregiata era stata un perpetuo sacrificio dinanzi alle stravaganze frenetiche del padre di Tancredi.

“In quanto al ragazzo, lo conoscete; e, se non lo conosceste, ci son qua io che potrei garantirvelo in tutto e per tutto. Tonnellate di bontà ci sono in lui, e non sono io solo che lo dico, non è vero, padre Pirrone?”

L’ottimo Gesuita, tirato fuori dalla propria lettura, venne a trovarsi ad un tratto dinanzi a un dilemma penoso. Era stato confessore di Tancredi, e di peccatucci suoi ne conosceva più d’uno: nessuno veramente grave, s’intende, però tali ad ogni modo da detrarre parecchi quintali alla massiccia bontà della quale si parlava; di natura poi, tutti, da garantire una ferrea infedeltà coniugale. Questo, va da sé, non poteva esser detto tanto per ragioni sacramentali come per convenienze mondane; d’altra parte egli voleva bene al ragazzo e benché disapprovasse quel matrimonio dal fondo del proprio cuore, non avrebbe mai detto una parola che avesse potuto, non si dice neppure impedire ma offuscarne la scorrevolezza. Trovò rifugio nella Prudenza fra le virtù cardinali la più duttile e quella di più agevole maneggio. “Il fondo di bontà del nostro caro Tancredi è 89

grande, don Calogero, ed egli sorretto dalla Grazia divina e dalle virtù terrene della signorina Angelica, potrà diventare un giorno un buon sposo cristiano.” La profezia arrischiata ma prudentemente condizionata passò liscia.

“Ma, don Calogero,” proseguiva il Principe masticando le ultime cartilagini del rospo “se è inutile parlarvi dell’antichità di casa Falconeri, è anche, disgraziatamente, inutile, perché lo sapete di già, dirvi che le attuali condizioni economiche di mio nipote non sono eguali alla grandezza del suo nome; il padre di Tancredi, mio cognato Ferdinando, non era quel che si chiama un padre preveggente; le sue magnificenze di gran signore, aiutate dalla leggerezza dei suoi amministratori, hanno gravemente scosso il patrimonio del mio caro nipote e pupillo; i grandi feudi intorno a Mazzara, la pistacchiera di Ravanusa, le piantagioni di gelsi a Oliveri, il palazzo di Palermo, tutto, tutto è andato via; voi lo sapete, don Calogero.” Don Calogero infatti lo sapeva: era stata la più grande migrazione di rondini della quale si avesse ricordo, e la memoria di essa incuteva ancora terrore, ma non prudenza, a tutta la nobiltà siciliana, mentre era fonte di delizia appunto per tutti i Sedàra. “Durante il periodo della mia tutela sono riuscito a salvare la sola villa, quella vicino alla mia, mediante molti cavilli legali ed anche in grazia di qualche sacrificio che, del resto, ho compiuto con gioia tanto in memoria della mia santa sorella Giulia come per affetto per quel caro ragazzo.

È una bella villa: la scala è disegnata da Marvuglia, i salotti erano stati decorati dal Serenano; ma, per ora, l’ambiente in miglior stato può appena servire da stalla per le capre.”

Gli ultimi ossicini del rospo erano stati più disgustosi del previsto; ma, insomma, erano andati giù anch’essi. Adesso bisognava sciacquarsi la bocca con qualche frase piacevole, del resto sincera. “Ma, don Calogero, il risultato di tutti questi guai, di tutti questi crepacuori, è stato Tancredi; noialtri queste cose le sappiamo: è forse impossibile ottenere la distinzione, la delicatezza, il fascino di un ragazzo come lui senza che i suoi maggiori abbiano dilapidato una mezza dozzina di grossi patrimoni; almeno in Sicilia è così; una specie di legge di natura, come quelle che regolano i terremoti e le siccità.”

Tacque perché entrava un cameriere che recava su di un vassoio due lumi accesi; mentre essi venivano collocati al loro posto Don Fabrizio lasciò regnare nello studio un silenzio carico di compiaciuto accoramento. Dopo: “Tancredi non è un giovane qualsiasi, don Calogero;” prosegui, “egli non è soltanto signorile ed elegante; ha appreso poco, ma conosce tutto quello che si deve conoscere nel suo 90

ambiente: gli uomini, le donne, le circostanze, il colore del tempo; è ambizioso ed ha ragione di esserlo, andrà lontano; e la vostra Angelica, don Calogero, sarà fortunata se vorrà salire la strada insieme a lui.

E poi quando si è con Tancredi ci si può forse irritare qualche volta, ma non ci si annoia mai; e questo è molto.” Sarebbe esagerato dire che il sindaco apprezzasse le sfumature mondane di questa parte della conversazione del Principe; essa all’ingrosso non fece che confermarlo nella propria sommaria convinzione dell’astuzia e dell’opportunismo di Tancredi, e di un uomo astuto e tempista egli aveva bisogno a casa, e di null’altro. Si sentiva, si credeva uguale a chiunque; gli rincresceva financo di notare nella figlia un ceno sentimento amoroso per il giovanotto.

“Principe, queste cose le sapevo, ed altre ancora; e non me ne importa niente.”

Si rivesti di sentimentalità. “L’amore, Principe, l’amore è tutto, ed io lo posso sapere.” E forse era sincero il pover’uomo se si ammetteva la probabile sua definizione dell’amore. “Ma io sono un uomo di mondo e voglio anch’io porre le mie carte in tavola. Sarebbe inutile parlare della dote di mia figlia; essa è il sangue del mio cuore, il fegato fra le mie viscere; non ho altra persona cui lasciare quello che posseggo, e quello che è mio è suo. Ma è giusto che i giovani conoscano quello su cui possono contare subito: nel contratto matrimoniale assegnerò a mia figlia il feudo di Settesoli, di salme 644, cioè ettari 1680, come vogliono chiamarli oggi, tutto a frumento; terre di prima qualità ventilate e fresche, e 180 salme di vigneto e uliveto a Gibildolce; e il giorno del matrimonio consegnerò allo sposo venti sacchetti di tela con mille ‘onze’ ognuno. Io resto con una canna nelle mani” aggiunse, convinto e lieto di non essere creduto “ma una figlia è una figlia. E con questo si possono rifare tutte le scale di Mannaggia e tutti i soffitti di Sorcionero che esistono al mondo. Angelica dev’essere alloggiata bene.”

La volgarità ignorante gli sprizzava da ogni poro; malgrado ciò i suoi due ascoltatori furono sbalorditi: Don Fabrizio ebbe necessità di tutto il suo potere di controllarsi per nascondere la sorpresa. Il colpo di Tancredi era più sbardellato di quanto potesse supporsi. Una sensazione di disgusto stava per assalirlo, ma la bellezza di Angelica, la cinicità dello sposo riuscivano ancora a velare di poesia la brutalità del contratto. Padre Pirrone, lui, fece schioccare la lingua sul palato; poi, infastidito per aver rivelato il proprio stupore, si provò a trovare una rima 91

all’improvvido suono facendo scricchiolare la sedia e le scarpe, sfogliando con fragore il breviario; non riuscì a nulla e l’impressione rimase.

Per fortuna una improntitudine di don Calogero, la sola della conversazione, tirò tutti dall’imbarazzo: “Principe” disse “so che quello che sto per dire non farà effetto su di voi che discendete da Titone imperatore e Berenice regina, ma anche i Sedàra sono nobili; fino a me essi sono stati una razza sfortunata seppellita in provincia e senza lustro, ma io ci ho le carte in regola nel cassetto, e un giorno si saprà che vostro nipote ha sposato la baronessina Sedàra del Biscotto; titolo concesso da Sua Maestà Ferdinando IV sulle secrezie del porto di Mazzara. Debbo fare le pratiche: mi manca solo un attacco.”

Quella degli “attacchi” mancanti, delle secrezie, delle quasi omonimie era, cento anni fa, un elemento importante della vita di molti siciliani, e forniva alternate esaltazioni e depressioni a migliaia di persone, buone o meno che fossero; ma questo è argomento troppo importante per essere trattato di sfuggita e qui ci contenteremo di dire che l’uscita araldica di don Calogero recò al Principe l’impareggiabile godimento artistico di vedere un tipo realizzarsi in tutti i suoi particolari e che il proprio riso represso gli addolcì la bocca, fino alla nausea.

La conversazione in seguito si disperse in mille rivoli inutili: Don Fabrizio si ricordò di Tumeo rinchiuso all’oscuro nella stanza dei fucili, e per l’ennesima volta in vita deplorò la durata delle visite paesane e finì col rinchiudersi in un silenzio risentito; don Calogero capì, promise di ritornare l’indomani mattina per recare il non dubbio consenso di Angelica e si congedò. Fu accompagnato per due salotti, fu riabbracciato e scese le scale mentre il Principe torreggiando dall’alto, guardava rimpicciolirsi quel mucchietto di astuzia, di abiti mal tagliati, di oro e d’ignoranza che adesso entrava quasi a far parte della famiglia.

Tenendo in mano una candela andò poi a liberare Tumeo che se ne stava rassegnato al buio fumando la propria pipa. “Mi dispiace don Ciccio, ma, capirete, lo dovevo fare.” “Capisco, Eccellenza, capisco. Tutto è andato bene, almeno?”

“Benissimo, non si poteva meglio.” Tumeo biascicò delle congratulazioni, rimise il laccio al collare di Teresina che dormiva stremata dalla caccia, raccattò il carniere. “Prendete anche le mie beccacce, ve le siete meritate. Arrivederci, caro don Ciccio, fatevi vedere presto. E scusatemi per ogni cosa.” Una potente manacciata sulle spalle servi da segno di riconciliazione e da richiamo di potenza; l’ultimo fedele di casa Salina se ne andò alle sue povere stanze.

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Quando il Principe ritornò nel suo studio trovò che Padre Pirrone era sgattaiolato via per evitare discussioni; e si diresse verso la camera della moglie per raccontarle i fatti. Il rumore dei suoi passi vigorosi e rapidi lo preannunciava a dieci metri di distanza. Traversò la stanza di soggiorno delle ragazze: Carolina e Caterina arrotolavano un gomitolo di lana ed al suo passaggio si alzarono sorridenti; mademoiselle Dombreuil si tolse in fretta gli occhiali e rispose compunta al suo saluto; Concetta aveva le spalle voltate; ricamava al tombolo e, poiché non udì passare il padre, non si volse neppure.

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PARTE QUARTA

Novembre 1860

Dai più frequenti contatti derivati dall’accordo nuziale cominciò a nascere in Don Fabrizio una curiosa ammirazione per i meriti di Sedàra. La consuetudine fini con l’abituarlo alle guance mal rasate, all’accento plebeo, agli abiti bislacchi ed al persistente olezzo di sudore, ed egli fu libero di avvedersi della rara intelligenza dell’uomo; molti problemi che apparivano insolubili al Principe venivano risolti in quattro e quattro otto da don Calogero; liberato come questi era dalle cento pastoie che l’onestà, la decenza e magari la buona educazione impongono alle azioni di molti altri uomini, egli procedeva nella foresta della vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti.

Allevato, invece, in valletto amene percorse dagli zeffiri cortesi dei “Per piacere” “ti sarei grato” “mi faresti un favore” “sei stato molto gentile,” il Principe adesso, quando chiacchierava con don Calogero si trovava allo scoperto su una landa spazzata da venti asciutti e, pur continuando a preferire in cuor suo gli anfratti dei monti, non poteva non ammirare la toga di queste correnti d’aria che dai lecci e dai cedri di Donnafugata traeva arpeggi mai uditi prima.

Pian piano, quasi senza avvedersene, Don Fabrizio esponeva a don Calogero i propri affari che erano numerosi, complessi e da lui stesso mal conosciuti; questo non già per difetto di penetrazione ma per una sorta di sprezzante indifferenza al riguardo di questo genere di cose, reputate infime, e causata in fondo dalla indolenza e dalla sempre sperimentata facilità con la quale era uscito dai mali passi mediante la vendita di qualche ventina fra le migliaia dei propri ettari.

Gli atti che don Calogero consigliava dopo aver ascoltato dal Principe e riordinato da sé il racconto, erano quanto mai opportuni e di effetto immediato, ma il risultato finale dei consigli concepiti con crudele efficienza ed applicati dal bonario Don Fabrizio con timorata mollezza, fu che con l’andar degli anni casa Salina si acquistò fama di esosità verso i propri dipendenti, fama in realtà quanto mai immeritata ma che distrusse il prestigio di essa a Donnafugata ed a 94

Querceta, senza che peraltro il franare del patrimonio venisse in alcun modo arginato.

Non sarebbe equo tacere che una frequentazione più assidua del Principe aveva avuto un certo effetto anche su Sedàra. Sino a quel momento egli aveva incontrato degli aristocratici soltanto in riunioni di affari (cioè di compravendite) o in seguito ad eccezionalissimi e lunghissimamente meditati inviti a feste, due sorta di eventualità durante le quali questi singolari esemplari sociali non mostrano il proprio aspetto migliore. In occasione di questi incontri egli si era formato la convinzione che l’aristocrazia consistesse unicamente di uomini-pecore, che esistevano soltanto per abbandonare la lana dei loro beni alle sue forbici tosatrici ed il nome, illuminato da un inspiegabile prestigio, a sua figlia.

Ma già con la sua conoscenza del Tancredi dell’epoca postgaribaldina si era trovato di fronte ad un campione inatteso di giovane nobile, arido quanto lui, capace di barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanze altrui, pur sapendo rivestire queste azioni “sedaresche” di una grazia e di un fascino che egli sentiva di non possedere, che subiva senza rendersene conto e senza in alcun modo poter discernerne le origini. Quando, poi, ebbe imparato a conoscere meglio Don Fabrizio ritrovò sì in lui la mollezza e l’incapacità a difendersi che erano le caratteristiche del suo pre-formato nobile-pecora, ma in più una forza di attrazione differente in tono ma uguale in intensità a quella del giovane Falconeri; inoltre ancora una certa energia tendente verso l’astrazione, una disposizione a cercare la forma di vita in ciò che da lui stesso uscisse e non in ciò che poteva strappare agli altri; da questa energia astrattiva egli rimase fortemente colpito benché gli si presentasse grezza e non riducibile in parole come qui si è tentato di fare; si avvide però che buona parte di questo fascino scaturiva dalle buone maniere e si rese conto di quanto un uomo beneducato sia piacevole, perché in fondo non è altro che qualcheduno che elimina le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo (formula nella quale l’efficacia dell’aggettivo gli fece tollerare l’inutilità del sostantivo). Lentamente don Calogero capiva che un pasto in comune non deve di necessità essere un uragano di rumori masticatori e di macchie d’unto; che una conversazione può benissimo non rassomigliare a una lite fra cani; che dar la precedenza a una donna è segno di forza e non, come aveva creduto, di debolezza; che da un interlocutore si può ottenere di più se gli si dice “non mi sono spiegato bene” anziché “non hai capito 95

un corno,” e che adoperando simili accorgimenti, cibi, donne, argomenti e interlocutori vengono a guadagnarci a tutto profitto anche di chi li ha trattati bene.

Sarebbe ardito affermare che don Calogero approfittasse subito di quanto avevaappreso; egli seppe da allora in poi radersi un po’ meglio e spaventarsi meno dellaquantità di sapone adoperato nel bucato, e null’altro; ma fu da quel momento che siiniziò, per lui ed i suoi, quel costante raffinarsi di una classe che nel corso di tregenerazioni trasforma efficienti cafoni in gentiluomini indifesi.

La prima visita di Angelica alla famiglia Salina da fidanzata si era svolta regolata da una regia impeccabile. Il contegno della ragazza era stato perfetto a tal punto che sembrava suggerito gesto per gesto, parola per parola, da Tancredi; ma le comunicazioni lente del tempo rendevano insostenibile questa eventualità e si fu costretti a ricorrere a una ipotesi, a quella di suggerimenti anteriori allo stesso fidanzamento Sciale; ipotesi arrischiata anche per chi meglio credesse di conoscere la preveggenza del Principino, ma non del tutto assurda. Angelica giunse alle sei di sera in bianco e rosa; le soffici trecce nere ombreggiate da una grande paglia ancora estiva sulla quale grappoli di uva artificiale e spighe dorate evocavano discrete i vigneti di Gibildolce e i granai di Settesoli. In sala d’ingresso piantò li il padre; nello sventolio dell’ampia gonna sali leggera i non pochi scalini della scala interna e si gettò nelle braccia di Don Fabrizio; gli diede, sulle basette, due bei bacioni che furono ricambiati con genuino affetto; il Principe si attardò un attimo forse più del necessario a fiutare l’aroma di gardenia delle guance adolescenti. Dopo di che Angelica arrossi, retrocedette di mezzo passo: “Sono tanto, tanto felice...” Si avvicinò di nuovo e, ritta sulla punta delle scarpine gli sospirò all’orecchio: “Zione!”. Felicissimo gag, di regìa paragonabile in efficacia addirittura alla carrozzella da bambini di Eisenstein, e che, esplicito e segreto com’era, mandò in visibilio il cuore semplice del Principe e lo aggiogò definitivamente alla bella figliola. Don Calogero intanto saliva le scale e diceva quanto dolente fosse sua moglie di non poter essere li, ma ieri sera aveva inciampato in casa e si era prodotta una distorsione al piede sinistro, assai dolorosa. “Ha il collo del piede come una melanzana, Principe.” Don Fabrizio, esilarato dalla carezza verbale e che, d’altra parte, le rivelazioni di Tumeo avevano rassicurato sulla innocuità della propria cortesia, si procurò il piacere di proporre di andare lui stesso subito dalla signora Sedàra, proposta che sbigottì don Calogero che venne costretto per respingerla ad appioppare un secondo malanno 96

alla consorte, una emicrania questa volta, che costringeva la poveretta a stare nell’oscurità.

Intanto il Principe dava il braccio ad Angelica; si traversarono parecchi saloni quasi all’oscuro, vagamente rischiarati da lumini a olio che permettevano a malapena di trovare la strada; in fondo alla prospettiva delle sale splendeva invece il “salone di Leopoldo,” dove stava il resto della famiglia e questo procedere attraverso il buio deserto verso il chiaro centro dell’intimità aveva il ritmo di una iniziazione massonica. La famiglia si affollava sulla porta. La Principessa aveva ritirato le proprie riserve dinanzi all’ira maritale che le aveva, non è sufficiente dire respinte, ma addirittura fulminate nel nulla; baciò ripetutamente la bella futura nipote e la strinse a sé tanto forte che alla giovinetta rimase impresso sulla pelle il contorno della famosa collana di rubini dei Salina che Maria Stella aveva tenuto a portare, benché fosse giorno, in segno di festa grande; Francesco Paolo, il sedicenne, fu lieto di avere l’opportunità eccezionale di baciare anch’egli Angelica sotto lo sguardo impotentemente geloso del padre; Concetta fu affettuosa in modo particolare; la sua gioia era così intensa da farle salire le lagrime agli occhi; le altre sorelle si stringevano attorno a lei rumorosamente liete appunto perché non commosse; Padre Pirrone, poi, che santamente non era insensibile al fascino muliebre nel quale si compiaceva di ravvisare una prova irrefutabile della Bontà Divina, senti fondere tutte le proprie obiezioni dinanzi al tepore della grazia (col g minuscolo). E le mormorò: “Veni, sponsa de Libano”; dovette poi un po’

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