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“Della signorina, Eccellenza, non c’è niente da dire: essa parla da sé: i suoi occhi, la sua pelle, la sua magnificenza sono esplicite e si fanno capire da tutti.

Credo che il linguaggio che parlano sia stato ben compreso da Don Tancredi; o sono troppo maligno a pensarlo? In lei c’è tutta la bellezza della madre senza l’odor di beccume del nonno. E intelligente poi! Avete visto come questi pochi anni a Firenze sono bastati a trasformarla? È diventata una vera signora” continuava don Ciccio che era insensibile alle sfumature “una signora completa. Quando è ritornata dal collegio mi ha fatto venire a casa sua e mi ha suonato la mia vecchia mazurka: Suonava male ma vederla era una delizia, con quelle trecce nere, quegli occhi, quelle gambe, quel petto... Uuh! altro che odore di beccume! le sue lenzuola devono avere il profumo del paradiso!”

Il Principe si seccò: tanto geloso è l’orgoglio di classe, anche nel momento in cui traligna, che quelle lodi orgiastiche alla procacia della futura nipote lo offesero; come ardiva don Ciccio esprimersi con questo lascivo lirismo nei riguardi della 84

futura Principessa di Falconeri? Era vero però che il pover’uomo non ne sapeva niente; bisognava raccontargli tutto; del resto fra qualche ora la notizia sarebbe stata pubblica. Si decise subito e rivolse a Tumeo un sorriso Gattopardesco ma amichevole: “Calmatevi, caro don Ciccio, calmatevi; a casa ho una lettera di mio nipote che mi incarica di fare una domanda di matrimonio per la signorina Angelica; da ora in poi ne parlerete col vostro consueto ossequio. Siete il primo a conoscere la notizia, ma per questo vantaggio dovrete pagare: ritornato a palazzo sarete rinchiuso a chiave insieme a Teresina nella stanza dei fucili; avrete il tempo di ripulirne e oliarne parecchi e sarete posto in libertà soltanto dopo la visita di don Calogero; non voglio che niente trapeli prima.”

Sorpresi così alla sprovvista, le cento precauzioni, i cento snobismi di don Ciccio crollarono di botto come un gruppo di birilli centrati in pieno. Sopravvisse solo un sentimento antichissimo.

“Questa, Eccellenza, è una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così, è una resa senza condizioni. È la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!”

Detto questo chinò il capo e desiderò, angosciato, che la terra si aprisse sotto i suoi piedi. Il Principe era diventato paonazzo, financo le orecchie, financo i globi degli occhi sembravano sangue. Strinse i magli dei suoi pugni e fece un passo verso don Ciccio. Ma era un uomo di scienza, abituato dopo tutto a vedere il prò e contro delle cose; inoltre sotto l’aspetto leonino era uno scettico. Aveva di già subito tanto oggi: il risultato del Plebiscito, il soprannome del nonno di Angelica, le “lupare”! E Tumeo aveva ragione, in lui parlava la tradizione schietta. Però era uno stupido: questo matrimonio non era la fine di niente ma il principio di tutto; era nell’ambito di secolari consuetudini.

I pugni si riaprirono, i segni delle unghia rimasero impressi nei palmi.

“Andiamo a casa, don Ciccio; voi certe cose non le potete capire. D’accordo come prima, siamo intesi?”

E mentre discendevano verso la strada sarebbe stato difficile dire quale dei due fosse don Chisciotte e quale Sancio.

Quando alle quattro e mezza precise gli venne annunziata la venuta puntualissima di don Calogero, il Principe non aveva ancora finita la propria toletta; fece pregare il signor Sindaco di aspettare un momento nello studio e, continuò, placido a farsi bello. Si unse i capelli con il lemo-liscio, il Lime-Juice di 85

Atkinson, densa lozione biancastra che gli arrivava a cassette da Londra e che subiva, nel nome, la medesima deformazione etnica delle canzoni; rifiutò la redingote nera e la fece sostituire con una di tenuissima tinta lillà che gli sembrava più adatta all’occasione presunta festosa, indugiò ancora un poco per strapparsi dal mento, con una pinzetta, uno sfacciato peluzzo biondo che era riuscito a farla franca la mattina nell’affrettata rasatura; fece chiamare Padre Pirrone; prima di uscire prese su un tavolo un estratto delle Blatter der Himmeisforschung e con il fascicoletto arrotolato si fece il segno della croce, gesto di devozione che ha in Sicilia un significato non religioso più frequente di quanto s’immagini.

Traversando le due stanze che precedevano lo studio si illuse di essere un Gattopardo imponente dal pelo liscio e profumato che si preparasse a sbranare uno sciacalletto timoroso; ma per una di quelle involontarie associazioni di idee che sono la croce delle nature come la sua, davanti alla memoria gli passò l’immagine di uno di quei quadri storici francesi nei quali marescialli e generali austriaci, carichi di pennacchi e gale, sfilano, arrendendosi dinanzi a un ironico Napoleone; loro sono più eleganti, è indubbio, ma il vincitore è l’omiciattolo in cappottino grigio; e così, oltraggiato da questi inopportuni ricordi di Mantova e di Ulma, fu invece un Gattopardo irritato a entrare nello studio.

Don Calogero se ne stava li all’impiedi, piccolissimo, minuto e imperfettamente rasato; sarebbe davvero sembrato uno sciacalletto non fosse stato per i suoi occhietti sprizzanti intelligenza; ma poiché questo ingegno aveva uno scopo materiale opposto a quello astratto cui credeva tendere quello del Principe, esso venne considerato come segno di malignità. Sprovvisto del senso di adattamento dell’abito alle circostanze che nel Principe era innato, il sindaco aveva creduto far bene vestendosi quasi in gramaglie; egli era nero quasi quanto Padre Pirrone; ma, mentre questi si sedette in un cantuccio assumendo l’aria marmoreamente astratta dei sacerdoti che non vogliono pensare sulle decisioni altrui, il volto di lui esprimeva un sentimento di avida attesa quasi penoso da guardare. S’iniziarono subito le scaramucce di parole insignificanti che precedono le grandi battaglie verbali. Ma fu don Calogero a disegnare il grande attacco: “Eccellenza” chiese “ha ricevuto buone notizie da Don Tancredi?” Nei piccoli paesi allora il sindaco aveva modo di controllare, inofficiosamente, la posta, e l’inconsueta eleganza della lettera di Tancredi lo aveva forse posto in guardia. Il Principe quando questa idea gli passò per la testa, cominciò ad irritarsi.

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“No, don Calogero, no. Mio nipote è diventato pazzo...”

Ma esiste una Dea protettrice dei principi. Essa si chiama Buone Creanze, e spesso interviene a salvare i Gattopardi dai mali passi. Però gli si deve pagare un forte tributo. Come Pallade Athena interviene a frenare le intemperanze di Odissee così Buone Creanze si manifestò a Don Fabrizio per fermarlo sull’orlo dell’abisso; ma egli dovette pagare la salvezza divenendo esplicito una volta tanto in vita sua. Con perfetta naturalezza, Senza un attimo di sosta conchiuse la frase:

“pazzo di amore per vostra figlia, don Calogero; e me lo ha scritto ieri.” Il sindaco conservò una sorprendente equanimità; sorrise e si diede a scrutare il nastro del proprio cappello; Padre Pirrone aveva gli occhi rivolti al soffitto come se fosse un capomastro incaricato di saggiarne la solidità. Don Fabrizio rimase male: quelle taciturnità congiunte gli sottraevano anche la minima soddisfazione di aver stupefatto gli ascoltatori. Fu quindi con sollievo che si accorse che don Calogero stava per parlare.

“Lo sapevo, Eccellenza, lo sapevo. Sono stati visti baciarsi Martedì 25

Settembre, la vigilia della partenza di Don Tancredi; nel vostro giardino, vicino alla fontana. Le siepi di alloro non sempre sono fitte come si crede. Per un mese ho atteso un passo di vostro nipote, e adesso pensavo già di venire a chiedere a Vostra Eccellenza quali fossero le intenzioni di lui.”

Vespe numerose e pungenti assalirono Don Fabrizio. Anzi tutto, come si conviene ad ogni uomo non ancora decrepito, quella della gelosia carnale: Tancredi aveva assaporato quel gusto di fragole che a lui sarebbe rimasto sempre ignoto. Dopo, un senso di umiliazione sociale, quello di ritrovarsi ad essere l’accusato invece che il messaggero di buone nuove. Terzo un dispetto personale, quello di chi si sia illuso di controllare tutti e che invece trova che molte cose si svolgono senza che lui lo sappia.

“Don Calogero, non cambiarne le carte in tavola. Ricordatevi che sono stato io a pregarvi di venire qui. Volevo comunicarvi una lettera di mio nipote che è arrivata ieri. In essa si dichiara la passione sua per la signorina vostra figlia, passione che io...” (qui il Principe titubò un poco perché le bugie sono talvolta difficili da dire davanti a degli occhi a succhiello come quelli del sindaco) “della quale io ignoravo tutta l’intensità; ed a conclusione di essa egli mi ha incaricato di chiedere a voi la mano della signorina Angelica.”

Don Calogero continuava a rimanere impassibile; Padre Pirrone da perito edile si era trasformato in santone mussulmano e, incrociate quattro dita della sua 87

destra con quattro della, sinistra, faceva roteare i pollici l’uno attorno all’altro, invertendone e mutandone la direzione con sfoggio di fantasia coreografica. Il silenzio durò a lungo, il Principe si spazientì: “Adesso, don Calogero, sono io che aspetto che mi dichiariate le vostre intenzioni.”

Il sindaco che aveva tenuto gli occhi rivolti verso la frangia arancione della poltrona del Principe, se li coprì un istante con la destra, poi li rialzò; adesso apparivano candidi, colmi di stupefatta sorpresa, come se davvero se li fosse cambiati in, quell’atto.

“Scusatemi, Principe.” (Alla fulminea omissione dell’“Eccellenza” don Fabrizio capi che tutto era felicemente consumato.) “Ma la bella sorpresa mi aveva tolto la parola. Io però sono un padre moderno e non potrò darvi una risposta definitiva se non dopo aver interrogato quell’angelo che è la consolazione della nostra casa.

I diritti sacri di un padre, però, so anche esercitarli; io conosco tutto ciò che avviene nel cuore e nella mente di Angelica, e credo poter dire che l’affetto di Don Tancredi, che tanto ci onora tutti, è sinceramente ricambiato.”

Don Fabrizio fu sopraffatto da sincera commozione: il rospo era stato ingoiato, la testa e gl’intestini maciullati scende vano giù per la sua gola: restavano ancora da masticare le zampe ma era roba di poco conto in confronto del resto; il più era fatto. Assaporato questo senso di liberazione, cominciò in lui a farsi strada l’affetto per Tancredi; si raffigurò gli stretti occhi azzurri che avrebbero sfavillato leggendo la risposta festosa; immaginò, ricordò per dir meglio, i primi mesi di un matrimonio di amore durante i quali le frenesie, le acrobazie dei sensi sono smaltate e sorrette da tutte le gerarchie angeliche, benevole benché sorprese.

Ancor più in là intravide la vita sicura, la possibilità di sviluppo dei talenti di Tancredi, cui, senza questo, la mancanza di quattrini avrebbe tarpato le ali.

Il nobiluomo si alzò, fece un passo verso don Calogero attonito, lo sollevò dalla poltrona, se lo strinse al petto; le gambe corte del Sindaco rimasero sospese in aria. In quella stanza di remota provincia siciliana venne a raffigurarsi una stampa giapponese nella quale un moscone peloso pendesse i da un enorme iris violaceo. Quando don Calogero ritoccò il pavimento: “Debbo proprio regalargli un paio di rasoi inglesi” pensò Don Fabrizio “così non può andare avanti.”

Padre Pirrone bloccò il turbinare dei propri pollici, si alzò, strinse la mano al Principe. “Eccellenza, invoco la protezione divina su queste nozze; la vostra gioia è divenuta la mia.” A don Calogero porse le punte delle dita senza parlare. Poi con 88

una nocca percosse un barometro appeso al muro; calava; brutto tempo in vista.

Si risiedette, apri il breviario.

“Don Calogero” diceva il Principe “l’amore di questi due giovani è la base di tutto, l’unico fondamento sul quale può sorgere la loro felicità futura. Questo lo sappiamo; punto e basta. Ma noi, uomini anziani, siamo costretti a preoccuparci

“i altre cose. È inutile dirvi quanto sia illustre la famiglia Falconeri: venuta in Sicilia con Carlo d’Angiò, essa ha trovato modo di continuare a fiorire sotto gli Aragonesi, gli Spagnoli, i re Borboni (se mi è permesso nominarli dinanzi a voi) e sono sicuro che prospererà anche sotto la nuova dinastia continentale. (Dio guardi).” (Non era mai possibile conoscere quando Don Fabrizio ironizzasse o quando si sbagliasse); “furono Pari del Regno, Grandi di Spagna, Cavalieri di Santiago, e quando salta loro il ticchio di essere cavalieri di Malta non hanno che da alzare un dito, e via Condotti sforna loro i diplomi senza fiatare, come se fossero maritozzi, almeno fino ad oggi.” (Questa insinuazione perfida fu del tutto sprecata, che don Calogero ignorava nel modo più completo gli statuti del Sovrano Ordine Gerosolimitano di San Giovanni.) “Sono sicuro che vostra figlia con la sua rara bellezza ornerà ancor di più il vecchio tronco dei Falconeri, e con la sua virtù saprà emulare quella delle sante Principesse, l’ultima delle quali, mia sorella buon’anima, certo benedirà dal cielo gli sposi.” E Don Fabrizio si commosse di nuovo ricordando la sua cara Giulia la cui vita spregiata era stata un perpetuo sacrificio dinanzi alle stravaganze frenetiche del padre di Tancredi.

“In quanto al ragazzo, lo conoscete; e, se non lo conosceste, ci son qua io che potrei garantirvelo in tutto e per tutto. Tonnellate di bontà ci sono in lui, e non sono io solo che lo dico, non è vero, padre Pirrone?”

L’ottimo Gesuita, tirato fuori dalla propria lettura, venne a trovarsi ad un tratto dinanzi a un dilemma penoso. Era stato confessore di Tancredi, e di peccatucci suoi ne conosceva più d’uno: nessuno veramente grave, s’intende, però tali ad ogni modo da detrarre parecchi quintali alla massiccia bontà della quale si parlava; di natura poi, tutti, da garantire una ferrea infedeltà coniugale. Questo, va da sé, non poteva esser detto tanto per ragioni sacramentali come per convenienze mondane; d’altra parte egli voleva bene al ragazzo e benché disapprovasse quel matrimonio dal fondo del proprio cuore, non avrebbe mai detto una parola che avesse potuto, non si dice neppure impedire ma offuscarne la scorrevolezza. Trovò rifugio nella Prudenza fra le virtù cardinali la più duttile e quella di più agevole maneggio. “Il fondo di bontà del nostro caro Tancredi è 89

grande, don Calogero, ed egli sorretto dalla Grazia divina e dalle virtù terrene della signorina Angelica, potrà diventare un giorno un buon sposo cristiano.” La profezia arrischiata ma prudentemente condizionata passò liscia.

“Ma, don Calogero,” proseguiva il Principe masticando le ultime cartilagini del rospo “se è inutile parlarvi dell’antichità di casa Falconeri, è anche, disgraziatamente, inutile, perché lo sapete di già, dirvi che le attuali condizioni economiche di mio nipote non sono eguali alla grandezza del suo nome; il padre di Tancredi, mio cognato Ferdinando, non era quel che si chiama un padre preveggente; le sue magnificenze di gran signore, aiutate dalla leggerezza dei suoi amministratori, hanno gravemente scosso il patrimonio del mio caro nipote e pupillo; i grandi feudi intorno a Mazzara, la pistacchiera di Ravanusa, le piantagioni di gelsi a Oliveri, il palazzo di Palermo, tutto, tutto è andato via; voi lo sapete, don Calogero.” Don Calogero infatti lo sapeva: era stata la più grande migrazione di rondini della quale si avesse ricordo, e la memoria di essa incuteva ancora terrore, ma non prudenza, a tutta la nobiltà siciliana, mentre era fonte di delizia appunto per tutti i Sedàra. “Durante il periodo della mia tutela sono riuscito a salvare la sola villa, quella vicino alla mia, mediante molti cavilli legali ed anche in grazia di qualche sacrificio che, del resto, ho compiuto con gioia tanto in memoria della mia santa sorella Giulia come per affetto per quel caro ragazzo.

È una bella villa: la scala è disegnata da Marvuglia, i salotti erano stati decorati dal Serenano; ma, per ora, l’ambiente in miglior stato può appena servire da stalla per le capre.”

Gli ultimi ossicini del rospo erano stati più disgustosi del previsto; ma, insomma, erano andati giù anch’essi. Adesso bisognava sciacquarsi la bocca con qualche frase piacevole, del resto sincera. “Ma, don Calogero, il risultato di tutti questi guai, di tutti questi crepacuori, è stato Tancredi; noialtri queste cose le sappiamo: è forse impossibile ottenere la distinzione, la delicatezza, il fascino di un ragazzo come lui senza che i suoi maggiori abbiano dilapidato una mezza dozzina di grossi patrimoni; almeno in Sicilia è così; una specie di legge di natura, come quelle che regolano i terremoti e le siccità.”

Tacque perché entrava un cameriere che recava su di un vassoio due lumi accesi; mentre essi venivano collocati al loro posto Don Fabrizio lasciò regnare nello studio un silenzio carico di compiaciuto accoramento. Dopo: “Tancredi non è un giovane qualsiasi, don Calogero;” prosegui, “egli non è soltanto signorile ed elegante; ha appreso poco, ma conosce tutto quello che si deve conoscere nel suo 90

ambiente: gli uomini, le donne, le circostanze, il colore del tempo; è ambizioso ed ha ragione di esserlo, andrà lontano; e la vostra Angelica, don Calogero, sarà fortunata se vorrà salire la strada insieme a lui.

E poi quando si è con Tancredi ci si può forse irritare qualche volta, ma non ci si annoia mai; e questo è molto.” Sarebbe esagerato dire che il sindaco apprezzasse le sfumature mondane di questa parte della conversazione del Principe; essa all’ingrosso non fece che confermarlo nella propria sommaria convinzione dell’astuzia e dell’opportunismo di Tancredi, e di un uomo astuto e tempista egli aveva bisogno a casa, e di null’altro. Si sentiva, si credeva uguale a chiunque; gli rincresceva financo di notare nella figlia un ceno sentimento amoroso per il giovanotto.

“Principe, queste cose le sapevo, ed altre ancora; e non me ne importa niente.”

Si rivesti di sentimentalità. “L’amore, Principe, l’amore è tutto, ed io lo posso sapere.” E forse era sincero il pover’uomo se si ammetteva la probabile sua definizione dell’amore. “Ma io sono un uomo di mondo e voglio anch’io porre le mie carte in tavola. Sarebbe inutile parlare della dote di mia figlia; essa è il sangue del mio cuore, il fegato fra le mie viscere; non ho altra persona cui lasciare quello che posseggo, e quello che è mio è suo. Ma è giusto che i giovani conoscano quello su cui possono contare subito: nel contratto matrimoniale assegnerò a mia figlia il feudo di Settesoli, di salme 644, cioè ettari 1680, come vogliono chiamarli oggi, tutto a frumento; terre di prima qualità ventilate e fresche, e 180 salme di vigneto e uliveto a Gibildolce; e il giorno del matrimonio consegnerò allo sposo venti sacchetti di tela con mille ‘onze’ ognuno. Io resto con una canna nelle mani” aggiunse, convinto e lieto di non essere creduto “ma una figlia è una figlia. E con questo si possono rifare tutte le scale di Mannaggia e tutti i soffitti di Sorcionero che esistono al mondo. Angelica dev’essere alloggiata bene.”

La volgarità ignorante gli sprizzava da ogni poro; malgrado ciò i suoi due ascoltatori furono sbalorditi: Don Fabrizio ebbe necessità di tutto il suo potere di controllarsi per nascondere la sorpresa. Il colpo di Tancredi era più sbardellato di quanto potesse supporsi. Una sensazione di disgusto stava per assalirlo, ma la bellezza di Angelica, la cinicità dello sposo riuscivano ancora a velare di poesia la brutalità del contratto. Padre Pirrone, lui, fece schioccare la lingua sul palato; poi, infastidito per aver rivelato il proprio stupore, si provò a trovare una rima 91

all’improvvido suono facendo scricchiolare la sedia e le scarpe, sfogliando con fragore il breviario; non riuscì a nulla e l’impressione rimase.

Per fortuna una improntitudine di don Calogero, la sola della conversazione, tirò tutti dall’imbarazzo: “Principe” disse “so che quello che sto per dire non farà effetto su di voi che discendete da Titone imperatore e Berenice regina, ma anche i Sedàra sono nobili; fino a me essi sono stati una razza sfortunata seppellita in provincia e senza lustro, ma io ci ho le carte in regola nel cassetto, e un giorno si saprà che vostro nipote ha sposato la baronessina Sedàra del Biscotto; titolo concesso da Sua Maestà Ferdinando IV sulle secrezie del porto di Mazzara. Debbo fare le pratiche: mi manca solo un attacco.”

Quella degli “attacchi” mancanti, delle secrezie, delle quasi omonimie era, cento anni fa, un elemento importante della vita di molti siciliani, e forniva alternate esaltazioni e depressioni a migliaia di persone, buone o meno che fossero; ma questo è argomento troppo importante per essere trattato di sfuggita e qui ci contenteremo di dire che l’uscita araldica di don Calogero recò al Principe l’impareggiabile godimento artistico di vedere un tipo realizzarsi in tutti i suoi particolari e che il proprio riso represso gli addolcì la bocca, fino alla nausea.

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