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sicurezza e guardò quasi teneramente don Onofrio che gli trotterellava al fianco.

“Don ‘Nofrio, voi siete veramente uno di quei gnomi che custodiscono i tesori; la riconoscenza che vi dobbiamo è grande.” In un altro anno il sentimento sarebbe stato eguale ma le parole non gli erano salite alle labbra; don ‘Nofrio lo guardò grato e sorpreso. “Dovere, Eccellenza, dovere”; e per nascondere la propria emozione si grattava un orecchio con il lunghissimo unghie del mignolo sinistro.

Dopo, l’Amministratore venne sottoposto alla tortura del tè. Don Fabrizio se ne fece portare due tazze e con la morte nel cuore don ‘Nofrio dovette inghiottirne una; poi si mise a raccontare le cronache di Donnafugata: due settimane fa aveva rinnovato l’affitto del feudo Aquila a condizioni un po’ peggiori di prima; aveva dovuto affrontare delle spese per la riparazione dei solai delle foresterie; ma vi erano in cassa, a disposizione di Sua Eccellenza, 3275 onze al netto di ogni spesa, tassa e del proprio stipendio.

Poi vennero le notizie private che si adunavano attorno al grande fatto dell’annata: la continua rapida ascesa della fortuna di don Calogero Sedàra: sei mesi fa era scaduto il mutuo concesso al barone Tumino ed egli si era incamerata la terra: mercé mille onze prestate possedeva adesso una nuova proprietà che ne rendeva cinquecento all’anno; in Aprile aveva potuto acquistare due “salme” di terreno per un pezzo di pane, ed in quella piccola proprietà vi era una cava di pietra ricercatissima che egli si proponeva di sfruttare; aveva concluso vendite di frumento quanto mai profittevoli nei momenti di disorientamento e di carestia che avevano seguito lo sbarco. La voce di don ‘Nofrio si riempì di rancore: “Ho fatto un conto sulla punta delle dita: le rendite di don Calogero eguaglieranno fra poco quelle di Vostra Eccellenza qui a Donnafugata; e questa in paese è la minore delle sue proprietà.”

Insieme alla ricchezza cresceva anche la sua influenza politica; era divenuto il capo dei liberali a Donnafugata ed anche nei borghi vicini; quando ci sarebbero state le elezioni era sicuro di essere inviato deputato a Torino. “E che aria si danno! non lui che è troppo intelligente per farlo, ma sua figlia, per esempio, che è ritornata dal collegio di Firenze e che va in giro per il paese con la sottana rigonfia e i nastri di velluto che le pendono giù dal cappellino.”

Il Principe taceva: la figlia, sì, quell’Angelica che sarebbe venuta a pranzo stasera; era curioso di rivedere quella pastorella agghindata; non era vero che nulla era mutato; don Calogero ricco quanto lui! Ma queste cose, in fondo, erano previste, erano il prezzo da pagare.

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Il silenzio del Principe turbò don ‘Nofrio; immaginava di averlo scontentato narrandogli i pettegolezzi paesani. “Eccellenza, ho pensato a far preparare un bagno; dev’essere pronto adesso.” Don Fabrizio si accorse improvvisamente di essere stanco: erano quasi le tre ed erano nove ore che si trovava in giro sotto il sole torrido e dopo quella nottata; sentiva il suo corpo pieno di polvere fin nelle più remote pieghe. “Grazie, don ‘Nofrio, di averci pensato; e di tutto il resto. Ci rivedremo questa sera a pranzo.”

Salì la scala interna; passò per il salone degli arazzi, per quello azzurro, per quello giallo; le persiane abbassate filtravano la luce, nel suo studio la pendola di Boulle batteva sommessa. “Che pace, mio Dio, che pace!” Entrò nello stanzino del bagno: piccolo, imbiancato a calce, col suo pavimento di ruvidi mattoni nel cui centro vi era l’orifizio per lo scolo dell’acqua. La vasca era una sorta di truogolo ovale, immenso, in lamierino verniciato giallo fuori e bianco dentro, issato su quattro robusti piedi di legno. Dalla finestra senza riparo il sole entrava brutalmente.(1)

(1) Appeso a un chiodo del muro un accappatoio; su una delle sedie di corda labiancheria di ricambio; su un’altra un vestito che recava ancora le pieghe prese nelbaule. Accanto al bagno un grosso pezzo di sapone rosa, uno spazzolone, unfazzoletto annodato contenente della crusca che bagnata avrebbe emesso un latteodoroso, una enorme spugna, una di quelle che gli inviava l’amministratore diSalina.

Don Fabrizio chiamò: entrarono due servitori recanti ciascuno una coppia di secchi sciabordanti, l’uno di acqua fredda, l’altro di acqua bollente; fecero il via vai diverse volte, il truogolo si riempi; lui ne provò la temperatura con la mano: andava bene. Fece uscire i servi, si svesti, s’immerse. Sotto la mole spropositata l’acqua fu sul punto di traboccare. S’insaponò, si strigliò: il tepore gli faceva bene, lo rilassava. Stava quasi per addormentarsi quando si bussò alla porta: Domenico, il cameriere, entrò timoroso. “Padre Pirrone chiede di vedere subito Vostra Eccellenza. Aspetta qui accanto che Vostra Eccellenza esca dal bagno.” Il Principe fu sorpreso; se era successo un guaio era meglio conoscerlo subito.

“Niente affatto; fatelo entrare adesso.”

Don Fabrizio si era allarmato della fretta del Gesuita; e un po’ per questo e un po’ per rispetto dell’abito sacerdotale si affrettò a uscire dal bagno: contava di poter mettersi l’accappatoio prima che padre Pirrone entrasse; ma ciò non gli riuscì, e il prete entrò proprio nell’istante in cui egli non più velato dall’acqua 49

saponacea, non ancora rivestito dall’effimero sudario, si ergeva interamente nudo, come l’Ercole Farnese, e per di più fumante, mentre giù dal collo, dalle braccia, dallo stomaco, dalle cosce l’acqua gli scorreva a rivoli, come il Rodano, il Reno e il Danubio traversano e bagnano i gioghi alpini. Il panorama del Principone allo stato adamitico era inedito per Padre Pirrone. Allenato dal sacramento della Penitenza alle nudità degli animi, lo era assai meno a quella dei corpi; ed egli che non avrebbe battuto ciglio ascoltando la confessione, poniamo, di una tresca incestuosa, si turbò alla vista di quella innocente nudità titanica. Balbettò una scusa e accennò a ritornare indietro; ma Don Fabrizio, irritato per non aver fatto in tempo a coprirsi rivolse naturalmente contro di lui la propria stizza: “Padre, non fate lo sciocco; piuttosto datemi l’accappatoio e, se non vi dispiace, aiutatemi ad asciugarmi.” Subito dopo un battibecco passato gli tornò in mente. “E date retta a me, Padre, prendete un bagno anche voi.” Sodisfatto di aver potuto dare un ammonimento igienico a chi gliene impartiva tanti morali, si rasserenò. Col lembo superiore del panno finalmente ottenuto si asciugava i capelli, le basette ed il collo, mentre col lembo inferiore l’umiliato Padre Pirrone gli strofinava i piedi.

Quando la vetta e le falde del monte furono asciutte: “Adesso sedetevi, Padre, e ditemi perché volevate parlarmi così di furia.” Mentre il Gesuita sedeva egli incominciò per proprio conto alcuni prosciugamenti più intimi. “Ecco, Eccellenza: sono stato incaricato di una missione delicata. Una persona sommamente cara a voi ha voluto aprire a me il suo animo e affidarmi l’incarico di far conoscere i suoi sentimenti, fiduciosa, forse a torto, che la stima della quale sono onorato...” Le esitazioni di Padre Pirrone si stemperavano in frasi interminabili. Don Fabrizio perdette la pazienza: “Insomma, Padre, di chi si tratta? Della Principessa?” E col braccio alzato sembrava minacciare; di fatto si asciugava un’ascella.

“La Principessa è stanca; dorme e non la ho vista. Si tratta della signorina Concetta.” Pausa. “Essa è innamorata.” Un uomo di quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento in cui si accorge di avere dei figli in età di amare. Il Principe si senti invecchiato di colpo; dimenticò le miglia che percorreva cacciando, i “Gesummaria” che sapeva provocare, la propria freschezza attuale al termine di un viaggio lungo e penoso; di colpo vide sé stesso come una persona canuta che accompagna uno stuolo di nipotini a cavallo alle capre di Villa Giulia.

“E quella stupida perché è andata a raccontare queste cose a voi? Perché non è venuta da me?” Non chiese neppure di chi fosse innamorata Concetta: era 50

superfluo. “Vostra Eccellenza cela troppo bene il cuore paterno sotto l’autorità del padrone; è naturale allora che quella povera figliola si intimorisca e ricorra al devoto ecclesiastico di casa.”

Don Fabrizio s’infilava i lunghi mutandoni e sbuffava: prevedeva lunghi colloqui, lagrime, seccature senza limiti; quella smorfiosa gli guastava il primo giorno a Donnafugata.

“Capisco, Padre, capisco. A casa mia non mi comprende nessuno. È la mia disgrazia.” Rimaneva seduto su uno sgabello col vello biondo del petto imperlato di goccioline. Rivoletti d’acqua serpeggiavano sui mattoni, la stanza era carica di odor latteo di crusca, di odor di mandorla del sapone. “E che cosa dovrei dire, io, secondo voi?” Il Gesuita sudava nel calore da stufa e, adesso che la confidenza era stata trasmessa, avrebbe voluto andar via; ma il sentimento della propria responsabilità lo trattenne. “Il desiderio di fondare una famiglia cristiana appare graditissimo agli occhi della Chiesa. La presenza del Signore alle nozze di Cana...”

“Non divaghiamo. Io intendo parlare di questo matrimonio, non del matrimonio in generale. Tancredi ha fatto delle proposte precise? e quando?”

Durante cinque anni Padre Pirrone aveva tentato d’insegnare il latino al ragazzo; durante sette anni ne aveva subito le bizze e gli scherzi; come tutti ne aveva sentito il fascino; ma i recenti atteggiamenti politici di Tancredi lo avevano offeso; il vecchio affetto lottava in lui col nuovo rancore. Adesso non sapeva cosa dire. “Proposte vere e proprie, no. Ma la signorina Concetta non ha dubbi: le attenzioni, gli sguardi, le mezzeparole di lui, tutte cose che divengono sempre più frequenti, hanno convinto quell’anima santa; essa è sicura di essere amata; ma, figlia rispettosa e ubbidiente, voleva chiedervi, per mio mezzo, che cosa dovrà rispondere quando queste proposte verranno. Essa sente che sono imminenti.”

Don Fabrizio fu un poco rassicurato: da dove mai quella ragazzina avrebbe dovuto attingere una esperienza che le permettesse di veder chiaro nelle intenzioni di un giovanotto? e di un giovanotto come Tancredi, per di più! Si trattava probabilmente di semplici fantasie, di uno di quei “sogni d’oro” che sconvolgono i guanciali degli educandati. Il pericolo non era vicino.

Pericolo. La parola gli risonò in mente con tanta nettezza che se ne sorprese.

Pericolo. Ma pericolo per chi? Egli amava molto Concetta: di lei gli piaceva la perpetua sottomissione, la placidità con la quale si piegava ad ogni esosa manifestazione della volontà paterna; sottomissione e placidità, del resto, da lui sopravalutata. La naturale tendenza che egli possedeva a rimuovere ogni 51

minaccia alla propria calma gli aveva fatto trascurare di osservare il bagliore ferrigno che traversava gli occhi della ragazza quando le bizzarrie alle quali ubbidiva erano davvero troppo vessatorie. Il Principe amava molto questa sua figlia; ma amava ancor più Tancredi. Conquistato da sempre dall’affettuosità beffarda del ragazzo, da pochi mesi aveva cominciato ad ammirare anche l’intelligenza di lui: quella rapida adattabilità, quella penetrazione mondana, quell’arte innata delle sfumature che gli dava il modo di parlare il linguaggio demagogico di moda pur lasciando capire agli iniziati che ciò non era che un passatempo al quale lui, il Principe di Falconeri, si abbandonava per un momento, tutte queste cose lo avevano divenite; e per le persone del carattere e della classe di Don Fabrizio la facoltà di esser divertiti costituisce i quattro quinti dell’affetto. Tancredi, secondo lui, aveva dinanzi a sé un grande avvenire; egli avrebbe potuto essere l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico. Per far questo gli mancava soltanto una cosa: i soldi; di questi Tancredi non ne aveva, niente. E per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse. Treno di casa... e Concetta con tutte le sue virtù passive sarebbe stata capace di aiutare un marito ambizioso e brillante a salire le sdrucciolevoli scale della nuova società? Timida, riservata, ritrosa come era? Sarebbe rimasta sempre la bella educanda che era adesso, cioè una palla di piombo al piede del marito.

“La vedete voi, Padre, Concetta ambasciatrice a Vienna o a Pietroburgo?” La testa di Padre Pirrone fu frastornata da questa domanda. “Ma che c’entra questo?

Non capisco.” Don Fabrizio non si curò di spiegare e si ringolfò nei suoi pensieri.

Soldi? Concetta avrebbe avuto una dote, certo. Ma la fortuna di casa Salina doveva essere divisa in otto parti, in parti non eguali, delle quali quella delle ragazze sarebbe stata la minima. Ed allora? Tancredi aveva bisogno di ben altro: di Maria Santa Pau, per esempio, con i quattro feudi già suoi e tutti quegli zii preti e risparmiatori; di una delle ragazze Sutèra, tanto bruttine ma tanto ricche.

L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos’era l’amore... e Tancredi poi, davanti al quale le donne sarebbero cadute come pere cotte...

Ad un tratto ebbe freddo. L’acqua che aveva addosso evaporava, e la pelle delle braccia era gelida. Le punte delle dita si raggrinzivano. E che quantità di penose 52

conversazioni in vista. Bisognava evitare... “Adesso debbo andare a vestirmi, Padre. Dite a Concetta, vi prego, che non sono affatto seccato ma che di tutto questo riparleremo quando saremo sicuri che non si tratta soltanto di fantasie di una ragazza romantica. A Presto, Padre.”

Si alzò e passò nella stanza di toletta. Dalla Madre Chiesa vicina giungevano tetri i rintocchi di un “mortorio.” Qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana, cui era bancata la forza di aspettare la pioggia. “Beato lui” pensò il Principe mentre si passava la lozione sulle basette. “Beato lui, se ne strafotte ora di figlie, doti e carriere politiche.” Questa effimera identificazione con un defunto ignoto fu sufficiente a calmarlo. “Finché c’è morte c’è speranza” pensò; poi si trovò ridicolo per essersi posto in un tale stato di depressione perché una sua figlia voleva sposarsi. “Ce sont leurs affaires, après tout” pensò in francese come faceva quando le sue cogitazioni si sforzavano di essere sbarazzine. Sedette su una poltrona e si appisolò.

Dopo un’ora si svegliò rinfrescato e discese in giardino. Il sole già calava e i suoi raggi, smessa la prepotenza, illuminavano di luce cortese le araucarie, i pini, i robusti lecci che facevano la gloria del posto. Il viale principale scendeva lento fra alte siepi di alloro incornicianti anonimi busti di dee senza naso; e da in fondo si udiva la dolce pioggia degli zampilli che ricadevano nella fontana di Anfitrite. Vi si diresse, svelto, avido di rivedere. Soffiate via dalle conche dei Tritoni, dalle conchiglie delle Naiadi, dalle narici dei mostri marini, le acque erompevano in filamenti sottili, picchiettavano con pungente brusio la superficie verdastra del bacino, suscitavano rimbalzi, bolle, spume, ondulazioni, fremiti, gorghi ridenti; dall’intera fontana, dalle acque tiepide, dalle pietre rivestite di muschi vellutati emanava la promessa di un piacere che non avrebbe mai potuto volgersi in dolore. Su di un isolotto al centro del bacino rotondo, modellato da uno scalpello inesperto ma sensuale, un Nettuno spiccio e sorridente abbrancava un’Anfitrite vogliosa: l’ombelico di lei inumidito dagli spruzzi, brillava al sole, nido, fra poco, di baci nascosti nell’ombria subacquea. Don Fabrizio si fermò, guardò, ricordò, rimpianse. Rimase a lungo.

“Zione, vieni a guardare le pesche forestiere. Sono venute benissimo; e lascia stare queste indecenze che non sono fatte per uomini della tua età.”

L’affettuosa malizia della voce di Tancredi lo distolse dall’intorpidimento voluttuoso. Non lo aveva inteso venire, era come un gatto. Per la prima volta gli 53

sembrò che un senso di rancore lo pungesse alla vista del ragazzo; quel bellimbusto con il vitino smilzo sotto l’abito bleu scuro era stata la causa che lui avesse tanto acerbamente pensato alla morte due ore fa. Poi si rese conto che rancore non era, soltanto un travestimento del timore: aveva paura che gli parlasse di Concetta. Ma l’abbordo, il tono del nipote non era quello di chi si prepari a far confidenze amorose a un uomo come lui. Si calmò: l’occhio del nipote lo guardava con l’affetto ironico che la gioventù concede alle persone anziane. “Possono permettersi di fare un po’ i gentili con noi, tanto sono sicuri che il giorno dopo dei nostri funerali saranno liberi.” Andarono a guardare le

“pesche forestiere.” L’innesto dei gettoni tedeschi, fatto due anni prima, era riuscito perfettamente; le pesche erano poche, una dozzina sui due alberi innestati, ma erano grandi, vellutate e fragranti; giallognole con due sfumature rosee sulle guance sembravano testoline di cinesine pudiche. Il Principe le palpò con la delicatezza famosa dei polpastrelli. “Mi sembra che siano proprio a punto.

Peccato che siano troppo poche per servirle stasera. Domani le faremo cogliere e vedremo come sono.” “Vedi! così mi piaci, zio; così, nella parte dell’agricola pius che apprezza e pregusta i frutti del proprio lavoro; e non come ti ho trovato poc’anzi mentre contemplavi nudità scandalose.” “Eppure, Tancredi, anche queste pesche sono prodotte da amori, da congiungimenti.” “Certo, ma da amori legali, promossi da tè, padrone e dal giardiniere, notaio; da amori meditati, fruttuosi. In quanto a quelli li” disse e accennava alla fontana della quale si percepiva il fremito al di là di un sipario di lecci “credi davvero che siano passati dinanzi al parroco?” L’abbrivio della conversazione diventava pericoloso e Don Fabrizio si affrettò a cambiar rotta.

Risalendo verso casa, Tancredi narrò quanto aveva appreso della cronaca galante di Donnafugata: Menica la figlia di campiere Saverio, si era lasciata ingravidare dal fidanzato; il matrimonio adesso si doveva compiere in fretta.

Colicchio, poi, era sfuggito per un pelo alla fucilata di un marito scontento. “Ma come fai a sapere queste cose?” “Le so, zione, le so. A me raccontano tutto; sanno che io compatisco.”

Giunti in cima alla scala che con svolte lente e lunghe soste di pianerottoli saliva dal giardino al palazzo, videro l’orizzonte serale al di là degli alberi: dalla parte del mare immani nuvoloni color d’inchiostro scalavano il cielo. Forse la collera di Dio si era saziata, e la maledizione annuale della Sicilia aveva avuto termine? In quel momento quei nuvoloni carichi di sollievo erano guardati da 54

migliaia di altri occhi, avvertiti da miliardi di semi nel grembo della terra.

“Speriamo che l’estate sia finita, che venga finalmente la pioggia” disse Don Fabrizio; e con queste parole l’altero nobiluomo cui, personalmente, le piogge avrebbero soltanto recato fastidio, si rivelava fratello dei suoi rozzi villani.

Il Principe aveva sempre tenuto a che il primo pranzo a Donnafugata avesse un carattere solenne: i figlioli sotto i quindici anni erano esclusi dalla tavola, venivano serviti vini francesi, vi era il poncio alla romana prima dell’arrosto; e i domestici erano in cipria e polpe. Su di un solo particolare transigeva: non si metteva in abito da sera per non imbarazzare gli ospiti che, evidentemente, non ne possedevano. Quella sera, nel salone detto “di Leopoldo” la famiglia Salina aspettava gli ultimi invitati. Da sotto i paralumi di merletto i lumi a petrolio spandevano una gialla luce circoscritta; gli smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati non erano che delle immagini imponenti e vaghe come il loro ricordo.

Don Onofrio era già arrivato con la moglie e così pure l’Arciprete che, con la mantellina pieghettata giù dalle spalle in segno di gala, parlava con la Principessa delle beghe del Collegio di Maria. Era giunto anche don Ciccio l’organista (Teresina era di già stata legata al piede di un tavolo del riposto) che rievocava insieme al Principe favolosi tiri riusciti nelle forre della Dragonara. Tutto era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliolo, fece nel salotto una irruzione scandalosa: “Papà, don Calogero sta salendo le scale. È in frack!”

Tancredi valutò l’importanza della notizia un secondo prima degli altri; era intento ad ammaliare la moglie di don Onofrio, ma quando udì la fatale parola non poté trattenersi e scoppiò in una risata convulsa. Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala. Quello era stato un avvenimento previsto, non solo, ma anche lontano e invisibile. Adesso, sensibile com’egli era, ai presagi e ai simboli, contemplava la Rivoluzione stessa in quel cravattino bianco e in quelle due code nere che salivano le scale di casa sua. Non soltanto lui, il Principe, non era più il massimo proprietario di Donnafugata, ma si vedeva anche costretto a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato che si presentava, a buon diritto, in abito da sera.

Il suo sconforto fu grande e durava ancora mentre meccanicamente si avanzava verso la porta per ricevere l’ospite. Quando lo vide, però, le sue pene furono alquanto alleviate. Perfettamente adeguato quale manifestazione politica, si poteva però affermare che, come riuscita sartoriale, il frack di don Calogero era 55

una catastrofe. Il panno era finissimo, il modello recente, ma il taglio era semplicemente mostruoso. Il Verbo londinese si era assai malamente incarnato in un artigiano girgentano cui la tenace avarizia di don Calogero si era rivolta. Le punte delle due falde si ergevano verso il ciclo in muta supplica, il vasto colletto era informe e, per quanto doloroso è necessario dirlo, i piedi del sindaco erano calzati da stivaletti abbottonati.

Don Calogero si avanzava con la mano tesa e inguantata verso la Principessa:

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