Sedette su un divano e mentre aspettava notò come il Vulcano del soffitto rassomigliasse un po’ alle litografie di Garibaldi che aveva visto a Torino. Sorrise. “Un cornuto.”
La famiglia si andava riunendo. La seta delle gonne frusciava. I più giovani scherzavano ancora fra loro. Si udì da dietro l’uscio la consueta eco della controversia fra i servi e Bendicò che voleva ad ogni costo prender parte. Un raggio di sole carico di pulviscolo illuminò le bertucce maligne.
S’inginocchiò: “Salve, Regina, Mater misericordiae...”
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PARTE SECONDA
Agosto 1860
“Gli alberi! ci sono gli alberi!”
Il grido partito dalla prima delle carrozze percorse a ritroso la fila delle altre quattro pressoché invisibili nella nuvola di polvere bianca, e ad ognuno degli sportelli volti sudati espressero una soddisfazione stanca.
Gli alberi, a dir vero, erano soltanto tre ed erano degli “eucaliptus” i più sbilenchifigli di Madre Natura; ma erano anche i primi che si avvistassero da quando alle seidel mattino, la famiglia Salina aveva lasciato Bisacquino. Adesso erano le undici eper quelle cinque ore non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti digiallo sotto il sole. Il trotto sui percorsi piani si era brevemente alternato alle lunghelente arrancate delle salite, al passo prudente nelle discese; passo e trotto, delresto, egualmente stemperati dal continuo fluire delle sonagliere che ormai non sipercepiva più se non come manifestazione sonora dell’ambiente arroventato. Sierano attraversati paesi dipinti in azzurro tenero, stralunati; su ponti di bizzarramagnificenza si erano valicate fiumare integralmente asciutte; si erano costeggiatidisperati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a consolare. Mai un albero,mai una goccia d’acqua: sole e polverone. All’interno delle vetture, chiuse appuntoper quel sole e quel polverone, la temperatura aveva certamente raggiunto icinquanta gradi. Quegli alberi assetati che si sbracciavano sul cielo sbiancatoannunziavano parecchie cose: che si era giunti a meno di due ore dal termine delviaggio; che si entrava nelle terre di casa Salina; che si poteva far colazione e forseanche lavarsi la faccia con l’acqua verminosa di un pozzo.
Dieci minuti dopo si era giunti alla fattoria di Rampinzèri: un enorme fabbricato,abitato soltanto durante un mese dell’anno da braccianti, muli ed altro bestiameche vi si radunava per il raccolto. Sulla porta solidissima ma sfondata unGattopardo di pietra danzava benché una sassata gli avesse stroncato proprio legambe; accanto al fabbricato un pozzo profondo, vigilato da quei tali eucaliptus,offriva muto i vari servizi dei quali era capace: sapeva far da piscina, daabbeveratoio, da carcere, da cimitero. Dissetava, propagava il tifo, custodiva 39
cristiani sequestrati, occultava carogne di bestie e di uomini sinché si riducessero alevigati scheletri anonimi.
Tutta la famiglia Salina discese dalle vetture. Il Principe, rallegrato dalla prospettiva di giungere presto alla sua Donnafugata prediletta, la Principessa irritata ad un tempo ed inerte cui la serenità del marito, però, dava ristoro; le ragazze stanche; i ragazzini eccitati dalla novità e che il caldo non aveva potuto domare; mademoiselle Dombreuil, la governante francese, completamente disfatta e che memore degli anni passati in Algeria presso la famiglia del maresciallo Bugeaud andava gemendo: “Mon Dieu, mon Dieu, c’est pire qu’en Afrique!” mentre si rasciugava il nasino all’insù; Padre Pirrone cui l’iniziata lettura del Breviario aveva conciliato un sonno che gli aveva fatto sembrare breve il tragitto, e che era il più arzillo di tutti; una cameriera e due servitori, gente di città irritata dagli aspetti inconsueti della campagna; e Bendicò che, precipitatesi fuori dall’ultima vettura, inveiva contro i suggerimenti funerei delle cornacchie che roteavano basse nella luce.
Tutti erano bianchi di polvere fin sulle ciglia, le labbra o. le code; nuvolette biancastre si alavano attorno alle persone che giunte alla tappa si spolveravano l’un l’altra.
Tanto più brillava fra il sudiciume la correttezza elegante di Tancredi. Aveva viaggiato a cavallo e, giunto alla fattoria mezz’ora prima della carovana, aveva avuto il tempo di spolverarsi, ripulirsi e cambiare la cravatta bianca. Quando aveva tirato fuori l’acqua dal pozzo a molti usi si era guardato un momento nello specchio del secchio e si era trovato a posto, con quella benda nera sull’occhio destro che ormai serviva a ricordare più che a curare la ferita al sopracciglio buscata tre mesi fa ai combattimenti di Palermo; con quell’altro occhio azzurro che sembrava aver assunto l’incarico di esprimere la malizia anche di quello temporaneamente eclissato; col filetto scarlatto al di sopra della cravatta che discretamente alludeva alla camicia rossa che aveva portato. Aiutò la Principessa a scendere dalla vettura, spolverò con la manica la tuba dello zio, distribuì caramelle alle cugine e frizzi ai cuginetti, si genuflesse quasi dinanzi al Gesuita, ricambiò gli impeti passionali di Bendicò, consolò mademoiselle Dombreuil, prese in giro tutti, incantò tutti.
I cocchieri facevano lentamente passeggiare in giro i cavalli per rinfrescarli prima dell’abbeverata, i camerieri stendevano le tovaglie sulla paglia avanzata dalla trebbiatura, nel rettangolino d’ombra proiettato dalla fattoria. Vicino al 40
pozzo premuroso incominciò la colazione. Intorno ondeggiava la campagna funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate; il lamento delle cicale riempiva il cielo; era come il rantolo della Sicilia , arsa che alla fine di agosto aspetta invano la pioggia.
Un’ora dopo tutti furono di nuovo in cammino rinfrancati. Benché i cavalli, stanchi, andassero più adagio ancora, l’ultimo tratto del percorso appariva breve; il paesaggio, non più sconosciuto, aveva attenuato i propri aspetti sinistri. Si andavano riconoscendo luoghi noti, mete aride di passeggiate passate e di spuntini durante gli anni scorsi; la forra della Dragonara, il bivio di Misilbesi; fra non molto si sarebbe giunti alla Madonna delle Grazie che, da Donnafugata, era il termine delle più lunghe passeggiate a piedi. La Principessa si era addormentata, Don Fabrizio, solo con lei nell’ampia carrozza, era beato. Mai era stato tanto contento di andare a passare tre mesi a Donnafugata quanto lo era adesso in questa fine di Agosto 1860. Non soltanto perché di Donnafugata amasse la casa, la gente, il senso di possesso feudale che in essa era sopravvissuto, ma anche perché, a differenza di altre volte, non aveva alcun Spianto per le pacifiche serate in osservatorio, per le occasionali visite a Mariannina. Per esser sinceri, lo spettacolo che aveva offerto Palermo negli ultimi tre mesi lo aveva un po’
nauseato. Avrebbe voluto aver l’orgoglio di esser stato il solo ad aver compreso la situazione e ad aver fatto buon viso al “bau-bau” in camicia rossa; ma si era dovuto render conto che la chiaroveggenza non era monopolio di casa Salina.
Tutti i palermitani sembravano felici: tutti, tranne un pugno di minchioni: Màlvica, suo cognato, che si era fatto beccare dalla polizia del Dittatore e che era rimasto dieci giorni in gattabuia; suo figlio Paolo altrettanto malcontento ma più prudente e che aveva lasciato a Palermo impigliato in chissà quali puerili complotti. Tutti gli altri ostentavano la loro gioia, portavano in giro baveri adorni di coccarde tricolori, facevano cortei da mattina a sera e, soprattutto, parlavano, concionavano, declamavano; e se magari nei primissimi giorni dell’occupazione tutto questo baccano aveva ricevuto un certo senso di finalità dalle acclamazioni che salutavano i rari feriti che passavano per le vie principali, e dai lamenti dei
“sorci,” degli agenti della polizia sconfitta che venivano torturati nei vicoli, adesso che i feriti erano guariti e i “sorci” superstiti si erano arruolati nella nuova polizia, queste carnevalate, delle quali pur riconosceva la necessità inevitabile, gli apparivano sciocche e sciape. Doveva, però, convenire che tutto ciò era manifestazione superficiale di cattiva educazione; il fondo delle cose, il 41
trattamento economico e sociale era soddisfacente, tal e quale l’aveva previsto.
Don Pietro Russo aveva mantenuto le sue promesse e vicino alla villa Salina non si era udita neppure una schioppettata; e se nel palazzo di Palermo era stato rubato un grande servizio di porcellana cinese, ciò si doveva soltanto alla balordaggine di Paolo che lo aveva fatto imballare in due ceste che aveva poi lasciate in cortile durante il bombardamento, vero e proprio invito affinché gli imballatori stessi venissero a farlo sparire.
I Piemontesi (così continuava a chiamarli il Principe per rassicurarsi, allo stesso modo che altri li chiamavano Garibaldini per esaltarli o Garibaldeschi per vituperarli) i Piemontesi si erano presentati a lui se non addirittura col cappello in mano, come era stato predetto, per lo meno con la mano alla visiera di quei loro berrettucci rossi stazzonati e gualciti quanto quelli degli ufficiali borbonici.
Preannunziato ventiquattr’ore prima da Tancredi, verso il venti Giugno si era presentato a villa Salina un generale in giacchettino rosso con alamari neri.
Seguito dal suo ufficiale di ordinanza aveva urbanamente chiesto di essere ammesso ad ammirare gli affreschi dei soffitti. Venne accontentato senz’altro perché il preavviso era stato sufficiente per allontanare da un salotto un ritratto di re Ferdinando II in pompa magna ed a farlo sostituire con una neutrale
“Probatica Piscina,” operazione che univa i vantaggi estetici a quelli politici.
Il generale era uno sveltissimo toscano sui trent’anni, chiacchierone ed alquanto fanfaronesco; beneducato peraltro e simpatico, si era comportato con il dovuto ossequio dando financo dell’Eccellenza” a Don Fabrizio, in netta contradizione con uno dei primi decreti del Dittatore; l’ufficiale di ordinanza, un pivellino di diciannove anni, era un conte milanese che affascinò le ragazze con gli stivali lucidi e con la “erre” moscia.
Erano venuti accompagnati da Tancredi che era stato promosso anzi creato, capitano sul campo; un po’ patito per le sofferenze causate dalla sua ferita e che se ne stava lì, rosso-vestito ed irresistibile a mostrare la propria intimità coi vincitori; intimità a base di “tu” e di “mio prode amico” reciproci che i
“continentali” prodigavano con fanciullesco fervore e che erano ricambiati da Tancredi, nasalizzati però e resi, per Don Fabrizio, pieni di sottaciuta ironia. Il Principe li aveva accolti dall’alto della propria inespugnabile cortesia, Ria da loro era stato davvero divertito e pienamente rassicurato, tanto che tre giorni dopo i due “Piemontesi” erano stati invitati a cena; ed era stato un bei vedere quello di Carolina seduta al Pianoforte che accompagnava il canto del generale che, in 42
omaggio alla Sicilia, si era arrischiato al “Vi ravviso o luoghi ameni” mentre Tancredi, compunto, voltava le pagine della Partitura come se le stecche non esistessero in questo mondo. Il contino milanese intanto, curvo su di un sofà, parlava di pagare a Concetta e le rivelava l’esistenza di Aleardo Aleardi; essa faceva finta di ascoltare e si rattristava invece per la brutta cera del cugino che le candele del pianoforte facevano apparire più languida di quel che fosse in realtà.
La serata era stata compiutamente idillica e venne seguita da altre egualmente cordiali; durante una di esse il generale venne pregato di interessarsi affinché l’ordine di espulsione per i Gesuiti non venisse applicato a Padre Pirrone che venne dipinto come sovraccarico di anni e malanni; il generale che aveva preso in simpatia l’eccellente prete, finse di credere al suo stato miserando, brigò, parlò con amici politici e Padre Pirrone rimase. Il che confermò sempre più Don Fabrizio nella esattezza delle proprie previsioni.
Il generale fu molto utile anche per la quistione dei lasciapassare necessari in quei giorni agitati per chi volesse spostarsi; si dovette in gran parte a lui se anche in quell’anno di rivoluzione la famiglia Salina poté godere della propria villeggiatura. Anche il giovane capitano ottenne una licenza di un mese e poté partire insieme agli zii. Anche a parte il lasciapassare, i preparativi per la partenza erano stati lunghi e complicati. Si erano dovuti condurre, infatti, ellittici negoziati in amministrazione con fiduciari di “persone influenti” di Girgenti, negoziati che, presieduti da Pietro Russo, si conchiusero con sorrisi, strette di mano e tintinnii di monete. Si era ottenuto un secondo e più valido lasciapassare; ma questo non era una novità. Bisognò radunare montagne di bagagli e provviste e spedire innanzi tre giorni prima una parte dei cuochi e dei servi; bisognò imballare un telescopietto e permettere a Paolo di restare a Palermo; dopo di che si era potuto partire. Il generale e il sottotenentino erano venuti a portare auguri di buon viaggio e fiori; e quando le vetture mossero da villa Salina due braccia rosse si agitarono lungamente, la tuba nera del Principe si sporse dallo sportello, ma la manina con guanto di merletto che il contino aveva sperato vedere rimase in grembo a Concetta.
Il viaggio era durato tre giorni ed era stato orrendo. Le strade, le famose strade siciliane per causa delle quali il principe di Satriano aveva perduto la Luogotenenza erano delle vaghe tracce irte di buche e zeppe di polvere. La prima notte a Marineo in casa di un notaio amico era stata ancora sopportabile; ma la seconda in una locandaccia di Frizzi era stata penosa da passare, distesi in tre su 43
ciascun letto, insidiati da faune repellenti. La terza, a Bisacquino. Non vi erano cimici ma in compenso Don Fabrizio aveva trovato tredici mosche dentro il bicchiere della granita; un greve odore di feci esalava tanto dalle strade che dalla
“stanza dei cantari” attigua e ciò aveva suscitato nel Principe sogni penosi; risvegliatesi ai primissimi albori, immerso nel sudore e nel fetore non aveva potuto fare a meno di paragonare questo viaggio schifoso alla propria vita, che si era svolta dapprima per pianure ridenti, si era inerpicata poi per scoscese montagne, aveva sgusciato attraverso gole minacciose per sfociare poi in interminabili ondulazioni di un solo colore, deserte come la disperazione. Queste fantasie del primo mattino erano quanto di peggio potesse capitare a un uomo di mezza età; e benché don Fabrizio sapesse che erano destinate a svanire con l’attività del giorno ne soffriva acutamente perché era ormai abbastanza esperto per sapere che esse lasciavano in fondo all’anima un sedimento di lutto che, accumulandosi ogni giorno avrebbe finito con l’essere la vera causa della morte.
Questi mostri, col sorgere del sole, si erano rintanati in zone non coscienti; Donnafugata era vicina ormai con il suo palazzo, con le sue acque zampillanti, con i ricordi dei suoi antenati santi, con l’impressione che essa dava di perennità dell’infanzia, anche la gente là era simpatica, devota e semplice. Ma a questo punto un pensiero lo insidiò: chissà se dopo i recenti fatti la gente sarebbe stata devota come prima. “Si vedrà.”
Adesso si era davvero quasi arrivati. Il volto arguto di Tancredi apparì da dietro il finestrino. “Zii, preparatevi, fra cinque minuti ci siamo.” Tancredi aveva troppo tatto per precedere il Principe in paese; mise il suo cavallo al passo e, procedette, riservatissimo, a fianco della prima vettura.
Al di là del breve ponte le autorità stavano ad attendere, circondate da qualche diecina di contadini. Appena le carrozze entrarono sul ponte la banda municipale attaccò con foga genetica “Noi siamo zingarelle” primo strambo e caro saluto che da qualche anno Donnafugata porgeva al suo Principe; e subito dopo le campane della Chiesa Madre e del convento di Santo Spirito, avvertite da qualche monello in vedetta, riempirono l’aria di baccano festoso. “Grazie a Dio, mi sembra che tutto sia come al solito” pensò il Principe scendendo dalla carrozza. Vi erano li Don Calogero Sedàra, il sindaco, con i fianchi stretti da una fascia tricolore nuova fiammante come la sua carica; monsignor Trottolino, l’arciprete, con il suo faccione arsiccio; don Ciccio Ginestra, il notaio, che era venuto, carico di gale e pennacchi, in qualità di capitano della Guardia Nazionale; vi era don Totò 44
Giambone, il medico, e vi era la piccola Nunzia Giarritta che porse alla Principessa uno scomposto mazzo di fiori colti, del resto, mezz’ora prima nel giardino del palazzo. Vi era Ciccio Tumeo, l’organista del Duomo, il quale a rigor di termini non avrebbe avuto rango sufficiente per schierarsi con le autorità, ma che era venuto lo stesso quale amico e compagno di caccia, e che aveva avuto la buona idea di portare con sé, per far piacere al Principe, Teresina, la cagna bracca focata con i due segnetti color nocciola al di sopra degli occhi, e che del suo ardire fu ricompensato da un sorriso tutto particolare di Don Fabrizio. Questi era di ottimo umore e sinceramente blando; era disceso dalla carrozza insieme alla moglie per ringraziare e sotto l’imperversare della musica di Verdi e del frastuono delle campane abbracciò il Sindaco e strinse la mano a tutti gli altri. La folla dei contadini era muta ma dagli occhi immobili traspariva una curiosità non ostile, perché i villici di Donnafugata non avevano nulla contro il loro tollerante signore che così spesso dimenticava di esigere i canoni e i piccoli fitti; e poi, avvezzi a vedere il Gattopardo baffuto danzare sulla facciata del palazzo, sul frontone delle chiese, in cima alle fontane, sulle piastrelle maiolicate delle case, erano curiosi di vedere adesso l’autentico Gattopardo in pantaloni di piqué distribuire a tutti zampate amichevoli e sorridere nel volto di felino cortese. “Non c’è da dire tutto è come prima, meglio di prima, anzi.” Anche Tancredi era oggetto di grande curiosità: tutti lo conoscevano da tempo ma adesso egli appariva come trasfigurato: non si vedeva più in lui il giovanotto spregiudicato ma l’aristocratico liberale, il compagno di Rosolino Pilo, il glorioso ferito dei combattimenti di Palermo. Lui in quella ammirazione rumorosa nuotava come un pesce in acquai quei rustici ammiratori erano davvero uno spasso; parlava loro in dialetto, scherzava, prendeva in giro sé stesso e la propria ferita. Ma quando diceva “il generale Garibaldi” calava la voce di un tono e prendeva l’aria assorta di un chierichetto davanti all’ostensorio; e a don Calogero Sedàra, del quale aveva vagamente inteso che si era dato molto da fare nei giorni della liberazione, disse con voce sonora: “Di voi, don Calogero, Crispi mi ha detto gran bene.” Dopo di che diede il braccio alla cugina Concetta e se ne andò lasciando tutti in visibilio.