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Scansò un monello, evitò con cura una pisciata di mulo. Raggiunse la porta di casa Sedàra.

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PARTE TERZA

Ottobre 1860

La pioggia era venuta, la pioggia era andata via; ed il sole era risalito sul trono come un re assoluto che, allontanato per una settimana dalle barricate dei sudditi, ritorna a regnare iracondo ma raffrenato da carte costituzionali. Il calore ristorava senza ardere, la luce era autoritaria ma lasciava sopravvivere i colori, e dalla terra rispuntavano trifogli e mentucce cautelose, sui volti diffidenti speranze.

Don Fabrizio insieme a Teresina ed Arguto, cani, e a don Ciccio Tumeo, seguace, passava lunghe ore a caccia, dall’alba al pomeriggio. La fatica era fuori d’ogni proporzione con i risultati, perché anche ai più esperti tiratori riesce difficile colpire un bersaglio che non c’è quasi mai, ed era molto se il Principe rincasando poteva far penare in cucina un paio di pernici così come don Ciccio si reputava fortunato se a sera poteva sbattere sul tavolo un coniglio selvatico, il quale del resto veniva ipso facto promosso al grado di lepre, come si usa da noi.

Un’abbondanza di bottino sarebbe stata d’altronde per il Principe un piaceresecondario; il diletto dei giorni di caccia era altrove, suddiviso in molti episodiminuti. Cominciava con la rasatura nella camera ancora buia, al lume di unacandela che rendeva enfatici i gesti sul soffitto dalle architetture dipinte; si acuivanel traversare i saloni addormentati, nello scansare alla luce traballante i tavoli conle carte da gioco in disordine fra gettoni e bicchierini vuoti, e nello scorgere fra esseil cavallo di spade che gli rivolgeva un augurio virile; nel percorrere il giardinoimmoto sotto la luce grigia nel quale gli uccelli più mattinieri si strizzavano per farsaltar via la rugiada dalle penne; nello sgusciare attraverso la porticina impeditadall’edera; nel fuggire, insomma; e poi sulla strada, innocentissima ancora ai primialbori, ritrovava don Ciccio sorridente fra i baffi ingialliti mentre sacramentavaaffettuoso contro i cani; a questi, nell’attesa, fremevano i muscoli sotto il velluto delpelo. Venere brillava, chicco d’uva sbucciato, trasparente e umido, e di giàsembrava di udire il rombo del carro solare che saliva l’erta sotto l’orizzonte; prestos’incontravano le prime greggi che avanzavano torpide come maree, guidate asassate dai pastori calzati di pelli; le lane erano rese morbide e rosee dai primi 65

raggi; poi bisognava dirimere oscuri litigi di precedenza fra i cani da mandria e ibracchi puntigliosi, e dopo quest’intermezzo assordante si svoltava su per unpendio e ci si trovava nell’immemoriale silenzio della Sicilia pastorale. Si era subitolontani da tutto, nello spazio e ancor più nel tempo. Donnafugata con il suo palazzoe i suoi nuovi ricchi era appena a due miglia ma sembrava sbiadita nel ricordocome quei paesaggi che talvolta s’intravedono allo sbocco lontano di una galleriaferroviaria; le sue pene e il suo lusso apparivano ancor più insignificanti che sefossero appartenuti al passato, perché rispetto all’immutabilità di queste contradefuori di mano sembravano far parte del futuro, esser ricavati non dalla pietra edalla carne ma dalla stoffa di un sognato avvenire, estratte da una Utopiavagheggiata da un Plafone rustico e che per un qualsiasi minimo accidente avrebbeanche potuto conformarsi in fogge del tutto diverse o addirittura non essere;sprovviste così anche di quel tanto di carica energetica che ogni cosa passatacontinua a possedere, non potevano più recar fastidio.

Don Fabrizio ne aveva avuto parecchi di fastidi in questi due ultimi mesi: erano sbucati da tutte le parti come formiche all’arrembaggio di una lucertola morta.

Alcuni erano spuntati fuori dai crepacci della situazione politica; altri gli erano stati buttati addosso dalle passioni altrui; altri ancora (ed erano i più mordaci) erano germogliati dal suo proprio interno, cioè dalle irrazionali reazioni sue alla politica ed ai capricci del prossimo (capricci chiamava, quando era irritato, ciò che da calmo designava come passioni); e questi fastidi se li passava in rivista ogni giorno, li faceva manovrare, comporsi in colonna o spiegarsi in fila sulla piazza d’armi della propria coscienza sperando di scorgere nelle loro evoluzioni un qualsiasi senso di finalità che potesse rassicurarlo; e non ci riusciva. Gli anni scorsi le seccature erano in numero minore e ad ogni modo il soggiorno a Donnafugata costituiva un periodo di riposo: i crucci lasciavano cadere il fucile, si disperdevano fra le anfrattuosità delle valli e stavano tanto tranquilli, intenti a mangiare pane e formaggio, che si dimenticava la bellicosità delle loro uniformi e potevano esser presi per bifolchi inoffensivi. Quest’anno invece, come truppe ammutinate che vociassero brandendo le armi, erano rimasti adunati e, a casa sua, gli suscitavano lo sgomento di un colonnello che abbia detto: “Fate rompere le righe!” e che dopo vede il reggimento più serrato e minaccioso che mai.

Bande, mortaretti, campane, “zingarelle” e Te Deum all’arrivo, va bene; ma dopo la rivoluzione borghese che saliva le sue scale nel frack di don Calogero, la bellezza di Angelica che poneva in ombra la grazia contegnosa della sua Concetta, 66

Tancredi che precipitava i tempi dell’evoluzione prevista e cui anzi l’infatuazione sensuale dava modo d’infiorarne i motivi realistici; gli scrupoli e gli equivoci del Plebiscito; le mille astuzie alle quali doveva piegarsi lui, il Gattopardo, che per tanti anni aveva spazzato via le difficoltà con un rovescio della zampa.

Tancredi era partito già da più di un mese e adesso se ne stava a Caserta accampato negli appartamenti del suo Re; da lì inviava ogni tanto a Don Fabrizio lettere che questi leggeva con sorrisi e ringhi alternati e che poi riponeva nel più remoto cassetto della scrivania. A Concetta non aveva scritto mai ma non dimenticava di farla salutare con la consueta affettuosa malizia; una volta anzi aveva scritto: “Bacio le mani di tutte le Gattopardine, e soprattutto quelle di Concetta” frase che venne censurata dalla prudenza paterna quando la lettera venne letta alla famiglia. Angelica veniva a far visita quasi ogni giorno, più seducente che mai accompagnata dal padre o da una cameriera iettatoria: ufficialmente le visite erano fatte alle amichette, alle ragazze, ma di fatto si avvertiva che il loro acme era raggiunto al momento in cui essa chiedeva con indifferenza: “E sono arrivate notizie del Principe?” “Il Principe” nella bella bocca di Angelica non era ahimè! il vocabolo per designare lui, Don Fabrizio, ma quello usato per evocare il capitanuccio garibaldino; e ciò provocava in Salina un sentimento buffo tessuto nel cotone dell’invidia sensuale e nella seta del compiacimento per il successo del caro Tancredi; sentimento, a conti fatti, sgradevole. Alla domanda rispondeva sempre lui stesso: in forma meditatissima riferiva quanto sapeva, avendo cura però di presentare una pianticella di notizie ben rimondata alla quale le sue caute cesoie avevano asportato tanto le spine (narrazioni di frequenti gite a Napoli, allusioni chiarissime alla bellezza delle gambe di Aurora Schwarzwald, ballerinetta del San Carlo) quanto i boccioli prematuri (“dammi notizie della signorina Angelica” - “nello studio di Ferdinando II ho visto una Madonna di Andrea del Sarto che mi ha ricordato la signorina Sedàra”). Plasmava così una immagine insipida di Tancredi, assai poco veritiera, ma così, anche, non si poteva dire che egli recitasse la parte del guastafeste o quella del paraninfo. Queste precauzioni verbali corrispondevano assai bene ai propri sentimenti nei riguardi della ragionata passione di Tancredi ma lo irritavano in quanto lo stancavano; esse erano del resto soltanto un esemplare dei cento raggiri di linguaggio e di contegno che da qualche tempo era costretto a escogitare; ripensava con rimpianto alla situazione di un anno prima quando diceva tutto quanto gli passasse per il capo, sicuro che ogni sciocchezza sarebbe 67

stata accettata come parola di Vangelo, e qualsiasi improntitudine come noncuranza principesca. Postosi sulla via del rimpianto del passato, nei momenti di peggior malumore si spingeva assai lontano giù per questa china pericolosa: una volta, mentre inzuccherava la tazza di tè tesagli da Angelica, si accorse che stava invidiando le possibilità di quei tali Fabrizi Corbèra e Tancredi Falconeri di tre secoli prima che si sarebbero cavati la voglia di andare a letto con le Angeliche dei loro tempi senza dover passare davanti al parroco, noncuranti delle doti delle villane (che del resto non esistevano) e scaricati della necessità di costringere i loro rispettabili zii a danzar fra le nova per dire o tacere le cose appropriate.

L’impulso di lussuria atavica (che poi non era del tutto lussuria ma anche atteggiamento sensuale della pigrizia) fu brutale al punto da fare arrossire il civilizzatissimo gentiluomo cinquantenne, e l’animo di lui che, pur attraverso numerosi filtri, aveva finito con tingersi di rousseauiani scrupoli, si vergognò profondamente; dal che venne dedotto un ancor più acuto ribrezzo verso la congiuntura sociale nella quale era incappato.

La sensazione di trovarsi prigioniero di una situazione che evolvesse più rapidamente di quanto fosse previsto era particolarmente acuta quella mattina.

La sera prima infatti, la corriera che dentro la cassa giallina portava irregolarmente la scarsa posta di Donnafugata gli aveva recato una lettera di Tancredi.

Prima ancora di esser letta essa aveva proclamato la propria importarla scritta com’era su sontuosi foglietti di carta lucida e con calligrafia chiara e armoniosa.

Si rivelava subito come la “bella copia” di chissà quante bozze disordinate. Il Principe in essa non veniva chiamato “zione,” appellativo che gli era divenuto caro, ma “carissimo zio Fabrizio,” formula che possedeva molteplici meriti: quello di allontanare fin dall’inizio qualsiasi sospetto di celia, quello di far presentire l’importanza di ciò che sarebbe stato scritto in seguito, quello di permettere, all’occorrenza, di mostrare la lettera a chiunque ed anche quello di riallacciarsi ad antichissime tradizioni religiose che attribuivano un potere vincolatorio alla precisione del nome invocato.

Il “carissimo zio Fabrizio,” dunque, era informato che il suo “affezionatissimo edevotissimo nipote” era da tre mesi preda del più violento amore e che ne “i rischidella guerra” (leggi: passeggiate nel parco di Casetta) ne “le molte attrattive di unagrande città” (leggi: i vezzi della ballerina Schwarzwald) avevano sia pure unmomento potuto allontanare dalla sua mente e dal suo cuore l’immagine della 68

signorina Angelica Sedàra (qui una lunga processione di aggettivi volti ad esaltarela bellezza, la grazia, la virtù, l’intelletto dell’oggetto amato); attraverso nitidighirigori d’inchiostro e di sentimenti si diceva poi come il Tancredi stesso, coscientedella propria indegnità, avesse cercato di soffocare il proprio ardore (“lunghe mavane sono state le ore durante le quali o fra il chiasso di Napoli o fra l’austerità deimiei compagni d’arme ho cercato di reprimere i miei sentimenti”). Adesso peròl’amore aveva superato il ritegno, ed egli veniva a pregare l’amatissimo zio di volerea suo nome richiedere la mano della signorina Angelica al “suo stimabilissimopadre.” “Tu sai, zio, che io non posso offrire alla fanciulla amata null’altro all’infuoridel mio amore, del mio nome e della mia spada.” Dopo questa frase a propositodella quale occorre non dimenticare che allora ci si trovava in pieno meriggioromantico, Tancredi si abbandonava a lunghe considerazioni sulla opportunità,anzi sulla necessità che unioni tra famiglie come quella dei Falconeri e quella deiSedàra (una volta si spingeva fino a scrivere arditamente “casa Sedàra”) venisseroincoraggiate per l’apporto di sangue nuovo che esse recavano ai vecchi casati, e perl’azione di livellamento , dei ceti che era uno degli scopi dell’attuale movimentopolitico, in Italia. Questa fu la sola parte della lettera che don Fabrizio eleggessecon piacere, non soltanto perché essa confermava le sue previsioni e gli conferival’alloro di profeta, ma anche perché lo stile, riboccante di sottintesa ironia, glievocava magicamente la figura del nipote, la nasalità beffarda della voce vivace, gliocchi sprizzanti malizia azzurrina, i ghignetti cortesi. Quando poi Don Fabrizio siavvide che questo squarcio giacobino era esattamente racchiuso in un fogliocosicché, volendo, si poteva far leggere la lettera pur sottraendone il capitolettorivoluzionario, la sua ammirazione per il tatto di Tancredi raggiunse lo zenith. Dopoaver narrato brevemente le più recenti vicende guerresche ed espresso laconvinzione che entro un anno si sarebbe raggiunta Roma “predestinata capitaleaugusta dell’Italia nuova,” si ringraziava per le cure e l’affetto ricevuti in passato esi conchiudeva scusandosi per l’ardire avuto nell’affidare a lui l’incarico “dal qualedipende la mia felicità futura.” Poi si salutava (lui solo).

La prima lettura di questo straordinario brano di prosa diede un po’ di capogiro a Don Fabrizio. Egli notò di nuovo |la stupefacente accelerazione della storia; per esprimersi in |termini moderni diremo che egli venne a trovarsi nello stato d’animo di una persona che credendo, oggi, di esser salito a bordo di uno degli aerei paciocconi che fanno il cabotaggio fra Palermo e Napoli si accorge invece di trovarsi rinchiuso n un apparecchio supersonico e comprenda che sarà alla meta 69

prima di aver avuto il tempo di farsi il segno della croce. In secondo strato, quello affettuoso, della sua personalità si “fece strada ed egli si rallegrò della decisione di Tancredi che veniva ad assicurare la sua soddisfazione carnale, effimera, e la sua tranquillità economica, perenne. Dopo ancora però notò l’incredibile sicumera del giovanotto che postulava il proprio desiderio come già accettato da Angelica; ma alla fine tutti questi pensieri furono travolti da un grande senso di umiliazione per trovarsi costretto a trattare con Don Calogero di argomenti tanto intimi e anche da un fastidio per dovere l’indomani intavolare trattative delicate con l’uso di quelle precauzioni, di accorgimenti che ripugnavano alla sua natura presunta leonina.

Il contenuto della lettera venne comunicato da Don Fabrizio soltanto alla moglie, quando già erano a letto sotto il chiarore azzurrino del lumino a olio incappucciato nello schermo di vetro. Maria-Stella dapprima non disse parola ma si faceva una caterva di segni di croce; poi affermò che non con la destra ma con la sinistra avrebbe dovuto segnarsi; dopo questa espressione di somma sorpresa, si scatenarono i fulmini della sua eloquenza. Seduta nel letto, le dita di lei gualcivano il lenzuolo, mentre le parole rigavano l’atmosfera lunare della camera chiusa, rosse come torce iraconde. “Ed io che avevo sperato che sposasse Concetta! Un traditore è, come tutti i liberali della sua specie; prima ha tradito il Re, ora tradisce noi! Lui, con la sua faccia falsa, con le sue parole piene di miele e le azioni cariche di veleno! Ecco che cosa succede quando si porta nella casa gente che non è tutta del vostro sangue!” Qui lasciò irrompere la carica di corazzieri delle scenate familiari: “Io lo avevo sempre detto! ma nessuno mi ascolta. Non ho mai potuto soffrirlo quel bellimbusto. Tu solo avevi perduto la testa per lui!” In realtà anche lei era stata soggiogata dalle moine di Tancredi; anch’essa lo amava ancora; ma la voluttà di gridare “la colpa è tua!” essendo la più forte che creatura umana possa godere, tutte le verità e tutti i sentimenti venivano travolti. “E adesso ha anche la faccia tosta di incaricare tè, suo zio, Principe di Salina e padrone suo cento volte, padre della creatura che ha ingannato di fare le sue indegne richieste a quel farabutto, padre di quella sgualdrina! Ma tu non lo devi fare, Fabrizio, non lo devi fare, non lo farai, non lo devi fare!” La voce diventava acuta, il corpo cominciava a irrigidirsi. Don Fabrizio ancora coricato sul dorso sogguardò di lato per assicurarsi che la valeriana fosse sul cassettone. La bottiglia era li ed anche il cucchiaio d’argento posato di traverso sul turacciolo; nella semioscurità glauca della camera brillavano come 70

un faro rassicurante eretto contro le tempeste isteriche. Un momento volle alzarsi e prenderli; però si accontentò di mettersi a sedere anche lui; così riacquistò una parte di prestigio. “Stelluccia, non dire troppe sciocchezze; non sai quel che dici.

Angelica non è una sgualdrina; lo diventerà forse, ma per ora è una ragazza come tutte, più bella delle altre e forse anche un tantino innamorata di Tancredi, come tutti. Soldi, intanto, ne avrà; soldi nostri in gran parte ma amministrati sin troppo bene da don Calogero; e Tancredi di questo ha gran bisogno: è un signore, è ambizioso, ha le mani bucate. A Concetta non aveva mai detto nulla, anzi è lei che da quando siamo arrivati qui lo trattava come un cane. E poi non è un traditore: segue i tempi, ecco tutto, in politica come nella vita privata, del resto è il più caro giovane che io conosca; e tu lo sai quanto me, Stelluccia mia.”

Cinque enormi dita sfiorarono la minuscola scatola cranica di lei. Essa singhiozzava adesso; aveva avuto il buon senso di bere un sorso d’acqua e il fuoco dell’ira si era mutato in accoramento. Don Fabrizio cominciò a sperare che non sarebbe stato necessario di uscire dal letto tiepido, di affrontare a piedi nudi una traversata della stanza già freschetta. Per esser sicuro della calma futura si rivesti di falsa furia: “E poi non voglio grida in casa mia, nella mia camera, nel mio letto!

Niente di questi ‘farai’ e ‘non farai’! Decido io; ho già deciso da quando tu non tè lo sognavi neppure. E basta!”

L’odiatore delle grida urlava lui stesso con quanto fiato capiva nel torace smisurato. Credendo avere un tavolo dinanzi a sé menò un gran pugno sul proprio ginocchio, si fece male e si calmò anche lui.

La moglie era spaurita e guaiolava basso come un cucciolo minacciato.

“Dormiamo ora. Domani vado a caccia e dovrò alzarmi presto. Basta! Quel che è deciso è deciso. Buona notte, Stelluccia.” Baciò la moglie, in fronte prima, segno di riconciliazione, in bocca poi, segno di amore. Si ridistese, si voltò dalla parte del muro. Sulla seta della parete l’ombra sua coricata si disegnava come il profilo di una giogaia montana su un orizzonte ceruleo.

Stelluccia anch’essa si rimise a posto, e mentre la sua gamba destra sfiorava quella sinistra del Principe, essa si sentì tutta consolata e orgogliosa di aver per marito un uomo tanto energico e fiero. Che importava Tancredi... ed anche Concetta...

Queste marce sul filo del rasoio erano sospese del tutto per il momento, insieme agli altri pensieri, nell’arcaicità odorosa della campagna, se così potevano chiamarsi i luoghi nei quali si trovava così spesso a cacciare. Nel termine 71

“campagna” è implicito un senso di terra trasformata dal lavoro: la boscaglia invece, aggrappata alle pendici di un colle, si trovava nell’identico stato d’intrico aromatico nel quale la avevano trovata Fenici, Dori e Ioni quando sbarcarono in Sicilia, quest’America dell’antichità. Don Fabrizio e Tumeo salivano, scendevano, sdrucciolavano erano graffiati dalle spine tale quale come un Archedamo o un Filostrato qualunqui erano stati stancati e graffiati venticinque secoli prima; vedevano le stesse piante, un sudore altrettanto appiccicaticcio bagnava i loro abiti, lo stesso indifferente vento senza soste, marino, muoveva i mirti e le ginestre, spandeva l’odore del timo. Le improvvise soste pensose dei cani, la loro patetica tensione in attesa della preda era identica a quella dei giorni in cui per la caccia s’invocava” Aneroide. Ridotta a questi elementi essenziali, col volto lavato dal belletto delle preoccupazioni, la vita appariva sotto un aspetto tollerabile.

Poco prima di giungere in cima al colle, quella mattina, Arguto e Teresina iniziarono la danza religiosa dei cani che hanno presentito la selvaggina: strisciamenti, irrigidimenti, caute alzate di zampe, latrati repressi: dopo pochi minuti un culetto di peli bigi guizzò fra le erbe, due colpi quasi simultanei posero termine alla silenziosa attesa; Arguto depose ai piedi del Principe una bestiola agonizzante. Era un coniglio selvatico: la dimessa casacca color di creta non era bastata a salvarlo. Orrendi squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fabrizio si vide fissato da due grandi occhi neri che, invasi rapidamente da un velo glauco, lo guardavano senza rimprovero ma che erano carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto l’ordinamento delle cose; le orecchie vellutate erano già fredde, le zampetto vigorose si contraevano in ritmo, simbolo sopravvissuto di una inutile fuga; l’animale moriva torturato da un’ansiosa speranza di salvezza, immaginando di poter ancora cavarsela quando di già era ghermito, proprio come tanti uomini; mentre i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero, la bestiola ebbe un ultimo fremito, e morì; ma Don Fabrizio e Tumeo avevano avuto il loro passatempo; il primo anzi aveva provato, in aggiunta al piacere di uccidere, anche quello rassicurante di compatire.

Quando i cacciatori giunsero in cima al monte, di fra i tamerici e i sugheri radi apparve l’aspetto vero della Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche ed aranceti non sono che fronzoli trascurabili. L’aspetto di un’aridità ondulante all’infinito, in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in una fase delirante della creazione; un mare che si fosse pietrificato in un attimo in cui un cambiamento di 72

vento avesse reso dementi le onde. Donnafugata, rannicchiata, si nascondeva in una piega anonima del terreno, e non si vedeva un’anima: sparuti filari di viti denunziavano soli un qualche passaggio di uomini. Oltre le colline, da una parte, la macchia indaco del mare, ancor più duro e infecondo della terra. Il vento lieve passava su tutto, universalizzava odori di stereo, di carogne e di salvie, cancellava, elideva, ricomponeva ogni cosa nel proprio trascorrere noncurante; prosciugava le goccioline di sangue che erano l’unico lascito del coniglio, molto più in là andava ad agitare la capelliera di Garibaldi e dopo ancora cacciava il pulviscolo negli occhi dei soldati napoletani che rafforzavano in fretta i bastioni di Gaeta, illusi da una speranza che era vana quanto lo era stata la fuga stramazzata della selvaggina.

Nella circoscritta ombra dei sugheri il Principe e l’organista si riposarono: bevevano il vino tiepido delle borracce di legno, accompagnavano un pollo arrosto venuto fuori dal carniere di Don Fabrizio con i soavissimi “muffoletti” cosparsi di farina cruda che don Ciccio aveva portato con sé; degustavano la dolce “insòlia”

quell’uva tanto brutta da vedere quanto buona da mangiare; saziarono con larghe fette di pane la fame dei bracchi che stavano di fronte a loro impassibili come uscieri concentrati nella riscossione dei propri crediti. Sotto il sole costituzionale Don Fabrizio e don Ciccio furono poi sul punto di addormentarsi.

Ma se una fucilata aveva ucciso il coniglio, se i cannoni rigati di Cialdini scoraggiavano già i soldati napoletani, se il calore meridiano addormentava gli uomini, niente invece poteva fermare le formiche. Richiamate da alcuni chicchi di uva stantia che don Ciccio aveva risputato via, le loro fitte schiere accorrevano, esaltate dal desiderio di annettersi quel po’ di marciume intriso di saliva di organista. Si facevano avanti colme di baldanza, in disordine ma risolute: gruppetti di tre o quattro sostavano un po’ a parlottare e, certo esaltavano la gloria secolare e la prosperità futura del formicaio n. 2 sotto il sughero n. 4 della cima di monte Morco; poi insieme alle altre riprendevano la marcia verso il sicuro avvenire; i dorsi lucidi di quegli insetti vibravano di entusiasmo e, senza dubbio, al di sopra delle loro file, trasvolavano le note di un inno.

Come conseguenza di alcune associazioni d’idee che non sarebbe opportuno precisare; l’affaccendarsi delle formiche impedì il sonno a Don Fabrizio e gli fece ricordare i giorni del plebiscito quali egli li aveva vissuti poco tempo prima a Donnafugata stessa; oltre ad un senso di sorpresa quelle giornate gli avevano lasciato parecchi enigmi da sciogliere; adesso al cospetto di questa natura che, 73

tranne le formiche, se le infischiava evidentemente, era forse possibile cercare la Suzione di uno di essi. I cani dormivano distesi e appiattiti come figurine ritagliate, il coniglietto appeso con la testa in giù ad un ramo pendeva in diagonale sotto la spinta continua del vento, ma Tumeo, aiutato in questo dalla sua pipa, riusciva ancora a tenere gli occhi aperti.

“E voi, don Ciccio, come avete votato il giorno Ventuno?”

Il pover’uomo sussultò. Preso alla sprovvista, in un momento nel quale si trovava fuori del recinto di siepi precauzionali nel quale si chiudeva di solito come ogni suo compaesano, esitava, non sapendo come rispondere.

Il Principe scambiò per timore quel che era soltanto sorpresa e si irritò.

“Insomma, di chi avete paura? Qui non ci siamo che noi, il vento e i cani.”

La lista dei testimoni rassicuranti non era, a dir vero, felice; il vento è chiacchierone per definizione, il Principe era per metà siciliano. Di assoluta fiducia non c’erano che i cani e soltanto in quanto sprovvisti di linguaggio articolato. Don Ciccio però si era ripreso e la astuzia paesana gli aveva suggerito la risposta giusta, cioè nulla. “Scusate, Eccellenza, la vostra è una domanda inutile. Sapete già che a Donnafugata tutti hanno votato per il ‘sì’.”

Questo Don Fabrizio lo sapeva, infatti; e appunto per ciò la risposta non fece che trasformare un enigma piccolino in un enigma storico. Prima della votazione molte persone erano venute da lui a chiedere consiglio; tutte sinceramente erano state esortate a votare in modo affermativo. Don Fabrizio infatti non concepiva neppure come si potesse fare altrimenti, sia di fronte al fatto compiuto come rispetto alla teatrale banalità dell’atto, così di fronte alla necessità storica come anche in considerazione dei guai nei quali quelle umili persone sarebbero forse capitate quando il loro atteggiamento negativo fosse stato scoperto. Si era accorto però che molti non erano stati convinti dalle sue parole. Era entrato ih gioco il machiavellismo incolto dei Siciliani che tanto spesso induceva, in quei tempi, questa gente, generosa per definizione, ad erigere impalcature complesse fondate su fragilissime basi. Come dei clinici abilissimi nelle cure ma che si basassero su analisi del sangue e delle orine radicalmente erronee, e per far correggere le quali fossero troppo pigri, i Siciliani (di allora) finivano con l’uccidere l’ammalato, cioè loro stessi, proprio in seguito alla raffinatissima astuzia che non era quasi mai appoggiata a una reale conoscenza dei problemi o, per lo meno, degli interlocutori. Alcuni fra questi che avevano compiuto il viaggio ad limino Gattopardorum stimavano cosa impossibile che un Principe di Salina potesse 74

votare in favore della Rivoluzione (così in quel remoto paese venivano ancora designati i recenti mutamenti) e interpretavano i ragionamenti di lui come uscite ironiche volte a ottenere un risultato pratico opposto a quello suggerito a parole; questi pellegrini (ed erano i migliori) erano usciti dal suo studio ammiccando per quanto il rispetto lo permettesse loro, orgogliosi di aver penetrato il senso delle parole principesche e fregandosi le mani per congratularsi della propria perspicacia proprio nell’istante in cui questa si era ecclissata. Altri invece dopo averlo ascoltato si allontanavano contristati, convinti che lui fosse un transfuga o un mentecatto e più che mai decisi a non dargli retta e ad obbedire invece al proverbio millenario che esorta a preferire un male già noto a un bene non sperimentato; questi erano riluttanti a ratificare la nuova realtà nazionale anche per ragioni personali, sia per fede religiosa, sia per aver ricevuto favori dal passato regime e non aver poi saputo inserirsi nel nuovo con sufficiente sveltezza; sia infine perché durante il trambusto della liberazione erano loro scomparsi qualche paio di capponi e alcune misure di fave ed erano invece spuntate qualche paia di corna, o liberamente volontarie come le truppe garibaldine o di leva forzosa come i reggimenti borbonici. Per una diecina almeno di persone egli aveva avuta l’impressione penosa ma netta che avrebbero votato “no”, una minoranza esigua certamente ma non trascurabile nel piccolo elettorato donnafugasco. Ove poi si voglia considerare che le persone venute da lui rappresentavano soltanto il fior fiore del paese e che qualche non convinto dovesse pur esserci fra quelle centinaia di elettori che non si erano neppur sognati di farsi vedere a palazzo, il Principe aveva calcolato che la compattezza affermativa di Donnafugata sarebbe stata variegata da una trentina di voti negativi.

Il giorno del Plebiscito era stato ventoso e coperto, e per le strade del paese si erano visti aggirarsi stanchi gruppetti di giovanotti con un cartellino recante tanto di “sì” infilato nel nastro del cappello. Fra le cartacce e i rifiuti sollevati dai turbini di vento, cantavano alcune strofe della “Bella Gigogin” trasformate in nenie arabe, sorte cui deve soggiacere qualsiasi melodietta vivace che sia cantata in Sicilia. Si erano anche viste due o tre “facce forestiere” (cioè di Girgenti) insediate nella taverna di zzu Menico dove decantavano le “magnifiche sorti e progressive” di una rinnovata Sicilia unita alla risorta Italia; alcuni contadini stavano muti ad ascoltarli, abbrutiti com’erano, in parti eguali, da un immoderato impiego dello

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