Ad un tratto ebbe freddo. L’acqua che aveva addosso evaporava, e la pelle delle braccia era gelida. Le punte delle dita si raggrinzivano. E che quantità di penose 52
conversazioni in vista. Bisognava evitare... “Adesso debbo andare a vestirmi, Padre. Dite a Concetta, vi prego, che non sono affatto seccato ma che di tutto questo riparleremo quando saremo sicuri che non si tratta soltanto di fantasie di una ragazza romantica. A Presto, Padre.”
Si alzò e passò nella stanza di toletta. Dalla Madre Chiesa vicina giungevano tetri i rintocchi di un “mortorio.” Qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana, cui era bancata la forza di aspettare la pioggia. “Beato lui” pensò il Principe mentre si passava la lozione sulle basette. “Beato lui, se ne strafotte ora di figlie, doti e carriere politiche.” Questa effimera identificazione con un defunto ignoto fu sufficiente a calmarlo. “Finché c’è morte c’è speranza” pensò; poi si trovò ridicolo per essersi posto in un tale stato di depressione perché una sua figlia voleva sposarsi. “Ce sont leurs affaires, après tout” pensò in francese come faceva quando le sue cogitazioni si sforzavano di essere sbarazzine. Sedette su una poltrona e si appisolò.
Dopo un’ora si svegliò rinfrescato e discese in giardino. Il sole già calava e i suoi raggi, smessa la prepotenza, illuminavano di luce cortese le araucarie, i pini, i robusti lecci che facevano la gloria del posto. Il viale principale scendeva lento fra alte siepi di alloro incornicianti anonimi busti di dee senza naso; e da in fondo si udiva la dolce pioggia degli zampilli che ricadevano nella fontana di Anfitrite. Vi si diresse, svelto, avido di rivedere. Soffiate via dalle conche dei Tritoni, dalle conchiglie delle Naiadi, dalle narici dei mostri marini, le acque erompevano in filamenti sottili, picchiettavano con pungente brusio la superficie verdastra del bacino, suscitavano rimbalzi, bolle, spume, ondulazioni, fremiti, gorghi ridenti; dall’intera fontana, dalle acque tiepide, dalle pietre rivestite di muschi vellutati emanava la promessa di un piacere che non avrebbe mai potuto volgersi in dolore. Su di un isolotto al centro del bacino rotondo, modellato da uno scalpello inesperto ma sensuale, un Nettuno spiccio e sorridente abbrancava un’Anfitrite vogliosa: l’ombelico di lei inumidito dagli spruzzi, brillava al sole, nido, fra poco, di baci nascosti nell’ombria subacquea. Don Fabrizio si fermò, guardò, ricordò, rimpianse. Rimase a lungo.
“Zione, vieni a guardare le pesche forestiere. Sono venute benissimo; e lascia stare queste indecenze che non sono fatte per uomini della tua età.”
L’affettuosa malizia della voce di Tancredi lo distolse dall’intorpidimento voluttuoso. Non lo aveva inteso venire, era come un gatto. Per la prima volta gli 53
sembrò che un senso di rancore lo pungesse alla vista del ragazzo; quel bellimbusto con il vitino smilzo sotto l’abito bleu scuro era stata la causa che lui avesse tanto acerbamente pensato alla morte due ore fa. Poi si rese conto che rancore non era, soltanto un travestimento del timore: aveva paura che gli parlasse di Concetta. Ma l’abbordo, il tono del nipote non era quello di chi si prepari a far confidenze amorose a un uomo come lui. Si calmò: l’occhio del nipote lo guardava con l’affetto ironico che la gioventù concede alle persone anziane. “Possono permettersi di fare un po’ i gentili con noi, tanto sono sicuri che il giorno dopo dei nostri funerali saranno liberi.” Andarono a guardare le
“pesche forestiere.” L’innesto dei gettoni tedeschi, fatto due anni prima, era riuscito perfettamente; le pesche erano poche, una dozzina sui due alberi innestati, ma erano grandi, vellutate e fragranti; giallognole con due sfumature rosee sulle guance sembravano testoline di cinesine pudiche. Il Principe le palpò con la delicatezza famosa dei polpastrelli. “Mi sembra che siano proprio a punto.
Peccato che siano troppo poche per servirle stasera. Domani le faremo cogliere e vedremo come sono.” “Vedi! così mi piaci, zio; così, nella parte dell’agricola pius che apprezza e pregusta i frutti del proprio lavoro; e non come ti ho trovato poc’anzi mentre contemplavi nudità scandalose.” “Eppure, Tancredi, anche queste pesche sono prodotte da amori, da congiungimenti.” “Certo, ma da amori legali, promossi da tè, padrone e dal giardiniere, notaio; da amori meditati, fruttuosi. In quanto a quelli li” disse e accennava alla fontana della quale si percepiva il fremito al di là di un sipario di lecci “credi davvero che siano passati dinanzi al parroco?” L’abbrivio della conversazione diventava pericoloso e Don Fabrizio si affrettò a cambiar rotta.
Risalendo verso casa, Tancredi narrò quanto aveva appreso della cronaca galante di Donnafugata: Menica la figlia di campiere Saverio, si era lasciata ingravidare dal fidanzato; il matrimonio adesso si doveva compiere in fretta.
Colicchio, poi, era sfuggito per un pelo alla fucilata di un marito scontento. “Ma come fai a sapere queste cose?” “Le so, zione, le so. A me raccontano tutto; sanno che io compatisco.”
Giunti in cima alla scala che con svolte lente e lunghe soste di pianerottoli saliva dal giardino al palazzo, videro l’orizzonte serale al di là degli alberi: dalla parte del mare immani nuvoloni color d’inchiostro scalavano il cielo. Forse la collera di Dio si era saziata, e la maledizione annuale della Sicilia aveva avuto termine? In quel momento quei nuvoloni carichi di sollievo erano guardati da 54
migliaia di altri occhi, avvertiti da miliardi di semi nel grembo della terra.
“Speriamo che l’estate sia finita, che venga finalmente la pioggia” disse Don Fabrizio; e con queste parole l’altero nobiluomo cui, personalmente, le piogge avrebbero soltanto recato fastidio, si rivelava fratello dei suoi rozzi villani.
Il Principe aveva sempre tenuto a che il primo pranzo a Donnafugata avesse un carattere solenne: i figlioli sotto i quindici anni erano esclusi dalla tavola, venivano serviti vini francesi, vi era il poncio alla romana prima dell’arrosto; e i domestici erano in cipria e polpe. Su di un solo particolare transigeva: non si metteva in abito da sera per non imbarazzare gli ospiti che, evidentemente, non ne possedevano. Quella sera, nel salone detto “di Leopoldo” la famiglia Salina aspettava gli ultimi invitati. Da sotto i paralumi di merletto i lumi a petrolio spandevano una gialla luce circoscritta; gli smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati non erano che delle immagini imponenti e vaghe come il loro ricordo.
Don Onofrio era già arrivato con la moglie e così pure l’Arciprete che, con la mantellina pieghettata giù dalle spalle in segno di gala, parlava con la Principessa delle beghe del Collegio di Maria. Era giunto anche don Ciccio l’organista (Teresina era di già stata legata al piede di un tavolo del riposto) che rievocava insieme al Principe favolosi tiri riusciti nelle forre della Dragonara. Tutto era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliolo, fece nel salotto una irruzione scandalosa: “Papà, don Calogero sta salendo le scale. È in frack!”
Tancredi valutò l’importanza della notizia un secondo prima degli altri; era intento ad ammaliare la moglie di don Onofrio, ma quando udì la fatale parola non poté trattenersi e scoppiò in una risata convulsa. Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala. Quello era stato un avvenimento previsto, non solo, ma anche lontano e invisibile. Adesso, sensibile com’egli era, ai presagi e ai simboli, contemplava la Rivoluzione stessa in quel cravattino bianco e in quelle due code nere che salivano le scale di casa sua. Non soltanto lui, il Principe, non era più il massimo proprietario di Donnafugata, ma si vedeva anche costretto a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato che si presentava, a buon diritto, in abito da sera.
Il suo sconforto fu grande e durava ancora mentre meccanicamente si avanzava verso la porta per ricevere l’ospite. Quando lo vide, però, le sue pene furono alquanto alleviate. Perfettamente adeguato quale manifestazione politica, si poteva però affermare che, come riuscita sartoriale, il frack di don Calogero era 55
una catastrofe. Il panno era finissimo, il modello recente, ma il taglio era semplicemente mostruoso. Il Verbo londinese si era assai malamente incarnato in un artigiano girgentano cui la tenace avarizia di don Calogero si era rivolta. Le punte delle due falde si ergevano verso il ciclo in muta supplica, il vasto colletto era informe e, per quanto doloroso è necessario dirlo, i piedi del sindaco erano calzati da stivaletti abbottonati.
Don Calogero si avanzava con la mano tesa e inguantata verso la Principessa:
“Mia figlia chiede scusa; non era ancora del tutto pronta. Vostra Eccellenza sa come sono le femmine in queste occasioni” aggiunse esprimendo in termini quasi vernacoli un pensiero di levità parigina. “Ma sarà qui fra un attimo; da casa nostra sono due passi, come sapete.”
L’attimo durò cinque minuti; poi la porta si apri ed entrò Angelica. La prima impressione fu di abbagliata sorpresa. I Salina rimasero col fiato in gola; Tancredi senti addirittura come gli pulsassero le vene delle tempie. Sotto l’impeto della sua bellezza gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzandoli, i non pochi difetti che questa bellezza aveva; molte dovevano essere le persone che di questo lavorio critico non furono capaci mai. Era alta e ben fatta, in base a generosi criteri; la carnagione sua doveva possedere il sapore della crema fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello delle fragole. Sotto la massa dei capelli color di notte avvolti di soavi ondulazioni, gli occhi verdi albeggiavano, immoti come quelli delle statue e, com’essi, un po’ crudeli. Procedeva lenta, facendo roteare intorno a sé l’ampia gonna bianca e recava nella persona la pacatezza, l’invincibilità della donna di sicura bellezza. Molti mesi dopo soltanto si seppe che al momento di quel suo ingresso trionfale essa era stata sul punto di svenire per l’ansia.
Non si curò di Don Fabrizio che accorreva verso di lei, oltrepassò Tancredi che sorrideva trasognato; dinanzi alla poltrona della Principessa la sua groppa stupenda disegnò un lieve inchino e questa forma di omaggio inconsueta in Sicilia le conferì un istante il fascino dell’esotismo in aggiunta a quello della bellezza paesana. “Angelica mia, da quanto tempo non ti avevo vista. Sei molto cambiata; e non in peggio.” La Principessa non credeva ai propri occhi; ricordava la tredicenne poco curata e bruttina di quattro anni prima e non riusciva a farne combaciare l’immagine con quella dell’adolescente voluttuosa che le stava davanti. Il Principe non aveva ricordi da riordinare; aveva soltanto previsioni da capovolgere; il colpo inferto al suo orgoglio dal frack del padre si ripeteva adesso 56
nell’aspetto della figlia; ma questa volta non si trattava di panno nero ma di matta pelle lattea; e tagliata bene, come bene! Vecchio cavallo da battaglia com’era, lo squillo della grazia femminile lo trovò pronto ed egli si rivolse alla ragazza con tutto il grazioso ossequio che avrebbe adoperato parlando alla duchessa di Bovino o alla principessa di Lampedusa. “E’ una fortuna per noi, signorina Angelica, di avere accolto un fiore tanto bello nella nostra casa; e spero che avremo il piacere di rivedervelo spesso.” “Grazie, principe; vedo che la Sua bontà per me è uguale a quella che ha sempre dimostrato al mio caro papa.” La voce era bella, bassa di tono, un po’ troppo sorvegliata forse; il collegio fiorentino aveva cancellato lo strascichio dell’accento girgentano; di siciliano, nelle parole, rimaneva soltanto l’asprezza delle consonanti che del resto si armonizzava benissimo con la sua venustà chiara ma greve. A Firenze anche le avevano appreso ad omettere l’‘Eccellenza.’
Rincresce di poter dir poco di Tancredi: dopo che si fu fatto presentare da don Calogero, dopo aver a stento resistito al desiderio di baciare la mano di Angelica, dopo aver manovrato il faro del suo occhio azzurro, era rimasto a chiacchierare con la signora Rotolo, e non capiva nulla di quanto udiva. Padre Pirrone in un angolo buio se ne stava a meditare e pensava alla Sacra Scrittura che quella sera gli si presentava soltanto come una successione di Dalile, Giuditte ed Ester.
La porta centrale del salotto si apri e “Prann’ pronn’“ declamò il maestro di casa; suoni misteriosi mediante i quali si annunziava che il pranzo era pronto; e il gruppo eterogeneo si avviò verso la stanza da pranzo.
Il Principe aveva troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani in un paese dell’interno, un pranzo che si iniziasse con un potage, e infrangeva tanto più facilmente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti. Ma le informazioni sulla barbarica usanza forestiera di servire una brodaglia come primo piatto erano giunte con troppa insistenza ai maggiorenti di Donnafugata perché un residuo timore non palpitasse in loro all’inizio di ognuno di quei pranzi solenni. Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti persone si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito.
Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto 57
acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose.
Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.
L’inizio del pasto fu, come sempre avviene in provincia, raccolto. L’Arciprete si fece il segno della croce e si lanciò a capofitto senza dir parola; l’organista assorbiva la succolenza . del cibo ad occhi chiusi: era grato al Creatore che la propria abilità nel fulminare lepri e beccacce gli procurasse talvolta simili estasi, e pensava che col solo prezzo di uno di quei timballi lui e Teresina avrebbero campato un mese; Angelica, la bella Angelica, dimenticò i migliaccini toscani e parte delle proprie buone maniere e divorava con l’appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che la forchetta tenuta a metà dell’impugnatura le conferiva.
Tancredi, tentando di unire la galanteria alla gola, si provava a vagheggiare il sapore dei baci di Angelica, sua vicina, nel gusto delle forchettate aromatiche, ma si accorse che l’esperimento era disgustoso e lo sospese, riservandosi di risuscitare queste fantasie al momento del dolce; Don Fabrizio, benché rapito nella contemplazione di Angelica che gli stava di fronte, ebbe modo di notare, unico a tavola che la demi-glacé era troppo carica e si ripromise di dirlo al cuoco l’indomani; gli altri mangiavano senza pensare a nulla e non sapevano che il cibo sembrava loro tanto squisito anche perché un’aura sensuale era penetrata nella casa.
Tutti erano tranquilli e contenti. Tutti, tranne Concetta. Essa aveva si abbracciato e baciato Angelica, aveva anche respinto il “lei” che quella le dava e preteso il “tu” della loro infanzia ma lì, sotto il corpetto azzurro pallido, il cuore le veniva attanagliato; in lei si ridestava il violento sangue Salina e sotto la fronte liscia si ordivano fantasie di venefici. Tancredi sedeva fra lei ed Angelica e con la compitezza puntigliosa di chi si sente in colpa divideva equamente sguardi, complimenti e facezie fra le sue due vicine; ma Concetta sentiva, animalescamente sentiva, la corrente di desiderio che scorreva dal cugino verso 58
l’intrusa, e il cipiglietto di lei fra la fronte e il naso s’inaspriva; desiderava uccidere quanto desiderava morire. Poiché era donna si aggrappava ai particolari: notava la grazia volgare del mignolo destro di Angelica levato in alto mentre la mano teneva il bicchiere; notava un neo rossastro sulla pelle del collo, notava il tentativo represso a metà di togliere con la mano un pezzette di cibo rimasto fra i denti bianchissimi; notava ancor più vivacemente una cena durezza di spirito; ed a questi particolari che in realtà erano insignificanti perché bruciati dal fascino sensuale si aggrappava fiduciosa e disperata come un muratore precipitato si aggrappa a una grondaia di piombo; sperava che Tancredi li notasse anch’egli e si disgustasse dinanzi a queste tracce palesi della differenza di educazione. Ma Tancredi li aveva di già notati e ahimè! senza alcun risultato. Si lasciava trascinare dallo stimolo fisico che la femmina bellissima procurava alla sua gioventù focosa ed anche dalla eccitazione diciamo così contabile che la ragazza ricca suscitava nel suo cervello di uomo ambizioso e povero.
Alla fine del pranzo la conversazione era generale: don Calogero raccontava in pessima lingua ma con intuito sagace alcuni retroscena della conquista garibaldina della provincia; il notaio parlava alla Principessa del villino “fuori città” (cioè a cento metri da Donnafugata) che si faceva costruire; Angelica eccitata dalle luci, dal cibo, dallo chablis, dall’evidente consenso che essa trovava in tutti i maschi attorno alla tavola, aveva chiesto a Tancredi di narrarle alcuni episodi dei “gloriosi fatti d’arme” di Palermo; aveva posato un gomito sulla tovaglia e poggiato la guancia sulla mano; il sangue le affluiva alle gote ed essa era
pericolosamente
gradevole
da
guardare;
l’arabesco