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“Ma debbo dire che il mio cuore è con loro, con i ragazzi arditi.” Si alzò per lasciare entrare Bendicò che faceva tremare la porta sotto il suo impeto amichevole. Si risiedé. “Vostra Eccellenza lo sa; non se ne può più: perquisizioni, interrogatori, scartoffie per ogni cosa, uno sbirro a ogni cantone; un galantuomo non è libero di badare ai fatti propri. Dopo, invece, avremo la libertà, la sicurezza, tasse più leggere, la facilità, il commercio. Tutti staremo meglio: i preti soli ci perderanno. Il Signore protegge i poveretti come me, non loro.” Don Fabrizio sorrideva: sapeva che era proprio lui, Russo, che attraverso interposta persona desiderava comprare Argivocale. ‘Ci saranno giorni di schioppettate e di trambusti, ma villa salina sarà sicura come una rocca; Vostra Eccellenza è il nostro padre, ed io ho tanti amici qui. I Piemontesi entreranno solo col cappello in mano per riverire le Eccellenze Vostre. E poi lo zio e il tutore di don Tancredi!” Il 29

Principe si sentì umiliato: adesso si vedeva disceso al rango di protetto degli amici di Russo; il suo solo merito, a quanto sembrava, era di esser zio di quel moccioso di Tancredi. “Fra una settimana andrà a finire che avrò la vita salva perché tengo in casa Bendicò.” Stropicciava un orecchio del cane fra le dita con tanta forza che la povera bestia guaiolava, onorata, senza dubbio, ma sofferente.

Poco dopo alcune parole di Russo gli diedero sollievo. “Tutto sarà meglio, mi creda, Eccellenza. Gli uomini onesti e abili potranno farsi avanti. Il resto sarà come prima.” Questa gente, questi liberalucoli di campagna volevano soltanto avere il modo di approfittare più facilmente. Punto e basta. Le rondini avrebbero preso il volo più presto, ecco tutto. Del resto, ce n’erano ancora tante nel nido.

“Forse hai ragione tu. Chi lo sa?” Adesso aveva penetrato tutti i riposti sensi: le parole enigmatiche di Tancredi, quelle enfatiche di Ferrara, quelle false ma rivelarne di Russo, avevano ceduto il loro rassicurante segreto. Molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca.

Questo era il paese degli accomodamenti, non c’era la furia francese; anche in Francia d’altronde, se si eccettua il Giugno del Quarantotto, quando mai era successo qualcosa di serio? Aveva voglia di dire a Russo, ma la innata cortesia lo trattenne: “Ho capito benissimo: voi non volete distruggere noi, i vostri ‘padri’; volete soltanto prendere il nostro posto. Con dolcezza, con buone maniere, mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. È così? Tuo nipote, caro Russo, crederà sinceramente di essere barone; e tu diventerai, che so io, il discendente di un boiardo di Moscovia, mercé il tuo nome, anziché il figlio di un cafone di pelo rosso, come proprio quel nome rivela. Tua figlia già prima avrà sposato uno di noi, magari anche questo stesso Tancredi, con i suoi occhi azzurri e le sue mani dinoccolate. Del resto è bella, e una volta che avrà imparato a lavarsi... ‘Perché tutto resti com’è’. Come è, nel fondo: soltanto una lenta sostituzione di ceti. Le mie chiavi dorate di gentiluomo di camera, il cordone ciliegia di S. Gennaro dovranno restare nel cassetto, e poi finiranno in una vetrina del figlio di Paolo, ma i Salina rimarranno i Salina; e magari qualche compenso lo avranno: il Senato di Sardegna, il nastro pistacchio di S. Maurizio.

Ciondoli questi, ciondoli quelli.”

Si alzò: “Pietro, parla con i tuoi amici. Qui ci sono tante ragazze, bisogna che non si spaventino.” “Ero sicuro, Eccellenza; ho di già parlato: villa Salina sarà tranquilla come una badia.” E sorrise affettuosamente ironico.

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Don Fabrizio uscì seguito da Bendicò; voleva salire a trovare padre Pirrone ma lo sguardo implorante del cane lo costrinse invece ad andare in giardino: Bendicò infatti conservava esaltati ricordi del bei lavoro della sera prima e voleva compirlo a regola d’arte. Il giardino era ancor più odoroso di ieri, e sotto il sole mattutino l’oro della gaggia stonava meno. “Ma i Sovrani, i Sovrani nostri? E la legittimità dove va a finire?” Il pensiero lo turbò un momento, non si poteva eludere; per un attimo fu come Màlvica. Questi Ferdinandi, questi Franceschi tanto disprezzati, gli apparvero come dei fratelli maggiori, fiduciosi, affettuosi, giusti, dei veri Re. Ma le forze di difesa della calma interiore, tanto vigilanti nel Principe, accorrevano già in aiuto, con la moschetteria del giure, con l’artiglieria della storia. “E la Francia?

Non è forse illegittimo Napoleone III? E non vivono forse felici i Francesi sotto questo Imperatore illuminato che li condurrà certo ai più alti destini? Del resto intendiamoci bene. Carlo III lui era forse perfettamente a posto? Anche la battaglia di Bitonto fu una specie di quella battaglia di Corleone, o di Bisacquino o di che so io nella quale i Piemontesi prenderanno a scoppole i nostri; una di quelle battaglie combattute affinché tutto rimanga come è. Del resto neppure Giove era il legittimo Re dell’Olimpo.”

Era ovvio che il colpo di stato di Giove contro Saturno dovesse richiamare le stelle alla sua memoria.

Lasciò Bendicò affannato dal proprio dinamismo, risali la scala, traversò i saloninei quali le figlie parlavano delle amiche del Salvatore (al suo passaggio la setadelle loro sottane frusciò mentre esse si alzavano), salì una lunga scaletta e sboccònella grande luce azzurra dell’Osservatorio. Padre Pirrone, con aspetto sereno delsacerdote che ha detto la messa e preso caffè forte con i biscotti di Monreale,sedeva ingolfato nelle formule algebriche. I due telescopi e i tre cannocchiali,accecati dal sole, stavano accucciati buoni buoni, col tappo ero sull’oculare, bestiebene avvezze che sapevano come il loro pasto venisse dato solo la sera.

La vista del Principe sottrasse il Padre ai suoi calcoli e gli portò alla mente la brutta figura della sera prima. Si alzò, salutò ossequioso ma non poté fare a meno di dire: “Vostra eccellenza viene a confessarsi?” Don Fabrizio, cui il sonno e conversazioni della mattinata avevano fatto dimenticare episodio notturno, si stupì. “Confessarmi? Ma non è Sabato, oggi.” Dopo ricordò e sorrise: “Veramente, Padre, non ce ne sarebbe neppur bisogno. Sapete già tutto.” Questo insistere nell’imposta complicità irritò il Gesuita. “Eccellenza, l’efficacia della Confessione non consiste solo nel raccontare le colpe ma nel pentirsi di quanto si è commesso 31

di male; e finché non o farete e non lo avrete dimostrato a me resterete in peccato mortale, che io conosca le vostre azioni, o no.” Meticoloso soffiò via un peluzzo dalla propria manica e si rituffò nelle astrazioni.

La quiete che le scoperte politiche della mattinata avevano instaurata nell’anima del Principe era tale che egli non fece se non sorridere di ciò che in altro momento gli sarebbe sembrato insolenza. Aprì una delle finestre della torretta. Il paesaggio ostentava tutte le proprie bellezze. Sotto il lievito lei forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, sullo sfondo, era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibili, piene di agguati, sembravano ammassi di vapore sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata intorno ai Conventi come un gregge ai piedi dei pastori.

Nella rada le navi straniere all’ancora, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma stupefatta. Il sole, che tuttavia era ben lontano in quel mattino del 15 Maggio dalla massima sua foga, si rivelava come l’autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano dell’arbitrarietà dei sogni.

“Ce ne vorranno di Vittori Emanueli per mutare questa pozione magica che sempre ci viene versata!”

Padre Pirrone si era alzato, aveva raggiustato la propria cintura, e si era diretto verso il Principe con la mano tesa: “Eccellenza, sono stato troppo brusco; conservatemi la vostra benevolenza ma, date retta a me, confessatevi.”

Il ghiaccio era rotto e il Principe poté informare padre Pirrone delle proprie intuizioni politiche. Il Gesuita però fu ben lontano dal condividere il sollievo di lui, anzi ridiventò pungente. “In poche parole voi signori vi mettete d’accordo coi liberali, che dico con i liberali! con i massoni addirittura, a nostre spese, a spese della Chiesa. Perché è chiaro che i nostri beni, quei beni che sono il patrimonio dei poveri, saranno arraffati e malamente divisi fra i caporioni più impudenti; e chi, dopo, sfamerà le moltitudini d’infelici che ancora oggi la Chiesa sostenta e guida?” Il Principe taceva. “Come si farà allora per placare quelle turbe disperate?

Ve lo dirò subito, Eccellenza. Si getterà loro in pasto prima una pane, poi una seconda ed alla fine la totalità delle vostre terre. E così Dio avrà compiuto la Sua Giustizia, sia pure per tramite dei massoni. Il Signore guariva i ciechi del corpo; ma i ciechi di spirito dove finiranno?”

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L’infelice Padre aveva il fiato grosso: un sincero dolore per il previsto sperpero del patrimonio della Chiesa si univa in lui al rimorso per essersi di nuovo lasciato trascinare, al timore di offendere il Principe cui voleva bene e del quale aveva sperimentato la collera rumorosa ma anche l’indifferente bontà. Sedeva quindi guardingo e sogguardava Don Fabrizio che con uno spazzolino ripuliva i congegni di un cannocchiale e sembrava assorto nella meticolosa sua attività; dopo un po’

si alzò, si pulì a lungo le mani con uno straccetto: il volto era privo di qualsiasi espressione, i suoi occhi chiari sembravano intenti soltanto a rintracciare qualche macchiolina di grasso rifugiatasi alla radice delle unghia. Giù, intorno alla villa il silenzio luminoso era profondo, signorile all’estremo; sottolineato più che disturbato da un lontanissimo abbaiare di Bendicò che insolentiva il cane del giardiniere in fondo all’agrumeto, e dal battere ritmico, sordo del coltellaccio di un cuoco che sul tagliere laggiù in cucina triturava della carne per il pranzo non lontano. Il gran sole aveva assorbito la turbolenza degli uomini quanto l’asprezza della terra. Don Fabrizio poi si avvicinò al tavolo del Padre, sedette e si mise a disegnare puntuti gigli borbonici con la matita ben tagliata che il Gesuita nella sua collera aveva abbandonata. Aveva l’aria seria ma tanto serena che in padre Pirrone svanirono subito i crucci.

“Non siamo ciechi, caro Padre, siamo soltanto uomini. Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare. Alla Santa Chiesa è stata esplicitamente promessa l’immortalità; a noi, in quanto classe sociale, no. Per noi un palliativo che promette di durare cento anni equivale all’eternità. Potremo magari preoccuparci per i nostri figli, forse per i nipotini; ma al di là di quanto possiamo sperare di accarezzare con queste mani non abbiamo obblighi; ed io non posso preoccuparmi di ciò che saranno i miei eventuali discendenti nell’anno 1960. La Chiesa sì, se ne deve curare, perché è destinata a non morire. Nella sua disperazione è implicito il conforto. E credete voi che se potesse adesso o se potrà in futuro salvare sé stessa con il nostro sacrificio non lo farebbe? Certo che lo farebbe, e farebbe bene.”

Padre Pirrone era talmente contento di non avere offeso il Principe che non si offese neppure lui. Quella espressione “disperazione” in relazione alla Chiesa era inammissibile, ma la lunga abitudine del confessionale lo rendeva capace di apprezzare l’umore disilluso di Don Fabrizio. Non bisognava però lasciar trionfare l’interlocutore. “Avrete due peccati da confessarmi Sabato, Eccellenza: uno della carne di ieri, uno dello spirito, di oggi. Ricordatevene.”

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Ambedue placati, discussero di una relazione che occorreva inviare presto a un osservatorio estero, quello di Arcetri. Sostenuti, guidati, sembrava, dai numeri, invisibili in quelle ore ma presenti gli astri rigavano l’etere con le loro traiettorie esatte. Fedeli agli appuntamenti le comete si erano avvezze a presentarsi puntuali sino al minuto secondo dinanzi a chi le osservasse. Ed esse non erano messaggere di catastrofi come Stella credeva: la loro apparizione prevista era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli. “Lasciamo che qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All’altezza di quest’osservatorio le fanfaronate di uno, la sanguinarietà dell’altro si fondono in una tranquilla armonia. Il problema vero, l’unico, è di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più astratti, più simili alla morte.”

Così ragionava il Principe, dimenticando le proprie ubbie di sempre, i propri capricci carnali di ieri. E per quei momenti di astrazione egli venne, forse, più intimamente assolto, cioè ricollegato con l’universo, di quanto avrebbe potuto fare la formula di Padre Pirrone. Per mezz’ora quella mattina gli dei del soffitto e le bertucce del parato furono di nuovo posti al silenzio. Ma nel salone non se ne accorse nessuno.

Quando la campanella del pranzo li richiamò giù, tutti e due erano rasserenati, tanto dalla comprensione delle congiunture politiche come dal superamento di questa comprensione stessa e un’atmosfera di distensione inconsueta si diffuse nella villa. Il pasto di mezzogiorno era quello principale e andò, grazie a Dio, del tutto liscio. Figurarsi che a Carolina, la figlia ventenne, accadde che uno dei boccoli che le incorniciavano il volto, sorretto da una forcina a quanto pare malsicura, scivolasse e andasse a finire sul piatto. L’incidente che un altro giorno avrebbe potuto essere increscioso questa volta aumentò soltanto l’allegria; quando il fratello che era seduto vicino alla ragazza prese il ricciolo e se lo appuntò al collo, sicché pendeva li come uno scapolare, perfino Don Fabrizio acconsenti a sorridere. La partenza, la destinazione, gli scopi di Tancredi erano ormai noti a tutti e ognuno ne parlava tranne Paolo che mangiava in silenzio.

Nessuno del resto era preoccupato, meno il Principe che nascondeva l’ansia non grave nella profondità del cuore, e Concetta che era la sola a conservare un’ombra sulla bella fronte. “La ragazza deve avere un sentimentuccio per quel briccone.

Sarebbe una bella coppia, ma temo che Tancredi debba mirare più in alto, intendo dire più in basso.” Oggi, poiché il rasserenamento politico aveva fugato le 34

nebbie che in generale la oscuravano, la fondamentale bonomia di Don Fabrizio riappariva alla superficie. Per rassicurare la figlia si mise a spiegare la scarsa efficacia dei fucili dell’esercito regio: parlò della mancanza di rigatura delle canne di quegli enormi schioppi e di quanta scarsa forza di penetrazione fossero dotati i proiettili che da essi uscivano; spiegazioni tecniche in mala fede per giunta, che pochi capirono e dalle quali nessuno fu convinto ma che consolarono tutti perché erano riuscite a trasformare la guerra in un pulito diagramma di forze da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa in realtà è.

Alla fine del pranzo venne servita la gelatina al rhum. Questo era il dolcepreferito di don Fabrizio e la Principessa, riconoscente delle consolazioni ricevute,aveva avuto cura di ordinarlo la mattina di buon’ora. Si presentava minacciosa, i.

con quella sua forma di torrione appoggiato su bastioni e scarpate, dalle pareti liscee scivolose impossibili da scalare, presidiata da una guarnigione rossa e verde diciliegie e di pistacchi; era però trasparente e tremolante ed il cucchiaio vi siaffondava con stupefacente agio. Quando la roccaforte ambrata giunse a FrancescoPaolo, il ragazzo sedicenne ultimo i servito essa non consisteva più che di spalticannoneggiati e di blocchi divelti. Esilarato dall’aroma del liquore e dal gustodelicato della guarnigione multicolore, il Principe se la era goduta assistendo allosmantellamento della fosca rocca sotto l’assalto degli appetiti. Uno dei suoi bicchieriera rimasto a metà pieno di Marsala; egli lo alzò, guardò in giro la famigliafissandosi un attimo più a lungo sugli occhi azzurri di Concetta e “alla salute delnostro caro Tancredi” disse. Bevve il vino in un solo sorso. Le cifre F.D. che prima sierano distaccate ben nette sul colore dorato del bicchiere pieno non si videro più.

In Amministrazione dove Don Fabrizio discese di nuovo dopo il pranzo la luce entrava adesso di traverso e dai quadri dei feudi, ora in ombra, non ebbe a subire rimproveri. “Voscenza benedica” mormorarono Pastorello e Lo Nigro i due affittuari che avevano portato i “carnaggi,” quella parte del canone che si pagava in natura. Se ne stavano ben ritti, con gli occhi stupiti nei volti perfettamente rasati e stracotti dal sole. Diffondevano odor di mandria. Il Principe parlò loro con cordialità, nel suo dialetto stilizzatissimo, s’informò delle loro famiglie, dello stato del bestiame, delle previsioni per il raccolto. Poi chiese: “Avete portato qualche cosa?” e mentre i due dicevano che si, che la roba era nella stanza vicina, il Principe si vergognò un poco perché si era accorto che il colloquio era stato una ripetizione delle udienze di Re Ferdinando. “Aspettate cinque minuti e Ferrara vi darà le ricevute.” Pose loro in mano un paio di ducati ciascuno, il che era più 35

forse del valore di ciò che avevano portato. “Bevete un bicchiere alla nostra salute.” E andò a guardare i “carnaggi”: vi erano per terra quattro caci

“primosale” di dodici rotoli, dieci chili ciascuno; li osservò con indifferenza: detestava questo formaggio; vi erano sei agnellini, gli ultimi dell’annata, con le teste pateticamente abbandonate al disopra della larga piaga dalla quale la loro vita era uscita poche ore prima; anche i loro ventri erano stati squartati e gli intestini iridati pendevano fuori. “Il Signore abbia l’anima sua” pensò, ricordando lo sbudellato di un mese fa. Quattro paia di galline attaccate per le zampe si dibattevano per paura sotto il muso inquirente di Bendicò. “Anche questo un esempio d’inutile timore” pensava “il cane non rappresenta per loro nessun pericolo; neppure un osso se ne mangerà, perché gli farebbe male alla pancia.” Lo spettacolo di sangue e di terrore, però, lo disgustò. “Tu, Pastorello, porta le galline al pollaio, per ora non ce n’è bisogno in dispensa, e un’altra volta gli agnelli portali direttamente in cucina; qui sporcano. E tu, Lo Nigro, vai a dire a Salvatore che venga a far pulizia ed a portar via i formaggi. E apri la finestra per fare uscire l’odore.” Poi entrò Ferrara con le ricevute.

Quando risalì Don Fabrizio trovò Paolo, il primogenito, il duca di Querceta che lo aspettava nello studio sul cui divano rosso egli soleva far la siesta. Il giovane aveva raccolto tutto il proprio coraggio e desiderava parlargli. Basso, esile, olivastro, sembrava più anziano di lui. “Volevo chiederti, papa, come dovremo comportarci con Tancredi quando lo rivedremo.” Il padre capì subito e cominciò ad irritarsi. “Che intendi dire? cosa c’è di cambiato?” “Ma, papà, certo tu non puoi approvare: è andato a unirsi a quei farabutti che tengono la Sicilia in subbuglio; queste sono cose che non si fanno.”

La gelosia personale, il risentimento del bigotto contro il cugino spregiudicato, del tonto contro il ragazzo di spirito si erano travestiti in argomentazione politica.

Don Fabrizio ne i tanto indignato che non fece neppure sedere il figlio: “Meglio far sciocchezze che star tutto il giorno a guardare la acca dei cavalli! Tancredi mi è più caro di prima. E poi non ano sciocchezze. Se tu potrai farti fare i biglietti di visita con duca di Querceta sopra, e se quando me ne andrò erediterai quattro soldi, lo dovrai a Tancredi ed agli altri come lui. Vai via, non ti permetto più di parlarmene! qui comando io solo.” Poi si rabbonì e sostituì l’ironia all’ira. “Vai, figlio mio, voglio dormire. Vai a parlare di politica con ‘Guiscardo,’ v’intenderete bene.” E mentre Paolo raggelato richiudeva la porta, Don Fabrizio si tolse la 36

redingote e gli stivaletti, fece gemere il divano sotto il proprio peso e si addormentò tranquillo.

Quando si risvegliò il suo cameriere gli recò su un vassoio n giornale e un biglietto. Erano stati inviati da Palermo da io cognato Màlvica con un servo a cavallo. Ancora un po’ ordito il Principe apri la lettera: “Caro Fabrizio, mentre

:rivo sono in uno stato di prostrazione estrema. Leggi le terribili notizie che sono sul giornale. I Piemontesi sono sbarcati. Siamo tutti perduti. Questa sera stessa io con tutta la famiglia ci rifugeremo sui legni inglesi. Certo vorrai fare lo esso; se lo credi ti farò riservare qualche posto. Il Signore salvi ancora il nostro amato Re.

Un abbraccio. Tuo Ciccio.”

Ripiegò il biglietto, se lo pose in tasca e si mise a ridere forte. Quel Màlvica! Era stato sempre un coniglio. Non aveva impreso niente, e adesso tremava. E lasciava il palazzo in alfa dei servi: questa volta si che lo avrebbe ritrovato vuoto! A proposito bisogna che Paolo vada a stare a Palermo; case abbandonate, in questi momenti, sono case perdute. Gliene parlerò a cena.”

Aprì il giornale. “Un atto di pirateria flagrante veniva consumato Maggio mercé lo sbarco di gente armata alla marina di Marsala. Posteriori rapporti hanno chiarito esser la banda disbarcata di circa ottocento, e comandata da Garibaldi.

Appena quei filibustieri ebbero preso terra evitarono con ogni cura lo scontro delle truppe reali, dirigendosi per quanto ci viene riferito a Castelvetrano, minacciando i pacifici cittadini e non risparmiando rapine e devastazioni... etc.

etc...”

Il nome di Garibaldi lo turbò un poco. Quell’avventuriero tutto capelli e barba era un mazziniano puro. Avrebbe combinato dei guai. “Ma se il Galantuomo lo ha fatto venire quaggiù vuoi dire che è sicuro di lui. Lo imbriglieranno.”

Si rassicurò, si pettinò, si fece rimettere le scarpe e la redingote. Cacciò il giornale in un cassetto. Era quasi l’ora del Rosario, ma il salone era ancora vuoto.

Are sens