Don Fabrizio lo ascoltava appena, immerso com’era in una serenità sazia maculata di ripugnanza. Mariannina lo aveva guardato con gli occhi opachi di 23
contadina, non si era rifiutata a niente, si era mostrata umile e servizievole. Una specie di Bendicò in sottanino di seta. In un istante di particolare deliquescenza le era anche occorso di esclamare: “Principone!” Lui ne sorrideva ancora, soddisfatto. Meglio questo, certo, che i “mon chat” od i “mon singe blond” che rivelavano i momenti omologhi di Sarah, la sgualdrinella parigina che aveva frequentato tre anni fa quando per il Congresso d’Astronomia gli avevano consegnato in Sorbona una medaglia d’argento. Meglio di “mon singe blond” senza dubbio; molto meglio poi di “Gesummaria”; niente sacrilegio, almeno. Era una buona figliuola Mariannina: le avrebbe portato tre canne di seta ponzò, la prossima volta.
Ma che tristezza, anche: quella carne giovane troppo maneggiata, quella impudicizia rassegnata; e lui stesso, che cosa era? un porco, e niente altro. Gli ritornò in mente un verso che aveva letto per caso in una libreria di Parigi sfogliando un volume di non sapeva più chi, di uno di quei poeti che la Francia sforna e dimentica ogni settimana. Rivedeva la colonna giallo-limone degli esemplari invenduti, la pagina, una pagina pari, e riudiva i versi che stavano li a conchiudere una poesia strampalata:
Seigneur, donnez-moi la force et le courage
de regarder mon coeur et mon corps sans dégout!
E mentre padre Pirrone continuava a occuparsi di un certo La Farina e di un certo Crispi, il “Principone” si addormentò, in una sorta di disperata euforia, cullato dal trotto dei bai sulle cui natiche grasse i lampioncini della vettura facevano oscillare la luce. Si risvegliò alla svolta dinanzi alla villa Falconeri.
“Quello lì pure, che alimenta i tizzoni che lo divoreranno!”
Quando si trovò nella camera matrimoniale, il vedere la povera Stella con i capelli ben ravviati sotto la cuffietta, dormire sospirando nel grandissimo, altissimo letto di rame, lo commosse e intenerì. “Sette figli mi ha dato, ed è stata mia soltanto.” Un odore di valeriana vagava per la camera, ultima vestigio della crisi isterica. “Povera Stelluccia mia” si rammaricava scalando il letto. Le ore passarono e non poteva dormire: “lo, con la mano possente mescolava nei suoi pensieri tre «lochi: quello delle carezze di Mariannina, quello dei versi All’ignoto, quello iracondo dei roghi sui monti.
Verso l’alba però, la Principessa ebbe occasione di farsi il segno della croce.
24
La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò posava il testone pesante sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. “Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa?” “Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo.” Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. “E chi erano queste conoscenze, si può sapere?” “Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!” Era davvero troppo insolente, credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. Il Principe si sentì offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l’animo di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. “Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina?” Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile.
“Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti.” Il povero Salina si senti stringere il cuore. “Un duello?” “Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi.” Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente!, Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.” Gli occhi ripresero a sorridere. “Per il Re, certo, ma per quale Re?” Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?” Abbracciò lo zio un po’ commosso. “Arrivederci a 25
presto. Ritornerò col tricolore.” La retorica degli amici aveva stinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi era un accento che smentiva l’enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di “Guiscardo!” Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si strappò l’asciugamani dal collo, frugò in un cassetto. “Tancredi, Tancredi, aspetta,” corse dietro al nipote, gli mise in tasca un rotolino di “onze”
d’oro, gli premette la spalla. Quello rideva: “Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e tanti abbracci alla zia.” E si precipitò giù per le scale.
Venne richiamato Bendicò che inseguiva l’amico riempiendo la villa di urla gioiose, la rasatura fu completata, il viso lavato. Il cameriere venne a vestire e calzare il Principe. “Il tricolore! Bravo, il tricolore! Si riempiono la bocca con questa parola, i bricconi. E che cosa significa questo segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, così brutta in confronto alla nostra bandiera candida con l’oro gigliato dello stemma? E che cosa può far loro sperare quest’accozzaglia di colori stridenti?” Era il momento di avvolgere attorno al collo il monumentale cravattone di raso nero. Operazione difficile durante la quale i pensieri politici era bene venissero sospesi. Un giro, due giri, tre giri. Le grosse dita delicate componevano le pieghe, spianavano gli sbuffi, appuntavano sulla seta la testina di Medusa con gli occhi di rubino. “Un gilet pulito. Non vedi che questo è macchiato?” Il cameriere si sollevò sulla punta dei piedi per infilargli la redingote di panno marrone; gli porse il fazzoletto con le tre gocce di bergamotto.
Le chiavi, l’orologio con catena, il portamonete se li mise in tasca da sé. Si guardò allo specchio: non c’era da dire era ancora un bell’uomo. “‘Rudere libertino!’
Scherza pesante quella canaglia! Vorrei vederlo alla mia età, quattro ossa incatenate come è lui”.
II passo vigoroso faceva tinnire i vetri dei saloni che attraversava. La casa eraserena, luminosa e ornata; soprattutto era sua. Scendendo le scale, capì. “Sevogliamo che tutto rimanga com’è... “ Tancredi era un grand’uomo: lo aveva semprepensato.
Le stanze dell’Amministrazione erano ancora deserte silenziosamente illuminate dal sole attraverso le persiane chiuse. Benché fosse quello il posto della villa nel quale si compivano le maggiori frivolità, il suo aspetto era di austerità severa. Dalle pareti a calce si riflettevano sul pavimento tirato a cera gli enormi quadri rappresentanti i feudi di casa Salina: spiccanti a colori vivaci 26
dentro le cornici nere e oro si vedeva Salina, l’isola dalle montagne gemelle, attorniate da un mare tutto trine di spuma, sul quale galere pavesate caracollavano; Querceta con le sue case basse attorno alla Chiesa Madre verso la quale procedevano gruppi di pellegrini azzurrognoli; Ragattisi stretto fra le gole dei monti; Argivocale minuscolo nella smisuratezza della pianura frumentaria cosparsa di contadini operosi; Donnafugata con il suo palazzo barocco, meta di cocchi scarlatti, di cocchi verdini, di cocchi dorati, carichi a quanto sembrava di femmine di bottiglie e di violini; molti altri ancora, tutti protetti sotto cielo terso e rassicurante dal Gattopardo sorridente fra i lunghi mustacchi. Ognuno festoso, ognuno desideroso di esaltare l’illuminato imperio tanto “misto” che “mero” di casa Salina. Ingenui capolavori di arte rustica del secolo scorso; inatti però a delimitare confini, precisare aree, redditi; cose che infatti rimanevano ignote. La ricchezza, nei molti secoli di esistenza si era mutata in ornamento, in lusso, in piaceri; soltanto in questo; l’abolizione dei diritti feudali aveva decapitato gli obblighi insieme ai privilegi, la ricchezza come un vino vecchio aveva lasciato cadere in fondo alla botte le fecce della cupidigia, delle cure, anche quelle della prudenza, per conservare soltanto l’ardore e il colore. Ed a questo modo finiva con l’annullare sé stessa: questa ricchezza che aveva realizzato il proprio fine era composta solo di oli essenziali e come gli oli essenziali evaporava in fretta. Di già alcuni di quei feudi tanto festosi nei quadri avevano preso il volo e permanevano soltanto nelle tele variopinte e nei nomi. Altri sembravano quelle rondini settembrine ancor presenti ma di già radunate stridenti sugli alberi, pronte a partire. Ma ve ne erano tanti; sembrava non potessero mai finire.
Malgrado quest’ultima considerazione, la sensazione provata dal Principe entrando nel proprio studio fu, come sempre, sgradevole. Nel centro della stanza torreggiava una scrivania con decine di cassetti, nicchie, incavi, ripostigli e piani inclinati. La sua mole di legno giallo e nero era scavata e truccata come un palcoscenico, piena di trappole, di piani scorrevoli, di accorgimenti di segretezza che nessuno sapeva più far funzionare all’infuori dei ladri. Era coperta di carte e benché la previdenza del Principe avesse avuto cura che buona parte di esse si riferisse alle atarassiche regioni dominate dall’astronomia, quel che avanzava era sufficiente a riempire di disagio il cuore suo. Gli tornò in mente ad un tratto la scrivania di Re Ferdinando a Caserta, anch’essa ingombra di pratiche e di decisioni da prendere con le quali ci si potesse illudere d’influire sul torrente delle sorti che invece irrompeva per conto suo, in un’altra vallata.
27
Don Fabrizio pensò a una medicina scoperta da poco negli Stati Uniti d’America che permetteva di non soffrire durante le operazioni più crudeli, di rimanere sereni fra le sventure. Morfina lo avevano chiamato questo rozzo surrogato chimico dello stoicismo pagano, della rassegnazione cristiana. Per il povero Re l’amministrazione fantomatica teneva luogo di morfina; lui, Salina, ne aveva una di più eletta composizione: l’astronomia. Cacciando le immagini di Ragattisi perduto e di Argivocale pencolante si tuffò nella lettura del più recente numero del Journal des savants. “Les dernières observations de l’Observatoire de Greenwich présentent un intéret tout particulier...”
Dovette però esiliarsi presto da quei sereni regni stellari. Entrò don CiccioFerrara, il contabile. Era un ometto asciutto che nascondeva l’anima illusa e rapacedi un liberale dietro occhiali rassicuranti e cravattini immacolati. Quella mattina erapiù arzillo del consueto: appariva chiaro che quelle stesse letizie che avevanodepresso padre Pirrone avevano agito su di lui come un cordiale. “Tristi tempi,Eccellenza” disse dopo gli ossequi rituali “stanno per succedere grossi guai, madopo un po’ di trambusto e di sparatorie tutto andrà per il meglio, nuovi tempigloriosi verranno per la nostra Sicilia; non Fosse che tanti figli di mamma cirimetteranno la pelle, non potremmo che essere contenti.” Il Principe borbottavasenza esprimere un’opinione. “Don Ciccio” disse poi “bisogna mettere dell’ordinenella esazione dei canoni di Querceta; sono due anni che da lì non si vede unquattrino.” “La contabilità è a posto, Eccellenza.” Era la frase magica. “Occorresoltanto scrivere a don Angelo Mazza di eseguire le procedure; sottoporrò oggistesso la lettera alla vostra firma” e se ne andò a rimestare fra gli enormi registrinei quali, con due anni di ritardo, erano minutamente calligrafati tutti i conti di casaSalina, meno quelli davvero importanti.
Rimasto solo don Fabrizio ritardò il proprio tuffo nelle nebulose. Era irritato non già contro gli avvenimenti che si preparavano ma contro la stupidaggine di Ferrara nel quale aveva ad un tratto identificato una delle classi che sarebbero divenute dirigenti. “Quel che dice il buon uomo è proprio l’opposto della verità.
Compiange i molti figli di mamma che creperanno e questi saranno invece molto pochi, se conosco il carattere dei due avversari; proprio non uno di più di quanto sarà necessario alla compilazione di un bollettino di vittoria a Napoli o a Torino, che è poi la stessa cosa. Crede invece ai ‘tempi gloriosi per la nostra Sicilia’ come si esprime lui; il che ci è stato promesso in occasione di ognuno dei cento sbarchi, da Nicia in poi, e che non è mai successo. E, del resto, perché avrebbe dovuto 28
succedere? E allora che cosa avverrà? Trattative punteggiate da schioppettate quasi innocue e, dopo, tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato.” Gli erano tornate in mente le parole ambigue di Tancredi che adesso però comprendeva a fondo. Si rassicurò e tralasciò di sfogliare la rivista. Guardava i fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come la miseria.
Poco dopo venne Russo il soprastante, l’uomo che il Principe trovava più significativo fra i suoi dipendenti. Svelto, ravvolto non senza eleganza nella
«bunaca» di velluto rigato, con gli occhi avidi sotto una fronte senza rimorsi, era per lui la perfetta espressione di un ceto in ascesa. Ossequioso del resto e quasi sinceramente devoto poiché compiva le proprie ruberie convinto di esercitare un diritto. “Immagino quanto Vostra Eccellenza sarà seccato per la partenza del signorino Tancredi; ma la sua assenza non durerà molto, ne sono sicuro, e tutto andrà a finire bene.” Ancora una volta il Principe si trovò di fronte a uno degli enigmi siciliani. In questa isola segreta dove le case sono sbarrate e i contadini dicono d’ignorare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede li sul colle a dieci minuti di strada, in quest’isola, malgrado l’ostentato lusso di mistero, la riservatezza è un mito.
Fece cenno a Russo di sedere, lo guardò fisso negli occhi: “Pietro, parliamoci da uomo a uomo, tu pure sei immischiato in queste faccende?” Immischiato non era, rispose, era padre di famiglia e questi rischi sono roba da giovanotti come il signorino Tancredi. “Si figuri se nasconderei qualcosa a Vostra Eccellenza che è come mio padre.” (Intanto, tre mesi fa, aveva nascosto nel suo magazzino centocinquanta ceste di limoni del Principe e sapeva che il Principe lo sapeva.)
“Ma debbo dire che il mio cuore è con loro, con i ragazzi arditi.” Si alzò per lasciare entrare Bendicò che faceva tremare la porta sotto il suo impeto amichevole. Si risiedé. “Vostra Eccellenza lo sa; non se ne può più: perquisizioni, interrogatori, scartoffie per ogni cosa, uno sbirro a ogni cantone; un galantuomo non è libero di badare ai fatti propri. Dopo, invece, avremo la libertà, la sicurezza, tasse più leggere, la facilità, il commercio. Tutti staremo meglio: i preti soli ci perderanno. Il Signore protegge i poveretti come me, non loro.” Don Fabrizio sorrideva: sapeva che era proprio lui, Russo, che attraverso interposta persona desiderava comprare Argivocale. ‘Ci saranno giorni di schioppettate e di trambusti, ma villa salina sarà sicura come una rocca; Vostra Eccellenza è il nostro padre, ed io ho tanti amici qui. I Piemontesi entreranno solo col cappello in mano per riverire le Eccellenze Vostre. E poi lo zio e il tutore di don Tancredi!” Il 29
Principe si sentì umiliato: adesso si vedeva disceso al rango di protetto degli amici di Russo; il suo solo merito, a quanto sembrava, era di esser zio di quel moccioso di Tancredi. “Fra una settimana andrà a finire che avrò la vita salva perché tengo in casa Bendicò.” Stropicciava un orecchio del cane fra le dita con tanta forza che la povera bestia guaiolava, onorata, senza dubbio, ma sofferente.
Poco dopo alcune parole di Russo gli diedero sollievo. “Tutto sarà meglio, mi creda, Eccellenza. Gli uomini onesti e abili potranno farsi avanti. Il resto sarà come prima.” Questa gente, questi liberalucoli di campagna volevano soltanto avere il modo di approfittare più facilmente. Punto e basta. Le rondini avrebbero preso il volo più presto, ecco tutto. Del resto, ce n’erano ancora tante nel nido.
“Forse hai ragione tu. Chi lo sa?” Adesso aveva penetrato tutti i riposti sensi: le parole enigmatiche di Tancredi, quelle enfatiche di Ferrara, quelle false ma rivelarne di Russo, avevano ceduto il loro rassicurante segreto. Molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca.
Questo era il paese degli accomodamenti, non c’era la furia francese; anche in Francia d’altronde, se si eccettua il Giugno del Quarantotto, quando mai era successo qualcosa di serio? Aveva voglia di dire a Russo, ma la innata cortesia lo trattenne: “Ho capito benissimo: voi non volete distruggere noi, i vostri ‘padri’; volete soltanto prendere il nostro posto. Con dolcezza, con buone maniere, mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. È così? Tuo nipote, caro Russo, crederà sinceramente di essere barone; e tu diventerai, che so io, il discendente di un boiardo di Moscovia, mercé il tuo nome, anziché il figlio di un cafone di pelo rosso, come proprio quel nome rivela. Tua figlia già prima avrà sposato uno di noi, magari anche questo stesso Tancredi, con i suoi occhi azzurri e le sue mani dinoccolate. Del resto è bella, e una volta che avrà imparato a lavarsi... ‘Perché tutto resti com’è’. Come è, nel fondo: soltanto una lenta sostituzione di ceti. Le mie chiavi dorate di gentiluomo di camera, il cordone ciliegia di S. Gennaro dovranno restare nel cassetto, e poi finiranno in una vetrina del figlio di Paolo, ma i Salina rimarranno i Salina; e magari qualche compenso lo avranno: il Senato di Sardegna, il nastro pistacchio di S. Maurizio.
Ciondoli questi, ciondoli quelli.”
Si alzò: “Pietro, parla con i tuoi amici. Qui ci sono tante ragazze, bisogna che non si spaventino.” “Ero sicuro, Eccellenza; ho di già parlato: villa Salina sarà tranquilla come una badia.” E sorrise affettuosamente ironico.
30
Don Fabrizio uscì seguito da Bendicò; voleva salire a trovare padre Pirrone ma lo sguardo implorante del cane lo costrinse invece ad andare in giardino: Bendicò infatti conservava esaltati ricordi del bei lavoro della sera prima e voleva compirlo a regola d’arte. Il giardino era ancor più odoroso di ieri, e sotto il sole mattutino l’oro della gaggia stonava meno. “Ma i Sovrani, i Sovrani nostri? E la legittimità dove va a finire?” Il pensiero lo turbò un momento, non si poteva eludere; per un attimo fu come Màlvica. Questi Ferdinandi, questi Franceschi tanto disprezzati, gli apparvero come dei fratelli maggiori, fiduciosi, affettuosi, giusti, dei veri Re. Ma le forze di difesa della calma interiore, tanto vigilanti nel Principe, accorrevano già in aiuto, con la moschetteria del giure, con l’artiglieria della storia. “E la Francia?
Non è forse illegittimo Napoleone III? E non vivono forse felici i Francesi sotto questo Imperatore illuminato che li condurrà certo ai più alti destini? Del resto intendiamoci bene. Carlo III lui era forse perfettamente a posto? Anche la battaglia di Bitonto fu una specie di quella battaglia di Corleone, o di Bisacquino o di che so io nella quale i Piemontesi prenderanno a scoppole i nostri; una di quelle battaglie combattute affinché tutto rimanga come è. Del resto neppure Giove era il legittimo Re dell’Olimpo.”