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Una volta però il congedo era stato cattivo. Don Fabrizio aveva già fatto il secondo inchino a ritroso quando il Re lo richiamò: “Salina, starnine a sentere. Mi hanno detto che a Palermo hai cattive frequentazioni. Quel tuo nipote Falconeri...

perché non gli rimetti la testa a posto?” “Maestà, ma Tancredi non si occupa che di donne e di carte.” Il Re perse la pazienza. “Salina, Salina, tu pazzii.

Responsabile sei tu, il tutore. Digli ca si guardasse ‘o cuollo. Salutarne.”

Ripercorrendo l’itinerario fastosamente mediocre per andare a firmare sul registro della Regina, lo scoramento l’invadeva. La cordialità plebea lo aveva depresso quanto il ghigno poliziesco. Beati quei suoi amici che volevano interpretare la familiarità come amicizia, la minaccia come possanza regale. Lui non poteva. E mentre palleggiava pettegolezzi con l’impeccabile ciambellano andava chiedendosi chi fosse destinato a succedere a questa monarchia che aveva i segni della morte sul volto. Il Piemontese, il cosiddetto Galantuomo che faceva tanto chiasso nella sua piccola capitale fuor di mano? Non sarebbe stato lo stesso? Dialetto torinese invece che napoletano; e basta.

Si era giunti al registro. Firmava: Fabrizio Corbera, Principe di Salina.

Oppure la Repubblica di don Poppino Mazzini? “Grazie. Diventerei il signor Corbera.”

E la lunga tappa del ritorno non lo calmò. Non poté consolarlo neppure l’appuntamento già preso con Cora Danòlo.

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Stando così le cose, che restava da fare? Aggrapparsi a quel che c’è senza far salti nel buio? Allora occorrevano i colpi secchi delle scariche, così come erano rintronati poco tempo fa in una squallida piazza di Palermo; ma le scariche anch’esse a cosa servivano? “Non si conchiude niente con i ‘pum! pum!’ È vero, Bendicò?”

“Ding, ding, ding!” faceva invece la campana che annunziava la cena. Bendicò correva con l’acquolina in bocca per il pasto pregustato. “Un Piemontese tale e quale!” pensava Salina risalendo la scala.

La cena a villa Salina era servita con il fasto sbrecciato che allora era lo stile del Regno delle Due Sicilie. Il numero dei commensali (quattordici erano fra padroni di casa, figli, governanti e precettori) bastava da solo a conferire imponenza alla tavola. Ricoperta da una rattoppata tovaglia finissima, essa fendeva sotto la luce di una potente “carsella” precariamente appesa sotto la

“ninfa,” sotto il lampadario di Murano. Dalle finestre entrava ancora luce ma le figure bianche sul fondo scuro delle sovrappone, simulanti dei bassorilievi, si perdevano già nell’ombra. Massiccia l’argenteria e splendidi i bicchieri recanti sul medaglione liscio fra i bugnati di Boemia le cifre F.D. (Ferdinandus dedit) in ricordo di una munificenza regale, ma i piatti, ciascuno segnato da una sigla illustre, non erano che dei superstiti delle stragi compiute dagli sguatteri e provenivano da servizi disparati. Quelli di formato più grande, Capodimonte vaghissimi con la larga bordura verde-mandorla segnata da ancorette dorate, erano riservati al Principe cui piaceva avere intorno a sé ogni cosa in scala, eccetto la moglie. Quando entrò in sala da pranzo tutti erano già riuniti, la Principessa soltanto seduta, gli altri in piedi dietro I alle loro sedie. Davanti al suo posto, fiancheggiati da una colonna di piatti, si slargavano i fianchi argentei dell’enorme zuppiera col coperchio sormontato dal Gattopardo danzante. Il Principe scodellava lui stesso la minestra, fatica grata simbolo delle mansioni altrici del pater familias. Quella sera però, come non era avvenuto da tempo, si udì minaccioso il tinnire del mescolo contro la parete della zuppiera: segno di collera grande ancor contenuta, uno dei rumori più spaventevoli che esistessero; come diceva ancora quarant’anni dopo un figlio sopravvissuto: il Principe si era accorto che il sedicenne Francesco Paolo non era al proprio posto. Il ragazzo entrò subito (“scusatemi, papa”) e sedette. Non subì rimprovero ma padre Pirrone che aveva più o meno le funzioni di cane da mandria, chinò il capo e si raccomandò a Dio. La bomba non era esplosa ma il vento del suo passaggio aveva raggelato la 18

tavola e la cena era rovinata lo stesso. Mentre si mangiava in silenzio, gli occhi azzurri del Principe, un po’ ristretti fra le palpebre semichiuse, fissavano i figli uno per uno e li ammutolivano di timore.

Invece! “Bella famiglia” pensava. Le femmine grassocce, fiorenti di salute, con le loro fossette maliziose e, fra la fronte e il naso, quel tale cipiglio, quel marchio atavico dei Salina. I maschi sottili ma forti maneggiavano le posate con sorvegliata violenza. Uno di essi mancava da due anni, quel Giovanni, il secondogenito, il più amato, il più scontroso. Un bel giorno era scomparso da casa e di lui non si erano avute notizie per due mesi. Finché non giunse una rispettosa e fredda lettera da Londra nella quale si chiedeva scusa per le ansie causate, si rassicurava sulla propria salute e si affermava, stranamente, di preferire la modesta vita di commesso in una ditta di carboni anziché l’esistenza

“troppo curata” (leggi: incatenata) fra gli agi palermitani. Il ricordo, l’ansietà per il giovinetto errante nella nebbia fumosa di quella città eretica, pizzicarono malvagiamente il cuore del Principe che soffrì molto. S’incupì ancora di più.

S’incupì tanto che la Principessa seduta accanto a lui tese la mano infantile e carezzò la potente zampacela che riposava sulla tovaglia. Gesto improvvido che scatenò una serie di sensazioni: irritazione per esser compianto, sensualità risvegliata ma non più diretta verso chi l’aveva ridestata. In un lampo al Principe appari l’immagine di Mariannina con la testa affondata nel guanciale. Alzò seccamente la voce: “Domenico” disse a un servitore “vai a dire a don Antonino di attaccare i bai al coupé; scendo a Palermo subito dopo cena.” Guardando gli occhi della moglie che si erano fatti vitrei si pentì di quanto aveva ordinato, ma poiché era impensabile il ritiro di una disposizione già data, insistette, unendo anzi la beffa alla crudeltà: “Padre Pirrone, venga con me, saremo di ritorno alle undici; potrà passare due ore a Casa Professa con i suoi amici.”

Andare a Palermo la sera, ed in quei tempi di disordini, appariva manifestamente senza scopo, se si eccettuasse quello di un’avventura galante di basso rango: il prendere poi come compagno l’ecclesiastico di casa era offensiva prepotenza. Almeno padre Pirrone lo sentì cosi, e se ne offese; ma, naturalmente, cedette.

L’ultima nespola era stata appena ingoiata che già si udiva il rotolare della vettura sotto l’androne; mentre in sala un cameriere porgeva la tuba a don Fabrizio e il tricorno al Gesuita, la Principessa ormai con le lagrime agli occhi, fece un ultimo tentativo, quanto mai vano: “Ma, Fabrizio, di questi tempi... con le 19

strade piene di soldati, piene di malandrini... può succedere un guaio.” Lui ridacchiò. “Sciocchezze, Stella, sciocchezze; cosa vuoi che succeda; mi conoscono tutti: uomini alti una canna ce ne sono pochi a Palermo. Addio.” E baciò frettolosamente la fronte ancor liscia che era al vello del suo mento. Però, sia che l’odore della pelle della Principessa avesse richiamato teneri ricordi, sia che dietro li lui il passo penitenziale di padre Pirrone avesse destato ammonimenti pii, quando giunse dinanzi al coupé si trovò di nuovo sul punto di disdire la gita. In quel momento, mentre priva la bocca per dire di rientrare in scuderia, un grido subitaneo “Fabrizio, Fabrizio mio!” giunse dalla finestra di opra, seguito da strida acutissime. La Principessa aveva una delle sue crisi isteriche. “Avanti!” disse al cocchiere, che se le stava a cassetta con la frusta in diagonale sul ventre. “Avanti, andiamo a Palermo a lasciare il Reverendo a Casa Professa.” E sbatté lo sportello prima che il cameriere potesse chiuderlo.

Non era ancora notte chiusa e incassata fra le alte mura la strada si dilungava bianchissima. Appena usciti dalla proprietà Salina si scorgeva a sinistra la villa semidiruta dei Falconeri appartenente a Tancredi, suo nipote e pupillo. Un padre scialacquatore, marito della sorella del Principe, aveva dissipato tutta la sostanza ed era poi morto. Era stata una di quelle rovine totali durante le quali si fanno fondere financo i fili d’argento dei galloni delle livree; ed alla morte della madre il Re aveva affidato la tutela dell’orfano allora quattordicenne allo zio Salina. Il ragazzo, prima quasi ignoto, era divenuto carissimo all’irritabile Principe che scorgeva in lui un’allegria riottosa, un temperamento frivolo a tratti contradetto da improvvise crisi di serietà. Senza confessarlo a sé stesso, avrebbe preferito aver lui come primogenito anziché quel buon babbeo di Paolo. Adesso a vent’anni Tancredi si dava bei tempo con i quattrini che il tutore non gli lesinava rimettendoci anche di tasca propria. “Quel ragazzaccio chissà cosa sta combinando per ora” pensava il Principe mentre si rasentava villa Falconeri cui l’enorme bougainvillea che faceva straripare oltre il cancello le proprie cascate di seta episcopale conferiva nell’oscurità un aspetto abusivo di fasto.

“Chissà cosa sta combinando.” Perché Re Ferdinando, quando aveva parlato delle cattive frequentazioni del giovanotto, aveva fatto male a dirlo ma aveva avuto, nei fatti, ragione. Preso in una rete di amici giocatori, di amiche, come si diceva, “scondottate” che la sua esile attrattiva dominava, Tancredi era giunto al punto di aver simpatie per le “sette,” relazioni col Comitato Nazionale segreto; forse prendeva anche dei quattrini da lì, come ne prendeva, d’altronde, dalla 20

Cassetta Reale. E c’era voluto del bello e del buono, c’erano volute visite a Castelcicala scettico ed a Maniscalco troppo cortese per evitare al ragazzo un brutto guaio dopo il Quattro Aprile. Non era bello tutto ciò; d’altra parte Tancredi non poteva mai aver torto per lo zio, la colpa vera quindi era dei tempi, di questi tempi sconclusionati durante i quali un giovanotto di buona famiglia non era libero di fare una partita a “faraone” senza inciampare in amicizie compromettenti. Brutti tempi.

“Brutti tempi, Eccellenza.” La voce di padre Pirrone risuonò come un’eco dei suoi pensieri. Compresso in un cantuccio del coupé, premuto dalla massa del Principe, piegato dalla prepotenza del Principe, il Gesuita soffriva nel corpo e nella coscienza e, uomo non mediocre qual era, trasferiva subito le proprie pene effimere nel mondo durevole della storia. “Guardi, Eccellenza” e additava i monti scoscesi della Conca d’Oro ancor chiari in quell’ultimo crepuscolo. Ai loro fianchi e sulle cime ardevano diecine di fuochi, i falò che le “squadre” ribelli accendevano ogni notte, silenziosa minaccia alla città regia e conventuale. Sembravano quelle luci che si vedono ardere nelle camere degli ammalati gravi durante le estreme nottate.

“Vedo, Padre, vedo” e pensava che forse Tancredi era attorno a uno di quei fuochi malvagi ad attizzare con le mani aristocratiche la brace che ardeva appunto per svalutare le mani di quella sorta. “Veramente son un bel tutore, col pupillo che fa qualsiasi sciocchezza gli passi per la testa.”

La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicina completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalla smisurata mole dei conventi; di questi ve ne erano diecine, tutti immani, spesso associati in gruppi di due o di tre, conventi di uomini e di donne, conventi ricchi conventi poveri, conventi nobili e conventi plebei, conventi di Gesuiti, di Benedettini, di Francescani, di Cappuccini, di carmelitani, di Liguorini, di Agostiniani... Smunte cupole alle curve incerte simili a seni svuotati di latte si alzavano ancora più in alto, ma erano essi, i conventi, a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere, il suo decoro e insieme senso di morte che neppure la frenetica luce siciliana riusciva mai a disperdere. A quell’ora, poi, a notte quasi fatta, essi erano i despoti del panorama. Ed era contro di essi che n realtà erano accesi i fuochi delle montagne, attizzati del resto da uomini assai simili a quelli che nei conventi vivevano, fanatici come essi, chiusi come essi, come essi avidi di potere, cioè, com’è l’uso, di ozio.

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Questo pensava il Principe, mentre i bai procedevano al )asso nella discesa; pensieri in contrasto con la sua essenza ‘era, partoriti dall’ansia sulla sorte di Tancredi e dallo stimolo sensuale che lo induceva a rivoltarsi contro le costrizioni che conventi incarnavano.

Adesso infatti la strada attraversava gli aranceti in fiore e ‘aroma nuziale delle zagare annullava ogni cosa come il plenilunio annulla un paesaggio: l’odore dei cavalli sudati, ‘odore di cuoio delle imbottiture, l’odor di Principe e l’odor li Gesuita, tutto era cancellato da quel profumo islamico che evocava urì e carnali oltretomba.

Padre Pirrone ne fu commosso anche lui. “Che bei paese sarebbe questo, Eccellenza, se... “ “Se non vi fossero tanti Gesuiti” pensò il Principe che dalla voce del prete aveva avuto interrotti presagi dolcissimi. E subito si pentì della villania non consumata e con la grossa mano batté sul tricorno del vecchio amico.

All’ingresso dei sobborghi della città, a villa Airoldi, una pattuglia fermò la vettura. Voci pugliesi, voci napoletane intimarono l’“alt,” smisurate baionette balenarono sotto l’oscillante luce di una lanterna; ma un sottufficiale riconobbe presto don Fabrizio che se ne stava con la tuba sulle ginocchia. “Scusate, Eccellenza, passate.” E anzi fece salire a cassetta un soldato perché non venisse disturbato dagli altri posti di blocco. Il coupé appesantito andò più lento, contornò villa Ranchibile, oltrepassò Terrerosse e gli orti di Villafranca, entro in città per Porta Maqueda. Al caffè Romeres ai Quattro Canti di Campagna gli ufficiali dei reparti di guardia scherzavano e sorbivano granite enormi. Ma fu il solo segno di vita della città: le strade erano deserte, risonanti solo del passo cadenzato delle ronde che andavano passando con le bandoliere bianche incrociate sul petto. Ai lati il basso continuo dei conventi, la Badia del Monte, le Stimmate, i Crociferi, i Teatini, pachidermici, neri come la pece, immersi in un sonno che rassomigliava al nulla.

“Fra due ore ripasserò a prendervi, Padre. Buone orazioni.” Ed il povero Pirrone bussò confuso alla porta del convento, mentre il coupé si allontanava per i vicoli.

Lasciata la vettura al palazzo il Principe si diresse a piedi là dove era deciso ad andare. La strada era breve, ma il quartiere malfamato. Soldati in completo equipaggiamento, cosicché si capiva subito che si erano allontanati furtivamente dai reparti bivaccanti nelle piazze, uscivano con gli occhi smerigliati dalle casette basse sui cui gracili balconi una pianta di basilico spiegava la facilità con la quale erano entrati. Giovinastri sinistri dai larghi calzoni litigavano nelle tonalità basse 22

dei siciliani arrabbiati. Da lontano giungeva il rumore di schioppettate sruggite a sentinelle nervose. Superata questa contrada la strada costeggiò la Cala: nel vecchio porto peschereccio le barche semiputride dondolavano, con l’aspetto desolato dei cani rognosi.

“Sono un peccatore, lo so, doppiamente peccatore, dinanzi alla legge divina e dinanzi all’affetto umano di Stella. Non vi e dubbio e domani mi confesserò a padre Pirrone.” Sorrise dentro di sé pensando che forse sarebbe stato superfluo, tanto sicuro doveva essere il Gesuita dei suoi trascorsi di oggi; poi lo spirito di arzigogolio riprese il sopravvento: “Pecco, è vero, “M pecco per non peccare più, per strapparmi questa spina carnale, per non esser trascinato in guai maggiori.

Questo il Signore lo sa.” Fu sopraffatto da un intenerimento verso sé stesso: mentalmente, piagnucolava. “Sono un pover’uomo debole,” pensava mentre il passo poderoso comprimeva l’acciottolato sudicio “sono debole e non sostenuto da nessuno. Stella! si fa presto a dire! il Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent’anni. Ma lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche.” Il senso di debolezza gli era passato. “Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che:

‘Gesummaria!’. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?”

Gridava quasi, eccitato dalla sua eccentrica angoscia. “È giusto? Lo chiedo a voi tutti!” E si rivolgeva al portico della Catena. “La vera peccatrice è lei!”

La rassicurante scoperta lo confortò e bussò deciso alla porta di Mariannina.

Due ore dopo era già in coupé sulla via del ritorno insieme con padre Pirrone.

Questi era emozionato: i suoi confratelli lo avevano messo a giorno della situazione politica che era molto più tesa di quanto non apparisse nella calma distaccata di villa Salina. Si temeva uno sbarco dei Piemontesi nel sud dell’isola, dalle parti di Sciacca; e le autorità avevano notato nel popolo un muto fermento: la teppa cittadina aspettava il primo segno di affievolimento del potere, voleva buttarsi al saccheggio e allo stupro. I Padri erano allarmati e tre di essi, i più vecchi, erano stati fatti partire per Napoli, col “pacchetto” del pomeriggio, recando con sé le carte della i Casa. “Il Signore ci protegga e risparmi questo Regno santissimo.”

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