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“Chissà cosa sta combinando.” Perché Re Ferdinando, quando aveva parlato delle cattive frequentazioni del giovanotto, aveva fatto male a dirlo ma aveva avuto, nei fatti, ragione. Preso in una rete di amici giocatori, di amiche, come si diceva, “scondottate” che la sua esile attrattiva dominava, Tancredi era giunto al punto di aver simpatie per le “sette,” relazioni col Comitato Nazionale segreto; forse prendeva anche dei quattrini da lì, come ne prendeva, d’altronde, dalla 20

Cassetta Reale. E c’era voluto del bello e del buono, c’erano volute visite a Castelcicala scettico ed a Maniscalco troppo cortese per evitare al ragazzo un brutto guaio dopo il Quattro Aprile. Non era bello tutto ciò; d’altra parte Tancredi non poteva mai aver torto per lo zio, la colpa vera quindi era dei tempi, di questi tempi sconclusionati durante i quali un giovanotto di buona famiglia non era libero di fare una partita a “faraone” senza inciampare in amicizie compromettenti. Brutti tempi.

“Brutti tempi, Eccellenza.” La voce di padre Pirrone risuonò come un’eco dei suoi pensieri. Compresso in un cantuccio del coupé, premuto dalla massa del Principe, piegato dalla prepotenza del Principe, il Gesuita soffriva nel corpo e nella coscienza e, uomo non mediocre qual era, trasferiva subito le proprie pene effimere nel mondo durevole della storia. “Guardi, Eccellenza” e additava i monti scoscesi della Conca d’Oro ancor chiari in quell’ultimo crepuscolo. Ai loro fianchi e sulle cime ardevano diecine di fuochi, i falò che le “squadre” ribelli accendevano ogni notte, silenziosa minaccia alla città regia e conventuale. Sembravano quelle luci che si vedono ardere nelle camere degli ammalati gravi durante le estreme nottate.

“Vedo, Padre, vedo” e pensava che forse Tancredi era attorno a uno di quei fuochi malvagi ad attizzare con le mani aristocratiche la brace che ardeva appunto per svalutare le mani di quella sorta. “Veramente son un bel tutore, col pupillo che fa qualsiasi sciocchezza gli passi per la testa.”

La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicina completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalla smisurata mole dei conventi; di questi ve ne erano diecine, tutti immani, spesso associati in gruppi di due o di tre, conventi di uomini e di donne, conventi ricchi conventi poveri, conventi nobili e conventi plebei, conventi di Gesuiti, di Benedettini, di Francescani, di Cappuccini, di carmelitani, di Liguorini, di Agostiniani... Smunte cupole alle curve incerte simili a seni svuotati di latte si alzavano ancora più in alto, ma erano essi, i conventi, a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere, il suo decoro e insieme senso di morte che neppure la frenetica luce siciliana riusciva mai a disperdere. A quell’ora, poi, a notte quasi fatta, essi erano i despoti del panorama. Ed era contro di essi che n realtà erano accesi i fuochi delle montagne, attizzati del resto da uomini assai simili a quelli che nei conventi vivevano, fanatici come essi, chiusi come essi, come essi avidi di potere, cioè, com’è l’uso, di ozio.

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Questo pensava il Principe, mentre i bai procedevano al )asso nella discesa; pensieri in contrasto con la sua essenza ‘era, partoriti dall’ansia sulla sorte di Tancredi e dallo stimolo sensuale che lo induceva a rivoltarsi contro le costrizioni che conventi incarnavano.

Adesso infatti la strada attraversava gli aranceti in fiore e ‘aroma nuziale delle zagare annullava ogni cosa come il plenilunio annulla un paesaggio: l’odore dei cavalli sudati, ‘odore di cuoio delle imbottiture, l’odor di Principe e l’odor li Gesuita, tutto era cancellato da quel profumo islamico che evocava urì e carnali oltretomba.

Padre Pirrone ne fu commosso anche lui. “Che bei paese sarebbe questo, Eccellenza, se... “ “Se non vi fossero tanti Gesuiti” pensò il Principe che dalla voce del prete aveva avuto interrotti presagi dolcissimi. E subito si pentì della villania non consumata e con la grossa mano batté sul tricorno del vecchio amico.

All’ingresso dei sobborghi della città, a villa Airoldi, una pattuglia fermò la vettura. Voci pugliesi, voci napoletane intimarono l’“alt,” smisurate baionette balenarono sotto l’oscillante luce di una lanterna; ma un sottufficiale riconobbe presto don Fabrizio che se ne stava con la tuba sulle ginocchia. “Scusate, Eccellenza, passate.” E anzi fece salire a cassetta un soldato perché non venisse disturbato dagli altri posti di blocco. Il coupé appesantito andò più lento, contornò villa Ranchibile, oltrepassò Terrerosse e gli orti di Villafranca, entro in città per Porta Maqueda. Al caffè Romeres ai Quattro Canti di Campagna gli ufficiali dei reparti di guardia scherzavano e sorbivano granite enormi. Ma fu il solo segno di vita della città: le strade erano deserte, risonanti solo del passo cadenzato delle ronde che andavano passando con le bandoliere bianche incrociate sul petto. Ai lati il basso continuo dei conventi, la Badia del Monte, le Stimmate, i Crociferi, i Teatini, pachidermici, neri come la pece, immersi in un sonno che rassomigliava al nulla.

“Fra due ore ripasserò a prendervi, Padre. Buone orazioni.” Ed il povero Pirrone bussò confuso alla porta del convento, mentre il coupé si allontanava per i vicoli.

Lasciata la vettura al palazzo il Principe si diresse a piedi là dove era deciso ad andare. La strada era breve, ma il quartiere malfamato. Soldati in completo equipaggiamento, cosicché si capiva subito che si erano allontanati furtivamente dai reparti bivaccanti nelle piazze, uscivano con gli occhi smerigliati dalle casette basse sui cui gracili balconi una pianta di basilico spiegava la facilità con la quale erano entrati. Giovinastri sinistri dai larghi calzoni litigavano nelle tonalità basse 22

dei siciliani arrabbiati. Da lontano giungeva il rumore di schioppettate sruggite a sentinelle nervose. Superata questa contrada la strada costeggiò la Cala: nel vecchio porto peschereccio le barche semiputride dondolavano, con l’aspetto desolato dei cani rognosi.

“Sono un peccatore, lo so, doppiamente peccatore, dinanzi alla legge divina e dinanzi all’affetto umano di Stella. Non vi e dubbio e domani mi confesserò a padre Pirrone.” Sorrise dentro di sé pensando che forse sarebbe stato superfluo, tanto sicuro doveva essere il Gesuita dei suoi trascorsi di oggi; poi lo spirito di arzigogolio riprese il sopravvento: “Pecco, è vero, “M pecco per non peccare più, per strapparmi questa spina carnale, per non esser trascinato in guai maggiori.

Questo il Signore lo sa.” Fu sopraffatto da un intenerimento verso sé stesso: mentalmente, piagnucolava. “Sono un pover’uomo debole,” pensava mentre il passo poderoso comprimeva l’acciottolato sudicio “sono debole e non sostenuto da nessuno. Stella! si fa presto a dire! il Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent’anni. Ma lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche.” Il senso di debolezza gli era passato. “Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che:

‘Gesummaria!’. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?”

Gridava quasi, eccitato dalla sua eccentrica angoscia. “È giusto? Lo chiedo a voi tutti!” E si rivolgeva al portico della Catena. “La vera peccatrice è lei!”

La rassicurante scoperta lo confortò e bussò deciso alla porta di Mariannina.

Due ore dopo era già in coupé sulla via del ritorno insieme con padre Pirrone.

Questi era emozionato: i suoi confratelli lo avevano messo a giorno della situazione politica che era molto più tesa di quanto non apparisse nella calma distaccata di villa Salina. Si temeva uno sbarco dei Piemontesi nel sud dell’isola, dalle parti di Sciacca; e le autorità avevano notato nel popolo un muto fermento: la teppa cittadina aspettava il primo segno di affievolimento del potere, voleva buttarsi al saccheggio e allo stupro. I Padri erano allarmati e tre di essi, i più vecchi, erano stati fatti partire per Napoli, col “pacchetto” del pomeriggio, recando con sé le carte della i Casa. “Il Signore ci protegga e risparmi questo Regno santissimo.”

Don Fabrizio lo ascoltava appena, immerso com’era in una serenità sazia maculata di ripugnanza. Mariannina lo aveva guardato con gli occhi opachi di 23

contadina, non si era rifiutata a niente, si era mostrata umile e servizievole. Una specie di Bendicò in sottanino di seta. In un istante di particolare deliquescenza le era anche occorso di esclamare: “Principone!” Lui ne sorrideva ancora, soddisfatto. Meglio questo, certo, che i “mon chat” od i “mon singe blond” che rivelavano i momenti omologhi di Sarah, la sgualdrinella parigina che aveva frequentato tre anni fa quando per il Congresso d’Astronomia gli avevano consegnato in Sorbona una medaglia d’argento. Meglio di “mon singe blond” senza dubbio; molto meglio poi di “Gesummaria”; niente sacrilegio, almeno. Era una buona figliuola Mariannina: le avrebbe portato tre canne di seta ponzò, la prossima volta.

Ma che tristezza, anche: quella carne giovane troppo maneggiata, quella impudicizia rassegnata; e lui stesso, che cosa era? un porco, e niente altro. Gli ritornò in mente un verso che aveva letto per caso in una libreria di Parigi sfogliando un volume di non sapeva più chi, di uno di quei poeti che la Francia sforna e dimentica ogni settimana. Rivedeva la colonna giallo-limone degli esemplari invenduti, la pagina, una pagina pari, e riudiva i versi che stavano li a conchiudere una poesia strampalata:

Seigneur, donnez-moi la force et le courage

de regarder mon coeur et mon corps sans dégout!

E mentre padre Pirrone continuava a occuparsi di un certo La Farina e di un certo Crispi, il “Principone” si addormentò, in una sorta di disperata euforia, cullato dal trotto dei bai sulle cui natiche grasse i lampioncini della vettura facevano oscillare la luce. Si risvegliò alla svolta dinanzi alla villa Falconeri.

“Quello lì pure, che alimenta i tizzoni che lo divoreranno!”

Quando si trovò nella camera matrimoniale, il vedere la povera Stella con i capelli ben ravviati sotto la cuffietta, dormire sospirando nel grandissimo, altissimo letto di rame, lo commosse e intenerì. “Sette figli mi ha dato, ed è stata mia soltanto.” Un odore di valeriana vagava per la camera, ultima vestigio della crisi isterica. “Povera Stelluccia mia” si rammaricava scalando il letto. Le ore passarono e non poteva dormire: “lo, con la mano possente mescolava nei suoi pensieri tre «lochi: quello delle carezze di Mariannina, quello dei versi All’ignoto, quello iracondo dei roghi sui monti.

Verso l’alba però, la Principessa ebbe occasione di farsi il segno della croce.

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La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò posava il testone pesante sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. “Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa?” “Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo.” Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. “E chi erano queste conoscenze, si può sapere?” “Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!” Era davvero troppo insolente, credeva di poter permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. Il Principe si sentì offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l’animo di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. “Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina?” Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile.

“Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti.” Il povero Salina si senti stringere il cuore. “Un duello?” “Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi.” Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente!, Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.” Gli occhi ripresero a sorridere. “Per il Re, certo, ma per quale Re?” Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?” Abbracciò lo zio un po’ commosso. “Arrivederci a 25

presto. Ritornerò col tricolore.” La retorica degli amici aveva stinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi era un accento che smentiva l’enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di “Guiscardo!” Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si strappò l’asciugamani dal collo, frugò in un cassetto. “Tancredi, Tancredi, aspetta,” corse dietro al nipote, gli mise in tasca un rotolino di “onze”

d’oro, gli premette la spalla. Quello rideva: “Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e tanti abbracci alla zia.” E si precipitò giù per le scale.

Venne richiamato Bendicò che inseguiva l’amico riempiendo la villa di urla gioiose, la rasatura fu completata, il viso lavato. Il cameriere venne a vestire e calzare il Principe. “Il tricolore! Bravo, il tricolore! Si riempiono la bocca con questa parola, i bricconi. E che cosa significa questo segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, così brutta in confronto alla nostra bandiera candida con l’oro gigliato dello stemma? E che cosa può far loro sperare quest’accozzaglia di colori stridenti?” Era il momento di avvolgere attorno al collo il monumentale cravattone di raso nero. Operazione difficile durante la quale i pensieri politici era bene venissero sospesi. Un giro, due giri, tre giri. Le grosse dita delicate componevano le pieghe, spianavano gli sbuffi, appuntavano sulla seta la testina di Medusa con gli occhi di rubino. “Un gilet pulito. Non vedi che questo è macchiato?” Il cameriere si sollevò sulla punta dei piedi per infilargli la redingote di panno marrone; gli porse il fazzoletto con le tre gocce di bergamotto.

Le chiavi, l’orologio con catena, il portamonete se li mise in tasca da sé. Si guardò allo specchio: non c’era da dire era ancora un bell’uomo. “‘Rudere libertino!’

Scherza pesante quella canaglia! Vorrei vederlo alla mia età, quattro ossa incatenate come è lui”.

II passo vigoroso faceva tinnire i vetri dei saloni che attraversava. La casa eraserena, luminosa e ornata; soprattutto era sua. Scendendo le scale, capì. “Sevogliamo che tutto rimanga com’è... “ Tancredi era un grand’uomo: lo aveva semprepensato.

Le stanze dell’Amministrazione erano ancora deserte silenziosamente illuminate dal sole attraverso le persiane chiuse. Benché fosse quello il posto della villa nel quale si compivano le maggiori frivolità, il suo aspetto era di austerità severa. Dalle pareti a calce si riflettevano sul pavimento tirato a cera gli enormi quadri rappresentanti i feudi di casa Salina: spiccanti a colori vivaci 26

dentro le cornici nere e oro si vedeva Salina, l’isola dalle montagne gemelle, attorniate da un mare tutto trine di spuma, sul quale galere pavesate caracollavano; Querceta con le sue case basse attorno alla Chiesa Madre verso la quale procedevano gruppi di pellegrini azzurrognoli; Ragattisi stretto fra le gole dei monti; Argivocale minuscolo nella smisuratezza della pianura frumentaria cosparsa di contadini operosi; Donnafugata con il suo palazzo barocco, meta di cocchi scarlatti, di cocchi verdini, di cocchi dorati, carichi a quanto sembrava di femmine di bottiglie e di violini; molti altri ancora, tutti protetti sotto cielo terso e rassicurante dal Gattopardo sorridente fra i lunghi mustacchi. Ognuno festoso, ognuno desideroso di esaltare l’illuminato imperio tanto “misto” che “mero” di casa Salina. Ingenui capolavori di arte rustica del secolo scorso; inatti però a delimitare confini, precisare aree, redditi; cose che infatti rimanevano ignote. La ricchezza, nei molti secoli di esistenza si era mutata in ornamento, in lusso, in piaceri; soltanto in questo; l’abolizione dei diritti feudali aveva decapitato gli obblighi insieme ai privilegi, la ricchezza come un vino vecchio aveva lasciato cadere in fondo alla botte le fecce della cupidigia, delle cure, anche quelle della prudenza, per conservare soltanto l’ardore e il colore. Ed a questo modo finiva con l’annullare sé stessa: questa ricchezza che aveva realizzato il proprio fine era composta solo di oli essenziali e come gli oli essenziali evaporava in fretta. Di già alcuni di quei feudi tanto festosi nei quadri avevano preso il volo e permanevano soltanto nelle tele variopinte e nei nomi. Altri sembravano quelle rondini settembrine ancor presenti ma di già radunate stridenti sugli alberi, pronte a partire. Ma ve ne erano tanti; sembrava non potessero mai finire.

Malgrado quest’ultima considerazione, la sensazione provata dal Principe entrando nel proprio studio fu, come sempre, sgradevole. Nel centro della stanza torreggiava una scrivania con decine di cassetti, nicchie, incavi, ripostigli e piani inclinati. La sua mole di legno giallo e nero era scavata e truccata come un palcoscenico, piena di trappole, di piani scorrevoli, di accorgimenti di segretezza che nessuno sapeva più far funzionare all’infuori dei ladri. Era coperta di carte e benché la previdenza del Principe avesse avuto cura che buona parte di esse si riferisse alle atarassiche regioni dominate dall’astronomia, quel che avanzava era sufficiente a riempire di disagio il cuore suo. Gli tornò in mente ad un tratto la scrivania di Re Ferdinando a Caserta, anch’essa ingombra di pratiche e di decisioni da prendere con le quali ci si potesse illudere d’influire sul torrente delle sorti che invece irrompeva per conto suo, in un’altra vallata.

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Don Fabrizio pensò a una medicina scoperta da poco negli Stati Uniti d’America che permetteva di non soffrire durante le operazioni più crudeli, di rimanere sereni fra le sventure. Morfina lo avevano chiamato questo rozzo surrogato chimico dello stoicismo pagano, della rassegnazione cristiana. Per il povero Re l’amministrazione fantomatica teneva luogo di morfina; lui, Salina, ne aveva una di più eletta composizione: l’astronomia. Cacciando le immagini di Ragattisi perduto e di Argivocale pencolante si tuffò nella lettura del più recente numero del Journal des savants. “Les dernières observations de l’Observatoire de Greenwich présentent un intéret tout particulier...”

Dovette però esiliarsi presto da quei sereni regni stellari. Entrò don CiccioFerrara, il contabile. Era un ometto asciutto che nascondeva l’anima illusa e rapacedi un liberale dietro occhiali rassicuranti e cravattini immacolati. Quella mattina erapiù arzillo del consueto: appariva chiaro che quelle stesse letizie che avevanodepresso padre Pirrone avevano agito su di lui come un cordiale. “Tristi tempi,Eccellenza” disse dopo gli ossequi rituali “stanno per succedere grossi guai, madopo un po’ di trambusto e di sparatorie tutto andrà per il meglio, nuovi tempigloriosi verranno per la nostra Sicilia; non Fosse che tanti figli di mamma cirimetteranno la pelle, non potremmo che essere contenti.” Il Principe borbottavasenza esprimere un’opinione. “Don Ciccio” disse poi “bisogna mettere dell’ordinenella esazione dei canoni di Querceta; sono due anni che da lì non si vede unquattrino.” “La contabilità è a posto, Eccellenza.” Era la frase magica. “Occorresoltanto scrivere a don Angelo Mazza di eseguire le procedure; sottoporrò oggistesso la lettera alla vostra firma” e se ne andò a rimestare fra gli enormi registrinei quali, con due anni di ritardo, erano minutamente calligrafati tutti i conti di casaSalina, meno quelli davvero importanti.

Rimasto solo don Fabrizio ritardò il proprio tuffo nelle nebulose. Era irritato non già contro gli avvenimenti che si preparavano ma contro la stupidaggine di Ferrara nel quale aveva ad un tratto identificato una delle classi che sarebbero divenute dirigenti. “Quel che dice il buon uomo è proprio l’opposto della verità.

Compiange i molti figli di mamma che creperanno e questi saranno invece molto pochi, se conosco il carattere dei due avversari; proprio non uno di più di quanto sarà necessario alla compilazione di un bollettino di vittoria a Napoli o a Torino, che è poi la stessa cosa. Crede invece ai ‘tempi gloriosi per la nostra Sicilia’ come si esprime lui; il che ci è stato promesso in occasione di ognuno dei cento sbarchi, da Nicia in poi, e che non è mai successo. E, del resto, perché avrebbe dovuto 28

succedere? E allora che cosa avverrà? Trattative punteggiate da schioppettate quasi innocue e, dopo, tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato.” Gli erano tornate in mente le parole ambigue di Tancredi che adesso però comprendeva a fondo. Si rassicurò e tralasciò di sfogliare la rivista. Guardava i fianchi di Monte Pellegrino arsicci, scavati ed eterni come la miseria.

Poco dopo venne Russo il soprastante, l’uomo che il Principe trovava più significativo fra i suoi dipendenti. Svelto, ravvolto non senza eleganza nella

«bunaca» di velluto rigato, con gli occhi avidi sotto una fronte senza rimorsi, era per lui la perfetta espressione di un ceto in ascesa. Ossequioso del resto e quasi sinceramente devoto poiché compiva le proprie ruberie convinto di esercitare un diritto. “Immagino quanto Vostra Eccellenza sarà seccato per la partenza del signorino Tancredi; ma la sua assenza non durerà molto, ne sono sicuro, e tutto andrà a finire bene.” Ancora una volta il Principe si trovò di fronte a uno degli enigmi siciliani. In questa isola segreta dove le case sono sbarrate e i contadini dicono d’ignorare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede li sul colle a dieci minuti di strada, in quest’isola, malgrado l’ostentato lusso di mistero, la riservatezza è un mito.

Fece cenno a Russo di sedere, lo guardò fisso negli occhi: “Pietro, parliamoci da uomo a uomo, tu pure sei immischiato in queste faccende?” Immischiato non era, rispose, era padre di famiglia e questi rischi sono roba da giovanotti come il signorino Tancredi. “Si figuri se nasconderei qualcosa a Vostra Eccellenza che è come mio padre.” (Intanto, tre mesi fa, aveva nascosto nel suo magazzino centocinquanta ceste di limoni del Principe e sapeva che il Principe lo sapeva.)

Are sens