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La conversazione in seguito si disperse in mille rivoli inutili: Don Fabrizio si ricordò di Tumeo rinchiuso all’oscuro nella stanza dei fucili, e per l’ennesima volta in vita deplorò la durata delle visite paesane e finì col rinchiudersi in un silenzio risentito; don Calogero capì, promise di ritornare l’indomani mattina per recare il non dubbio consenso di Angelica e si congedò. Fu accompagnato per due salotti, fu riabbracciato e scese le scale mentre il Principe torreggiando dall’alto, guardava rimpicciolirsi quel mucchietto di astuzia, di abiti mal tagliati, di oro e d’ignoranza che adesso entrava quasi a far parte della famiglia.

Tenendo in mano una candela andò poi a liberare Tumeo che se ne stava rassegnato al buio fumando la propria pipa. “Mi dispiace don Ciccio, ma, capirete, lo dovevo fare.” “Capisco, Eccellenza, capisco. Tutto è andato bene, almeno?”

“Benissimo, non si poteva meglio.” Tumeo biascicò delle congratulazioni, rimise il laccio al collare di Teresina che dormiva stremata dalla caccia, raccattò il carniere. “Prendete anche le mie beccacce, ve le siete meritate. Arrivederci, caro don Ciccio, fatevi vedere presto. E scusatemi per ogni cosa.” Una potente manacciata sulle spalle servi da segno di riconciliazione e da richiamo di potenza; l’ultimo fedele di casa Salina se ne andò alle sue povere stanze.

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Quando il Principe ritornò nel suo studio trovò che Padre Pirrone era sgattaiolato via per evitare discussioni; e si diresse verso la camera della moglie per raccontarle i fatti. Il rumore dei suoi passi vigorosi e rapidi lo preannunciava a dieci metri di distanza. Traversò la stanza di soggiorno delle ragazze: Carolina e Caterina arrotolavano un gomitolo di lana ed al suo passaggio si alzarono sorridenti; mademoiselle Dombreuil si tolse in fretta gli occhiali e rispose compunta al suo saluto; Concetta aveva le spalle voltate; ricamava al tombolo e, poiché non udì passare il padre, non si volse neppure.

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PARTE QUARTA

Novembre 1860

Dai più frequenti contatti derivati dall’accordo nuziale cominciò a nascere in Don Fabrizio una curiosa ammirazione per i meriti di Sedàra. La consuetudine fini con l’abituarlo alle guance mal rasate, all’accento plebeo, agli abiti bislacchi ed al persistente olezzo di sudore, ed egli fu libero di avvedersi della rara intelligenza dell’uomo; molti problemi che apparivano insolubili al Principe venivano risolti in quattro e quattro otto da don Calogero; liberato come questi era dalle cento pastoie che l’onestà, la decenza e magari la buona educazione impongono alle azioni di molti altri uomini, egli procedeva nella foresta della vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti.

Allevato, invece, in valletto amene percorse dagli zeffiri cortesi dei “Per piacere” “ti sarei grato” “mi faresti un favore” “sei stato molto gentile,” il Principe adesso, quando chiacchierava con don Calogero si trovava allo scoperto su una landa spazzata da venti asciutti e, pur continuando a preferire in cuor suo gli anfratti dei monti, non poteva non ammirare la toga di queste correnti d’aria che dai lecci e dai cedri di Donnafugata traeva arpeggi mai uditi prima.

Pian piano, quasi senza avvedersene, Don Fabrizio esponeva a don Calogero i propri affari che erano numerosi, complessi e da lui stesso mal conosciuti; questo non già per difetto di penetrazione ma per una sorta di sprezzante indifferenza al riguardo di questo genere di cose, reputate infime, e causata in fondo dalla indolenza e dalla sempre sperimentata facilità con la quale era uscito dai mali passi mediante la vendita di qualche ventina fra le migliaia dei propri ettari.

Gli atti che don Calogero consigliava dopo aver ascoltato dal Principe e riordinato da sé il racconto, erano quanto mai opportuni e di effetto immediato, ma il risultato finale dei consigli concepiti con crudele efficienza ed applicati dal bonario Don Fabrizio con timorata mollezza, fu che con l’andar degli anni casa Salina si acquistò fama di esosità verso i propri dipendenti, fama in realtà quanto mai immeritata ma che distrusse il prestigio di essa a Donnafugata ed a 94

Querceta, senza che peraltro il franare del patrimonio venisse in alcun modo arginato.

Non sarebbe equo tacere che una frequentazione più assidua del Principe aveva avuto un certo effetto anche su Sedàra. Sino a quel momento egli aveva incontrato degli aristocratici soltanto in riunioni di affari (cioè di compravendite) o in seguito ad eccezionalissimi e lunghissimamente meditati inviti a feste, due sorta di eventualità durante le quali questi singolari esemplari sociali non mostrano il proprio aspetto migliore. In occasione di questi incontri egli si era formato la convinzione che l’aristocrazia consistesse unicamente di uomini-pecore, che esistevano soltanto per abbandonare la lana dei loro beni alle sue forbici tosatrici ed il nome, illuminato da un inspiegabile prestigio, a sua figlia.

Ma già con la sua conoscenza del Tancredi dell’epoca postgaribaldina si era trovato di fronte ad un campione inatteso di giovane nobile, arido quanto lui, capace di barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanze altrui, pur sapendo rivestire queste azioni “sedaresche” di una grazia e di un fascino che egli sentiva di non possedere, che subiva senza rendersene conto e senza in alcun modo poter discernerne le origini. Quando, poi, ebbe imparato a conoscere meglio Don Fabrizio ritrovò sì in lui la mollezza e l’incapacità a difendersi che erano le caratteristiche del suo pre-formato nobile-pecora, ma in più una forza di attrazione differente in tono ma uguale in intensità a quella del giovane Falconeri; inoltre ancora una certa energia tendente verso l’astrazione, una disposizione a cercare la forma di vita in ciò che da lui stesso uscisse e non in ciò che poteva strappare agli altri; da questa energia astrattiva egli rimase fortemente colpito benché gli si presentasse grezza e non riducibile in parole come qui si è tentato di fare; si avvide però che buona parte di questo fascino scaturiva dalle buone maniere e si rese conto di quanto un uomo beneducato sia piacevole, perché in fondo non è altro che qualcheduno che elimina le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo (formula nella quale l’efficacia dell’aggettivo gli fece tollerare l’inutilità del sostantivo). Lentamente don Calogero capiva che un pasto in comune non deve di necessità essere un uragano di rumori masticatori e di macchie d’unto; che una conversazione può benissimo non rassomigliare a una lite fra cani; che dar la precedenza a una donna è segno di forza e non, come aveva creduto, di debolezza; che da un interlocutore si può ottenere di più se gli si dice “non mi sono spiegato bene” anziché “non hai capito 95

un corno,” e che adoperando simili accorgimenti, cibi, donne, argomenti e interlocutori vengono a guadagnarci a tutto profitto anche di chi li ha trattati bene.

Sarebbe ardito affermare che don Calogero approfittasse subito di quanto avevaappreso; egli seppe da allora in poi radersi un po’ meglio e spaventarsi meno dellaquantità di sapone adoperato nel bucato, e null’altro; ma fu da quel momento che siiniziò, per lui ed i suoi, quel costante raffinarsi di una classe che nel corso di tregenerazioni trasforma efficienti cafoni in gentiluomini indifesi.

La prima visita di Angelica alla famiglia Salina da fidanzata si era svolta regolata da una regia impeccabile. Il contegno della ragazza era stato perfetto a tal punto che sembrava suggerito gesto per gesto, parola per parola, da Tancredi; ma le comunicazioni lente del tempo rendevano insostenibile questa eventualità e si fu costretti a ricorrere a una ipotesi, a quella di suggerimenti anteriori allo stesso fidanzamento Sciale; ipotesi arrischiata anche per chi meglio credesse di conoscere la preveggenza del Principino, ma non del tutto assurda. Angelica giunse alle sei di sera in bianco e rosa; le soffici trecce nere ombreggiate da una grande paglia ancora estiva sulla quale grappoli di uva artificiale e spighe dorate evocavano discrete i vigneti di Gibildolce e i granai di Settesoli. In sala d’ingresso piantò li il padre; nello sventolio dell’ampia gonna sali leggera i non pochi scalini della scala interna e si gettò nelle braccia di Don Fabrizio; gli diede, sulle basette, due bei bacioni che furono ricambiati con genuino affetto; il Principe si attardò un attimo forse più del necessario a fiutare l’aroma di gardenia delle guance adolescenti. Dopo di che Angelica arrossi, retrocedette di mezzo passo: “Sono tanto, tanto felice...” Si avvicinò di nuovo e, ritta sulla punta delle scarpine gli sospirò all’orecchio: “Zione!”. Felicissimo gag, di regìa paragonabile in efficacia addirittura alla carrozzella da bambini di Eisenstein, e che, esplicito e segreto com’era, mandò in visibilio il cuore semplice del Principe e lo aggiogò definitivamente alla bella figliola. Don Calogero intanto saliva le scale e diceva quanto dolente fosse sua moglie di non poter essere li, ma ieri sera aveva inciampato in casa e si era prodotta una distorsione al piede sinistro, assai dolorosa. “Ha il collo del piede come una melanzana, Principe.” Don Fabrizio, esilarato dalla carezza verbale e che, d’altra parte, le rivelazioni di Tumeo avevano rassicurato sulla innocuità della propria cortesia, si procurò il piacere di proporre di andare lui stesso subito dalla signora Sedàra, proposta che sbigottì don Calogero che venne costretto per respingerla ad appioppare un secondo malanno 96

alla consorte, una emicrania questa volta, che costringeva la poveretta a stare nell’oscurità.

Intanto il Principe dava il braccio ad Angelica; si traversarono parecchi saloni quasi all’oscuro, vagamente rischiarati da lumini a olio che permettevano a malapena di trovare la strada; in fondo alla prospettiva delle sale splendeva invece il “salone di Leopoldo,” dove stava il resto della famiglia e questo procedere attraverso il buio deserto verso il chiaro centro dell’intimità aveva il ritmo di una iniziazione massonica. La famiglia si affollava sulla porta. La Principessa aveva ritirato le proprie riserve dinanzi all’ira maritale che le aveva, non è sufficiente dire respinte, ma addirittura fulminate nel nulla; baciò ripetutamente la bella futura nipote e la strinse a sé tanto forte che alla giovinetta rimase impresso sulla pelle il contorno della famosa collana di rubini dei Salina che Maria Stella aveva tenuto a portare, benché fosse giorno, in segno di festa grande; Francesco Paolo, il sedicenne, fu lieto di avere l’opportunità eccezionale di baciare anch’egli Angelica sotto lo sguardo impotentemente geloso del padre; Concetta fu affettuosa in modo particolare; la sua gioia era così intensa da farle salire le lagrime agli occhi; le altre sorelle si stringevano attorno a lei rumorosamente liete appunto perché non commosse; Padre Pirrone, poi, che santamente non era insensibile al fascino muliebre nel quale si compiaceva di ravvisare una prova irrefutabile della Bontà Divina, senti fondere tutte le proprie obiezioni dinanzi al tepore della grazia (col g minuscolo). E le mormorò: “Veni, sponsa de Libano”; dovette poi un po’

contrastare per non fare risalire alla propria memoria altri più calorosi versetti; mademoiselle Dombreuil, come si conviene alle governanti, piangeva di emozione, stringeva fra le sue mani deluse le spalle fiorenti della fanciulla dicendo:

“Angelica, Angelica, pensons à la joie de Tancrède. “ Bendicò soltanto, in contrasto con la consueta sua socievolezza, ringhiava nel fondo della propria gola, finché venne energicamente messo a posto da un Francesco Paolo indignato cui le labbra fremevano ancora.

Su ventiquattro dei quarantotto bracci del lampadario era stata accesa una candela e ognuno di questi ceri candido e acceso insieme, poteva sembrare una vergine che si struggesse di amore; i fiori bicolori di Murano sul loro stelo di curvo vetro guardavano in giù, ammiravano colei che entrava e le rivolgevano un sorriso cangiante e fragile. Il grande caminetto era acceso più in segno di giubilo che per riscaldare l’ambiente ancora tiepido e la luce delle fiamme palpitava sul pavimento, sprigionava intermittenti bagliori dalle dorature svanite del Mobilio; 97

esso rappresentava davvero il focolare domestico, il simbolo della casa, e in esso i tizzoni alludevano a sfavillii di desideri, la brace a contenuti ardori.

Dalla Principessa, che possedeva in grado eminente la Scolta di ridurre le emozioni al minimo comun denominatore, Annero narrati sublimi episodi della fanciullezza di Tancredi; e tanto essa insistette su questi che davvero si sarebbe potuto credere che Angelica dovesse riputarsi fortunata di sposare un uomo che a sei anni era stato tanto ragionevole da sottomettersi ai clisterini indispensabili senza far storie, e a dodici tanto ardito da aver osato rubare una manata di ciliegie; mentre questo episodio di banditismo temerario veniva ricordato, Concetta si mise a ridere: “Questo è un vizio che Tancredi non si è ancora potuto togliere” disse “ricordi, papa, quando due mesi fa ti ha portato via quelle pesche alle quali tenevi tanto?”; poi si rabbuiò ad un tratto come se fosse stata presidente di una società di frutticoltura danneggiata.

Presto la voce di Don Fabrizio pose in ombra queste inezie; parlò del Tancredi di adesso, del giovanotto sveglio e attento, sempre pronto a una di quelle uscite che rapivano chi gli voleva bene ed esasperavano gli altri; raccontò come durante un soggiorno a Napoli, presentato alla duchessa di Sanqualchecosa questa si fosse presa di una passione per lui e voleva vederlo a casa mattina, pomeriggio e sera, non importa se si trovasse in salotto o a letto, perché, diceva, nessuno sapeva raccontare les petits riens come lui; e benché Don Fabrizio si affrettasse a precisare come allora Tancredi non avesse ancora sedici anni e la duchessa fosse al di là della cinquantina, gli occhi di Angelica lampeggiarono perché essa possedeva precise informazioni sui giovanottini palermitani e forti intuizioni sul conto delle duchesse napoletane.

Se da questa attitudine di Angelica si volesse dedurre che essa amava Tancredi, ci si sbaglierebbe: essa possedeva troppo orgoglio e troppa ambizione per essere capace di quell’annullamento, provvisorio, della propria personalità senza il quale non c’è amore; inoltre la propria limitata esperienza giovanile e sociale non le permetteva ancora di apprezzare le reali qualità di lui, composte tutte di sfumature sottili; però, pur non amandolo, essa era, allora, innamorata di lui, il che è assai differente; gli occhi azzurri, l’affettuosità scherzosa, certi toni improvvisamente gravi della sua voce le causavano, anche nel ricordo, un turbamento preciso, e in quei giorni non desiderava altro che di esser piegata da quelle mani; piegata che fosse stata le avrebbe dimenticate e sostituite, come infatti avvenne, ma per il momento ad esser ghermita da lui essa teneva assai.

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Quindi la rivelazione di quella possibile relazione galante (che era, del resto, inesistente) le causò un attacco del più assurdo fra i flagelli, quello della gelosia retrospettiva; attacco presto dissipato, però, da un freddo esame dei vantaggi erotici ed extra-erotici che le sue nozze con Tancredi recavano.

Don Fabrizio continuava ad esaltare Tancredi; trascinato dall’affetto parlava di lui come di un Mirabeau: “Ha cominciato presto ed ha cominciato bene; la strada che farà è molta.” La fronte liscia di Angelica si chinava nell’assenso; in realtà all’avvenire politico di Tancredi non badava. Era una delle molte ragazze che considerano gli avvenimenti pubblici come svolgentisi in un universo separato e non immaginava neppure che un discorso di Cavour potesse con l’andar del tempo, attraverso mille ingranaggi minuti, influire sulla vita di lei e mutarla.

Pensava in siciliano: “Noi avremo il ‘furmento’ e questo ci basta; che strada e strada!” Ingenuità giovanili queste, che essa doveva in seguito rinnegare quando, nel corso degli anni, divenne una delle più viperine Egerie di Montecitorio e della Consulta.

“E poi, Angelica, voi non sapete ancora quanto è divertente Tancredi! Sa tutto, di tutto coglie un aspetto imprevisto. Quando si è con lui, quando è in vena, il mondo appare più buffo di come appaia sempre, talvolta anche più serio.” Che Tancredi fosse divertente Angelica lo sapeva; che fosse capace di rivelare mondi nuovi essa non soltanto lo sperava ma aveva ragione di sospettarlo fin dalla fine del mese scorso, nei giorni del famoso ma non unico bacio ufficialmente constatato che era stato infatti qualcosa di molto più sottile e sapido di quel che fosse stato il solo altro suo esemplare, quello regalatele dal ragazzetto giardiniere a Poggio a Calano, più di un anno fa. Ma ad Angelica importava poco dei tratti di spirito, della intelligenza anche, del fidanzato, assai meno ad ogni modo di quanto queste cose importassero a quel caro Don Fabrizio, tanto caro davvero, ma anche tanto “intellettuale.” In Tancredi essa vedeva la possibilità di avere un posto eminente nel Biondo nobile della Sicilia, mondo che essa considerava pieno di meraviglie assai differenti da quelle che esso in realtà conteneva ed in lui desiderava anche un vivace compagno di abbracciamenti. Se per di più era anche intellettualmente superiore, tanto meglio; ma lei, per conto suo, non ci teneva.

Divertirsi si poteva sempre. Per il momento, spiritoso o sciocco che fosse avrebbe voluto averlo qui, che le stuzzicasse almeno la nuca, di sotto le trecce, come soleva fare, fra l’altro. “Dio, Dio, come vorrei che fosse qui, tra noi, ora!”

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Esclamazione che commosse tutti, sia per la evidente sincerità, come per l’ignoranza in cui restava la sua cagione e che conchiuse la felicissima prima visita. Poco dopo infatti Angelica e suo padre si congedarono; preceduti da un mozzo di scuderia con una lanterna accesa che con l’oro incerto della sua luce accendeva il rosso delle foglie cadute dei platani, padre e figlia rientrarono in quella loro casa l’ingresso della quale era stato vietato a Peppe ‘Mmerda dalle

“lupare” che gli strafotterono i reni.

Un’abitudine nella quale si era riannidato Don Fabrizio ridiventato sereno era quella delle letture serali. In autunno, dopo il Rosario, poiché faceva troppo buio per uscire la famiglia si riuniva attorno al caminetto aspettando l’ora di pranzo, ed il Principe leggeva ai suoi, a puntate, un romanzo moderno; e sprizzava dignitosa benevolenza da ognuno dei propri pori.

Erano quelli, appunto, gli anni durante i quali, attraverso i romanzi si andavanoformando quei miti letterari che ancor oggi dominano le menti europee; la Siciliaperò, in parte per la sua tradizionale impermeabilità al nuovo, in pane per ladiffusa misconoscenza di qualsiasi lingua, in pane anche, occorre dirlo, per lavessatoria censura borbonica che agiva per mezzo delle dogane, ignoraval’esistenza di Dickens, di Eliot, della Sand e di Flaubert, financo quella di Dumas.

Un paio di volumi di Balzac, è vero, era giunto attraverso sotterfugi fino alle mani diDon Fabrizio che si era attribuito la carica di censore familiare; li aveva letti eprestati via, disgustato, ad un amico cui voleva del male, dicendo che essi erano ilfrutto di un ingegno senza dubbio vigoroso ma stravagante e “fissato” (oggi avrebbedetto monomaniaco); giudizio frettoloso, come si vede, non privo per altro di unacena acutezza. Il livello delle letture era quindi piuttosto basso, condizionatocom’era dal rispetto per i pudori verginali delle ragazze, da quello per gli scrupolireligiosi della Principessa e dallo stesso senso di dignità del Principe che si sarebberifiutato a far udire delle “porcherie” ai suoi familiari riuniti.

Si era verso il dieci di Novembre ed anche alla fine del soggiorno a Donnafugata. Pioveva fitto, imperversava un maestrale che spingeva rabbiosi schiaffi di pioggia sulle finestre; lontano si udiva un rotolio di tuoni; ogni tanto alcune gocce, avendo trovato la strada per penetrare negli ingenui fumaioli siciliani, friggevano un attimo sul fuoco e picchiettavano di nero gli ardenti tizzoni di ulivo. Si leggeva “Angiola Maria” e quella sera si era giunti alle ultime pagine: la descrizione dello sgomento viaggio della giovinetta attraverso la diaccia Lombardia invernale intirizziva il cuore siciliano delle signorine, pur nelle loro tiepide 100

poltrone. Ad un tratto si udì un gran tramestio nella stanza vicina e Mimi il cameriere entrò col fiato grosso: “Eccellenze” gridò dimenticando tutta la propria stilizzazione “Eccellenze! è arrivato il signorino Tancredi! È in cortile che fa scaricare i bagagli dal carrozzino. Bella Madre, Madonna mia, con questo tempo!”

E fuggì via.

La sorpresa rapi Concetta in un tempo che non corrispondeva più a quello reale, ed essa esclamò: “Caro!” ma il suono stesso della propria voce la ricondusse allo sconfortato presente e, com’è facile vedere, questi bruschi trapassi da una temporalità segregata e calorosa ad un’altra palese ma gelida le fecero molto male; per fortuna l’esclamazione, sommersa nell’emozione generale non venne udita.

Preceduti dai lunghi passi di Don Fabrizio tutti si precipitarono verso la scala; si traversarono in fretta i saloni bui, si discese; la grande porta era spalancata sullo scalone esterno e giù sul cortile; il vento irrompeva, faceva fremere le tele dei ritratti, spingendo innanzi a sé umidità e odor di terra; sullo sfondo del cielo lampeggiante gli alberi del giardino si dibattevano, e frusciavano come sete strapazzate. Don Fabrizio stava Per infilare la porta quando sull’ultimo gradino comparve una massa informe e pesante: era Tancredi avvolto nell’enorme Mantella azzurra della cavalleria piemontese, talmente inzuppate d’acqua da pesare cinquanta chili e da apparire nera. “Stai attento, zione: non mi toccare, sono una spugna!” La luce della lanterna della sala fece intravedere il suo volto.

Entrò, sganciò la catenella che tratteneva il mantello al collo, lasciò cadere l’indumento che si afflosciò a terra con un rumore viscido. Odorava di can bagnato e da tre giorni non si era tolto gli stivali, ma era lui, per Don Fabrizio che lo abbracciava, il ragazzo più amato che non i propri figli, per Maria Stella il caro nipote perfidamente calunniato, per Padre Pirrone la pecorella sempre smarrita e sempre ritrovata, per Concetta un caro fantasma rassomigliante al suo amore perduto; anche mademoiselle Dombreuil lo baciò con la bocca disavvezza alle carezze e gridava, la poveretta: “Tancrède, Tancrède, pensons à la joie d’Angelica, tante poche corde aveva il proprio arco, sempre costretta a raffigurarsi le gioie degli altri. Bendicò pure ritrovava il caro compagno di giochi, colui che come nessun altro sapeva soffiargli dentro il muso attraverso il pugno chiuso, ma, caninamente, dimostrava la propria estasi galoppando frenetico attorno alla sala e non curandosi dell’amato.

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Fu un momento davvero commovente quello del raggrupparsi della famiglia attorno al giovane che ritornava, tanto più caro in quanto non proprio della famiglia, tanto più lieto in quanto veniva a cogliere l’amore insieme ad un senso di perenne sicurezza. Momento commovente, ma anche lungo. Quando i primi impeti furono trascorsi, Don Fabrizio si accorse che sul limitare della porta stavano due altre figure, gocciolanti anch’esse ed anch’esse sorridenti. Tancredi se ne accorse pure e rise. “Scusatemi tutti, ma l’emozione mi aveva fatto perdere la testa. Zia” disse rivolto alla Principessa “mi sono permesso di portare qui un mio caro amico il conte Carlo Cavriaghi; del resto lo conoscete, è venuto tante volte alla villa quando era in servizio presso il generale. E quell’altro è il lanciere Moroni, il mio attendente.” Il soldato sorrideva nella sua faccia ottusamente onesta, se ne stava sull’attenti mentre dal grosso panno del pastrano l’acqua gli sgocciolava sul pavimento. Ma il contino non stava sull’attenti: toltosi il berrettino fradicio e sformato baciava la mano alla Principessa, sorrideva e abbagliava le ragazze con i baffetti biondi e l’insopprimibile erre moscia. “E pensare che a me avevano detto che quaggiù da voi non pioveva mai! Mamma mia, sono due giorni che siamo stati come dentro un fiume!” Dopo si fece serio: “Ma insomma, Falconeri, dov’è la signorina Angelica? Mi hai trascinato da Napoli fin qui per farmela vedere. Vedo molte belle, ma lei no.” Si rivolse a Dori Fabrizio: “Sa, principe, a sentire lui è la regina di Saba! Andiamo subito a riverire la formosissima et nigerrima. Muoviti, testone!”

Parlava così e trasportava il linguaggio delle mense ufficiali nell’arcigno salone con la sua doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati; e tutti si divertivano.

Ma Don Fabrizio e Tancredi la sapevano più lunga: conoscevano Don Calogero, conoscevano la “Bella Bestia” di sua moglie, l’incredibile trascuratezza della casa di quel riccone: cose queste che la candida Lombardia ignora.

Don Fabrizio intervenne: “Senta, conte; Lei credeva che in Sicilia non piovesse mai e può vedere invece come diluvia. Non vorrei Che credesse che da noi non ci sono le polmoniti e poi si trovasse a letto con quaranta di febbre. “Mimì” disse al suo cameriere “fai accendere i caminetti nella stanza del signorino Tancredi e in quella verde di foresteria. Fai preparare lo stanzino accanto per il soldato. E lei, conte, vada ad asciugarsi bene e a cambiar abito. Le farò portare un ponce e dei biscotti; e il pranzo è alle otto, fra due ore.” Cavriaghi era da troppi mesi abituato al servizio militare per non piegarsi subito alla voce autoritaria; salutò e segui 102

Are sens