Tirava un lieve vento; c’era sole. Il sole era tra le foglie, e noi per vedere Cosimo dovevamo farci schermo con la mano. Cosimo guardava il mondo dall’albero: ogni cosa, vista di lassù, era diversa, e questo era già un divertimento. Il viale aveva tutt’un’altra prospettiva, e le aiole, le ortensie, le camelie, il tavolino di ferro per prendere il caffè in giardino. Più in là le chiome degli alberi si sfìttivano e l’ortaglia digradava in piccoli campi a scala, sostenuti da muri di pietre; il dosso era scuro di oliveti, e, dietro, l’abitato d’Ombrosa sporgeva i suoi tetti di mattone sbiadito e ardesia, e ne spuntavano 7
pennoni di bastimenti, là dove sotto c’era il porto. In fondo si stendeva il mare, alto d’orizzonte, ed un lento veliero vi passava.
Ecco che il Barone e la Generalessa, dopo il caffè, uscivano in giardino. Guardavano un rosaio, ostentavano di non badare a Cosimo.
Si davano il braccio, ma poi subito si staccavano per discutere e far gesti. Io venni sotto l’elce, invece, come giocando per conto mio, ma in realtà cercando d’attirare l’attenzione di Cosimo; lui però mi serbava rancore e restava lassù a guardar lontano. Smisi, e m’ac-coccolai dietro una panca per poter continuare a osservarlo senz’essere veduto.
Mio fratello stava come di vedetta. Guardava tutto, e tutto era come niente. Tra i limoneti passava una donna con un cesto. Saliva un mulattiere per la china, reggendosi alla coda della mula. Non si videro tra loro; la donna, al rumore degli zoccoli ferrati, si voltò e si sporse verso strada, ma non fece in tempo. Si mise a cantare allora, ma il mulattiere passava già la svolta, tese l’orecchio, schioccò la frusta e alla mula disse: - Aah! - E tutto finì lì. Cosimo vedeva questo e quello.
Per il viale passò l’Abate Fauchelafleur col breviario aperto.
Cosimo prese un qualcosa dal ramo e glielo lasciò cadere in testa; non capii cos’era, forse un ragnetto, o una scheggia di scorza; non lo prese.
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Con lo spadino Cosimo si mise a frugare in un buco del tronco. Ne uscì una vespa arrabbiata, lui la cacciò via sventolando il tricorno e ne seguì il volo con lo sguardo fino ad una pianta di zucche, dove s’ac-quattò. Veloce come sempre, il Cavalier Avvocato uscì di casa, prese per le scalette del giardino e si perse tra i filari della vigna; Cosimo, per vedere dove andava, s’arrampicò su un altro ramo. Lì, di tra il fogliame, s’udì un frullo, e s’alzò a volo un merlo. Cosimo ci restò male perché era stato lassù tutto quel tempo e non se n’era accorto.
Stette a guardare controsole se ce n’erano degli altri. No, non ce n’erano.
L’elce era vicino a un olmo; le due chiome quasi si toccavano. Un ramo dell’olmo passava mezzo metro sopra a un ramo dell’altro albero; fu facile a mio fratello fare il passo e così conquistare la som-mità dell’olmo, che non avevamo mai esplorato, per esser alto di palco e poco arrampicabile da terra. Dall’olmo, sempre cercando dove un ramo passava gomito a gomito con i rami d’un’altra pianta, si passava su un carrubo, e poi su un gelso. Così vedevo Cosimo avanzare da un ramo all’altro, camminando sospeso sul giardino.
Certi rami del grande gelso raggiungevano e scavalcavano il muro di cinta della nostra villa, e di là c’era il giardino dei d’Ondariva. Noi, 9
benché confinanti, non sapevamo nulla dei Marchesi d’Ondariva e Nobili d’Ombrosa, perché godendo essi da parecchie generazioni di certi diritti feudali su cui nostro padre vantava pretese, un astio reciproco divideva le due famiglie, così come un muro alto che pareva un mastio di fortezza divideva le nostre ville, non so se fatto erigere da nostro padre o dal Marchese. S’aggiunga a ciò la gelosia di cui gli Ondariva circondavano il loro giardino, popolato, a quanto si diceva, di specie di piante mai vedute. Infatti, digià il padre degli attuali Marchesi, discepolo di Linneo, aveva mosso tutte le vaste parentele che la famiglia contava alle Corti di Francia e d’Inghilterra, per farsi mandare le più preziose rarità botaniche delle colonie, e per anni i bastimenti avevano sbarcato a Ombrosa sacchi di semi, fasci di talee, arbusti in vaso, e perfino alberi interi, con enormi involti di pan di terra attorno alle radici; finché in quel giardino era cresciuta -
dicevano - una mescolanza di foreste delle Indie e delle Americhe, se non addirittura della Nuova Olanda.
Tutto quel che ne potevamo vedere noi era l’affacciarsi all’orlo del muro delle foglie oscure d’una pianta nuovamente importata dalle colonie americane, la magnolia, che sui rami neri sporgeva un carnoso fiore bianco. Dal nostro gelso Cosimo fu sulla cornice del muro, fece 0
qualche passo in equilibrio, e poi, tenendosi con le mani, si calò dall’altra parte, dov’erano le foglie e il fiore di magnolia. Di lì scomparve alla mia vista; e quello che ora dirò, come molte delle cose di questo racconto della sua vita, mi furono riferite da lui in seguito, oppure fui io a ricavarle da sparse testimonianze ed induzioni.
Cosimo era sulla magnolia. Benché fitta di rami questa pianta era ben praticabile a un ragazzo esperto di tutte le specie d’alberi come mio fratello; e i rami resistevano al peso, ancorché non molto grossi e d’un legno dolce che la punta delle scarpe di Cosimo sbucciava, aprendo bianche ferite nel nero della scorza; ed avvolgeva il ragazzo in un profumo fresco di foglie, come il vento le muoveva, voltandone le pagine in un verdeggiare ora opaco ora brillante.
Ma era tutto il giardino che odorava, e se Cosimo ancora non riusciva a percorrerlo con la vista, tanto era irregolarmente folto, già lo esplorava con l’olfatto, e cercava di discernerne i vari aromi, che pur gli erano noti da quando, portati dal vento, giungevano fin nel nostro giardino e ci parevano una cosa sola col segreto di quella villa. Poi guardava le fronde e vedeva foglie nuove, quali grandi e lustre come ci corresse sopra un velo d’acqua, quali minuscole e pennate, e tronchi tutti lisci o tutti scaglie.
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C’era un gran silenzio. Solo un volo si levò di piccolissimi luì, gridando. E si sentì una vocetta che cantava: - Oh là là là! La ba-la-nçoire... - Cosimo guardò giù. Appesa al ramo d’un grande albero vicino dondolava un’altalena, con seduta una bambina sui dieci anni.
Era una bambina bionda, con un’alta pettinatura un po’ buffa per una bimba, un vestito azzurro anche quello troppo da grande, la gonna che ora, sollevata sull’altalena, traboccava di trine. La bambina guardava a occhi socchiusi e naso in su, come per un suo vezzo di far la dama, e mangiava una mela a morsi, piegando il capo ogni volta verso la mano che doveva insieme reggere la mela e reggersi alla fune dell’altalena, e si dava spinte colpendo con la punta degli scarpini il terreno ogni volta che l’altalena era al punto più basso del suo arco, e soffiava via dalle labbra i frammenti di buccia di mela morsicata, e cantava: - Oh là là là! La ba-la-nçoire... - come una ragazzina che ormai non le importa più nulla né dell’altalena, né della canzone, né (ma pure un po’ di più) della mela, e ha già altri pensieri per il capo.
Cosimo, d’in cima alla magnolia, era calato fino al palco più basso, ed ora stava coi piedi piantati uno qua uno là in due forcelle e i gomiti appoggiati a un ramo davanti a lui come a un davanzale. I voli dell’altalena gli portavano la bambina proprio sotto il naso.
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Lei non stava attenta e non se n’era accorta. Tutt’a un tratto se lo vide lì, ritto sull’albero, in tricorno e ghette. - Oh! - disse.
La mela le cadde di mano e rotolò al piede della magnolia. Cosimo sguainò lo spadino, s’abbassò giù dall’ultimo ramo, raggiunse la mela con la punta dello spadino, la infilzò e la porse alla bambina che nel frattempo aveva fatto un percorso completo d’altalena ed era di nuovo lì. - La prenda, non s’è sporcata, è solo un po’ ammaccata da una parte.
La bambina bionda s’era già pentita d’aver mostrato tanto stupore per quel ragazzetto sconosciuto apparso lì sulla magnolia, e aveva ripreso la sua aria sussiegosa a naso in su. - Siete un ladro? - disse.
- Un ladro? - fece Cosimo, offeso; poi ci pensò su: lì per lì l’idea gli piacque. - Io sì, - disse, calcandosi il tricorno sulla fronte. - Qualcosa in contrario?
- E cosa siete venuto a rubare?
Cosimo guardò la mela che aveva infilzato sulla punta dello spadino, e gli venne in mente che aveva fame, che non aveva quasi toccato cibo in tavola. - Questa mela, - disse, e prese a sbucciarla con la lama dello spadino, che teneva, a dispetto dei divieti familiari, affilatissima.
3
- Allora siete un ladro di frutta, - disse la ragazza.
Mio fratello pensò alle masnade dei ragazzi poveri d’Ombrosa, che scavalcavano i muri e le siepi e saccheggiavano i frutteti, una genìa di ragazzi che gli era stato insegnato di disprezzare e di sfuggire, e per la prima volta pensò a quanto doveva essere libera e invidiabile quella vita. Ecco: forse poteva diventare uno come loro, e vivere così, d’ora in avanti. - Sì, - disse. Aveva tagliato a spicchi la mela e si mise a masticarla.
La ragazzina bionda scoppiò in una risata che durò tutto un volo d’altalena, su e giù. - Ma va’! I ragazzi che rubano la frutta io li conosco! Sono tutti miei amici! E quelli vanno scalzi, in maniche di camicia, spettinati, non con le ghette e il parrucchino!
Mio fratello diventò rosso come la buccia della mela. L’esser preso in giro non solo per l’incipriatura, cui non teneva affatto, ma anche per le ghette, cui teneva moltissimo, e l’esser giudicato d’aspetto inferiore a un ladro di frutta, a quella genìa fino a un momento prima disprezzata, e soprattutto lo scoprire che quella damigella che faceva da padrona nel giardino dei d’Ondariva era amica di tutti i ladri di frutta ma non amica sua, tutte queste cose insieme lo riempirono di dispetto, vergogna e gelosia.
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- Oh là là là... Con le ghette e il parrucchin! - canterellava la bambina sull’altalena.
A lui prese un ripicco d’orgoglio. - Non sono un ladro di quelli che conoscete voi! - gridò. - Non sono affatto un ladro! Dicevo così per non spaventarvi: perché se sapeste chi sono io sul serio, morireste di paura: sono un brigante! Un terribile brigante!
La ragazzina continuava a volargli fin sul naso, si sarebbe detto volesse arrivare a sfiorarlo con le punte dei piedi. - Ma va’! E dov’è lo schioppo? I briganti hanno tutti lo schioppo! O la spingarda! Io li ho visti! A noi ci hanno fermato cinque volte la carrozza, nei viaggi dal castello a qua!
- Ma il capo no! Io sono il capo! Il capo dei briganti non ha lo schioppo! Ha solo la spada! - e protese il suo spadino.
La ragazzina si strinse nelle spalle. - II capo dei briganti, - spiegò, -