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Add to favorite 🔥 🔥 "Il barone rampante" di Italo Calvino

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Andava alla fontana, perché aveva una sua fontana pensile, inventata da lui, o meglio costruita aiutando la natura. C’era un rivo che in un punto di strapiombo scendeva giù a cascata, e là vicino una quercia alzava i suoi alti rami. Cosimo, con un pezzo di corteccia di pioppo, lungo un paio di metri, aveva fatto una specie di grondaia, che 7

portava l’acqua dalla cascata ai rami della quercia, e poteva così bere e lavarsi. Che si lavasse, posso assicurarlo, perché l’ho visto io diverse volte; non molto e neppure tutti i giorni, ma si lavava; aveva anche il sapone. Col sapone, certe volte che gli saltava il ticchio, faceva pure il bucato; s’era portato apposta sulla quercia una tinozza. Poi stendeva la roba ad asciugare su corde da un ramo all’altro.

Tutto faceva, insomma, sopra gli alberi. Aveva trovato anche il modo d’arrostire allo spiedo la selvaggina cacciata, sempre senza scendere. Faceva così: dava fuoco a una pigna con un acciarino e la buttava a terra in un luogo predisposto a focolare (quello glie l’avevo messo su io, con certe pietre lisce), poi ci lasciava cadere sopra stecchi e rami da fascina, regolava la fiamma con paletta e molle legate a lunghi bastoni, in modo che arrivasse allo spiedo, appeso tra due rami.

Tutto ciò richiedeva attenzione, perché è facile nei boschi provocare un incendio. Non per nulla questo focolare era anch’esso sotto la quercia, vicino alla cascata da cui si poteva trarre, in caso di pericolo, tutta l’acqua che si voleva.

Così, un po’ mangiando di quel che cacciava, un po’ facendone cambio coi contadini per frutta e ortaggi, campava proprio bene, anche senza bisogno che da casa gli passassero più niente. Un giorno 7

apprendemmo che beveva latte fresco ogni mattino; s’era fatta amica una capra, che andava ad arrampicarsi su una forcella d’ulivo, un posto facile, a due palmi da terra, anzi, non che ci s’arrampicasse, ci saliva con le zampe di dietro, cosicché lui sceso con un secchio sulla forcella la mungeva. Lo stesso accordo aveva con una gallina, una rossa, padovana, molto brava. Le aveva fatto un nido segreto, nel cavo d’un tronco, e un giorno sì e uno no ci trovava un uovo, che beveva dopo averci fatto due buchi con lo spillo.

Altro problema: fare i suoi bisogni. Dapprincipio, qua o là, non ci badava, il mondo è grande, la faceva dove capita. Poi comprese che non era bello. Allora trovò, sulla riva del torrente Merdanzo, un ontano che sporgeva sul punto più propizio e appartato, con una forcella sulla quale si poteva comodamente star seduti. Il Merdanzo era un torrente oscuro, nascosto tra le canne, rapido di corso, e i paesi viciniori vi gettavano le acque di scolo. Così il giovane Piovasco di Rondò viveva civilmente, rispettando il decoro del prossimo e suo proprio.

Ma un necessario complemento umano gli mancava, nella sua vita di cacciatore: un cane. C’ero io, che mi buttavo per le fratte, nei cespugli, per cercare il tordo, il beccaccino, la quaglia, caduti incon-7

trando in mezzo al cielo il suo sparo, o anche le volpi quando, dopo una notte di posta, ne fermava una a coda lunga distesa appena fuori dai brughi. Ma solo qualche volta io potevo scappare a raggiungerlo nei boschi: le lezioni con l’Abate, lo studio, il servir messa, i pasti coi genitori mi trattenevano; i cento doveri del viver familiare cui io mi sottomettevo, perché in fondo la frase che sentivo sempre ripetere: «In una famiglia, di ribelle ne basta uno», non era senza ragione, e lasciò la sua impronta su tutta la mia vita.

Cosimo dunque andava a caccia quasi sempre da solo, e per recuperare la selvaggina (quando non succedeva il caso gentile del rigogolo che restava con le gialle ali stecchite appese a un ramo), usava delle specie d’arnesi da pesca: lenze con spaghi, ganci o ami, ma non sempre ci riusciva, e alle volte una beccaccia finiva nera di formiche nel fondo d’un roveto.

Ho detto finora dei compiti dei cani da riporto. Perché Cosimo allora faceva quasi soltanto caccia da posta, passando mattine o nottate appollaiato sul suo ramo, attendendo che il tordo si posasse sulla vetta d’un albero, o la lepre apparisse in uno spiazzo di prato. Se no, girava a caso, seguendo il canto degli uccelli, o indovinando le piste più pro-babili delle bestie da pelo. E quando udiva il latrato dei segugi dietro 7

la lepre o la volpe, sapeva di dover girare al largo, perché quella non era bestia sua, di lui cacciatore solitario e casuale. Rispettoso delle norme Com’era, anche se dai suoi infallibili posti di vedetta poteva scorgere e prendere di mira la selvaggina rincorsa dai cani altrui, non alzava mai il fucile. Aspettava che per il sentiero arrivasse il cacciatore ansante, a orecchio teso e occhio smarrito, e gli indicava da che parte era andata la bestia.

Un giorno vide correre una volpe: un’onda rossa in mezzo all’erba verde, uno sbuffo feroce, irta nei baffi; attraversò il prato e scomparve nei brughi. E dietro: - Uauauaaa! - i cani.

Giunsero al galoppo, misurando la terra con i nasi, due volte si trovarono senza più odore di volpe nelle narici e svoltarono ad angolo retto.

Erano già distanti quando con un uggiolio: - Uì, uì, - fendette l’erba uno che veniva a salti più da pesce che da cane, una specie di delfino che nuotava affiorando un muso più aguzzo e delle orecchie più ciondoloni d’un segugio. Dietro, era pesce; pareva nuotasse sguazzando pinne, oppure zampe da palmipede, senza gambe e lunghissimo. Uscì nel pulito: era un bassotto.

Certamente, s’era unito al branco dei segugi ed era rimasto indietro, 7

giovane Com’era, anzi quasi ancora un cucciolo. Il rumore dei segugi era adesso un - Buaf, - di dispetto, perché avevano perso la pista e la corsa compatta si diramava in una rete di ricerche nasali tutt’intorno a una radura gerbida, con troppa impazienza di ritrovare il filo d’odore perduto per cercarlo bene, mentre lo slancio si perdeva, e già qualcuno ne approfittava per fare una pisciatina contro un sasso.

Così il bassotto, trafelato, col suo trotto a muso alto ingiustificatamente trionfale, li raggiunse. Faceva, sempre ingiustificatamente, degli uggiolii di furbizia, - Uài! Uài!

Subito i segugi, - Aurrrch! - gli ringhiarono, lasciarono lì per un momento la ricerca d’odor di volpe e puntarono contro di lui, aprendo bocche da morsi, - Ggghrr! - Poi, rapidi, tornarono a disinteressarsene, e corsero via.

Cosimo seguiva il bassotto, che muoveva passi a caso là intorno, e il bassotto, ondeggiando a naso distratto, vide il ragazzo sull’albero e gli scodinzolò. Cosimo era convinto che la volpe fosse ancora nascosta lì.

I segugi erano sbandati lontano, li si udiva a tratti passare sui dossi di fronte con un abbaio rotto e immotivato, sospinti dalle voci soffocate e incitanti dei cacciatori. Cosimo disse al bassotto: - Dai! Dai! Cerca!

Il cane giovane si buttò ad annusare, e ogni tanto si voltava a 8

guardare in su il ragazzo. - Dai! Dai!

Ora non lo vedeva più. Sentì uno sfascìo di cespugli, poi, a scoppio:

- Auauauaaa! Iaì, iaì, iaì! - Aveva levata la volpe!

Cosimo vide la bestia correre nel prato. Ma si poteva sparare a una volpe levata da un cane altrui? Cosimo la lasciò passare e non sparò. Il bassotto alzò il muso verso di lui, con lo sguardo dei cani quando non capiscono e non sanno che possono aver ragione a non capire, e si ributtò a naso sotto, dietro la volpe.

- Iaì, iaì, iaì! - Le fece fare tutto un giro. Ecco, tornava. Poteva sparare o non poteva sparare? Non sparò. Il bassotto guardò in su con un occhio di dolore. Non abbaiava più, la lingua più penzoloni delle orecchie, sfinito, ma continuava a correre.

La sua levata aveva disorientato segugi e cacciatori. Sul sentiero correva un vecchio con un greve archibugio. - Ehi, - gli fece Cosimo, -

quel bassotto è vostro?

- Ti andasse nell’anima a te e a tutti i tuoi parenti! - gridò il vecchio che doveva aver le sue lune. - Ti sembriamo tipi da cacciare coi bassotti?

- Allora a quel che leva, io ci sparo, - insistè Cosimo, che voleva proprio essere in regola.

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- E spara anche al santo che t’ha in gloria! - rispose quello, e corse via.

Il bassotto gli riportò la volpe. Cosimo sparò e la prese. Il bassotto fu il suo cane; gli mise nome Ottimo Massimo.

Ottimo Massimo era un cane di nessuno, unitosi al branco dei segugi per giovanile passione. Ma da dove veniva? Per scoprirlo, Cosimo si lasciò guidare da lui.

Il bassotto, rasente la terra, attraversava siepi e fossi; poi si voltava a vedere se il ragazzo di lassù riusciva a seguire il suo cammino. Tanto inconsueto era questo itinerario, che Cosimo non s’accorse subito dov’erano arrivati. Quando capì, gli balzò il cuore in petto: era il giardino dei Marchesi d’Ondariva.

La villa era chiusa, le persiane sprangate; solo una, a un abbaino, sbatteva al vento. Il giardino lasciato senza cure aveva più che mai quell’aspetto di foresta d’altro mondo. E per i vialetti ormai invasi dall’erba, e per le aiole sterpose. Ottimo Massimo si muoveva felice, come a casa sua, e rincorreva farfalle.

Sparì in un cespuglio. Tornò con in bocca un nastro. A Cosimo il cuore battè più forte. - Cos’è, Ottimo Massimo? Eh? Di chi è? Dimmi!

Ottimo Massimo scodinzolava.

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