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Add to favorite 🔥 🔥 "Il barone rampante" di Italo Calvino

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- Porta qua, porta. Ottimo Massimo! Cosimo, sceso su di un ramo basso, prese dalla bocca del cane quel brandello sbiadito che era stato certamente un nastro dei capelli di Viola, come quel cane era stato certamente un cane di Viola, dimenticato lì nell’ultimo trasloco della famiglia. Anzi, ora a Cosimo sembrava di ricordarlo, l’estate prima, ancora cucciolo, che sporgeva da un canestro al braccio della ragazzina bionda, e forse glie l’avevano portato in regalo allora allora.

- Cerca, Ottimo Massimo! - E il bassotto si gettava tra i bambù; e tornava con altri ricordi di lei, la corda da saltare, un pezzo lacero d’aquilone, un ventaglio.

In cima al tronco del più alto albero del giardino, mio fratello incise con la punta dello spadino i nomi Viola e Cosimo, e poi, più sotto, sicuro che a lei avrebbe fatto piacere anche se lo chiamava con un altro nome, scrisse: Cane bassotto Ottimo Massimo.

D’allora in poi, quando si vedeva il ragazzo sugli alberi, s’era certi che guardando giù innanzi a lui, o appresso, si vedeva il bassotto Ottimo Massimo trotterellare pancia a terra. Gli aveva insegnato la cerca, la ferma, il riporto: i lavori di tutte le specie di cani da caccia, e non c’era bestia del bosco che non cacciassero insieme. Per riportargli la selvaggina, Ottimo Massimo rampava con due zampe sui tronchi più 8

in su che poteva; Cosimo calava a prendere la lepre o la starna dalla sua bocca e gli faceva una carezza. Erano tutte là le loro confidenze, le loro feste. Ma continuo tra la terra e i rami correva dall’uno all’altro un dialogo, un’intelligenza, d’abbai monosillabi e di schiocchi di lingua e dita. Quella necessaria presenza che per il cane è l’uomo e per l’uomo è il cane, non li tradiva mai, né l’uno né l’altro; e per quanto diversi da tutti gli uomini e cani del mondo, potevan dirsi, come uomo e cane, felici.

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XI

Per molto tempo, tutta un’epoca della sua adolescenza, la caccia fu per Cosimo il mondo. Anche la pesca, perché con una lenza aspettava anguille e trote negli stagni del torrente. Veniva da pensare alle volte di lui come avesse ormai sensi e istinti diversi da noi, e quelle pelli che s’era conciato per vestiario corrispondessero a un mutamento totale della sua natura. Certo lo stare di continuo a contatto delle scorze d’albero, l’occhio affisato al muoversi delle penne, al pelo, alle scaglie, a quella gamma di colori che questa apparenza del mondo presenta, e poi la verde corrente che circola come un sangue d’altro mondo nelle vene delle foglie: tutte queste forme di vita così lontane 8

dall’umana come un fusto di pianta, un becco di tordo, una branchia di pesce, questi confini del selvatico nel quale così profondamente s’era spinto, potevano ormai modellare il suo animo, fargli perdere ogni sembianza d’uomo. Invece, per quante doti egli assorbisse dalla comunanza con le piante e dalla lotta con gli animali, sempre mi fu chiaro che il suo posto era di qua, era dalla parte nostra.

Ma pur senza volere, certi usi diventavano più radi e si perdevano.

Come il suo seguirci la festa alla Messa grande d’Ombrosa. Per i primi mesi cercò di farlo. Ogni domenica, uscendo, tutta la famiglia indrappellata, vestita da cerimonia, lo trovavamo sui rami, anche lui in qualche modo con un’intenzione d’abito da festa, per esempio riesumata la vecchia marsina, o il tricorno invece del berretto di pelo.

Noi ci avviavamo, lui ci seguiva per i rami, e così incedevamo sul sagrato, guardati da tutti gli Ombrosotti (ma presto vi fecero l’abitudine e diminuì anche il disagio di nostro padre), noi tutti com-passati, lui che saltava in aria, strana vista, specie d’inverno, con gli alberi spogli.

Noi entravamo nella cattedrale, sedevamo al nostro banco di famiglia, lui restava fuori, s’appostava su un leccio a fianco d’una navata, proprio all’altezza di una grande finestra. Dal nostro banco 8

vedevamo attraverso le vetrate l’ombra dei rami e, frammezzo, quella di Cosimo col cappello sul petto e a capo chino. Per l’accordo di mio padre con un sagrestano, quella vetrata ogni domenica fu tenuta socchiusa, così mio fratello poteva prendere la Messa dal suo albero.

Ma col passare del tempo non lo vedemmo più. La vetrata fu chiusa perché c’era corrente.

Tante cose che prima sarebbero state importanti, per lui non lo erano più. In primavera si fidanzò nostra sorella. Chi l’avrebbe detto, solo un anno prima? Vennero questi Conti d’Estomac col Contino, si fece una gran festa. Il nostro palazzo era illuminato in ogni stanza, c’era tutta la nobiltà dei dintorni, si ballava. Chi pensava più a Cosimo? Ebbene, non è vero, ci pensavamo tutti. Ogni tanto io guardavo fuori dalle finestre per vedere se arrivava; e nostro padre era triste, e in quella festevolezza familiare certo il suo pensiero andava a lui, che se n’era escluso; e la Generalessa che comandava su tutta la festa come su una piazza d’armi, voleva solo sfogare il suo struggimento per l’assente. Forse anche Battista che faceva piroette, irriconoscibile fuor dalle vesti monacali, con una parrucca che pareva un marzapane, e un grand panier guarnito di coralli che non so che sarta le avesse costruito, anche lei scommetto che ci pensava.

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E lui c’era, non visto, - lo seppi poi, - era nell’ombra della cima d’un platano, al freddo, e vedeva le finestre piene di luce, le note stanze apparecchiate a festa, la gente imparruccata che ballava. Quali pensieri gli attraversavano la mente? Rimpiangeva almeno un poco la nostra vita? Pensava a quanto breve era quel passo che lo separava dal ritorno nel nostro mondo, quanto breve e quanto facile? Non so cosa pensasse, cosa volesse, lì. So soltanto che rimase per tutto il tempo della festa, e anche oltre, finché a uno a uno i candelieri non si spensero e non restò più una finestra illuminata.

I rapporti di Cosimo con la famiglia, dunque, bene o male, continuavano. Anzi, con un membro d’essa si fecero più stretti, e solo ora si può dire che imparò a conoscerlo: il Cavalier Avvocato Enea Silvio Carrega. Quest’uomo mezzo svanito, sfuggente, che non si riusciva mai a sapere dove fosse e cosa facesse, Cosimo scoperse che era l’unico di tutta la famiglia che avesse un gran numero d’occupazioni, non solo, ma che nulla di quel che faceva era inutile.

Usciva, magari nell’ora più calda del pomeriggio, col fez piantato sul cocuzzolo, i passi sciabattanti nella zimarra lunga fino a terra, e spariva quasi l’avessero inghiottito le crepe del terreno, o le siepi, o le pietre dei muri. Anche Cosimo, che si divertiva a star sempre di 8

vedetta (o meglio, non che si divertisse, era questo ormai un suo stato naturale, come se il suo occhio abbracciasse un orizzonte così largo da comprendere tutto), a un certo punto non lo vedeva più. Qualche volta si metteva a correre di ramo in ramo verso il posto dov’era sparito, e non riusciva mai a capire che via avesse preso. Ma c’era un segno che ricorreva sempre in quei paraggi: delle api che volavano. Cosimo finì per convincersi che la presenza del Cavaliere era collegata con le api e che per rintracciarlo bisognava seguirne il volo. Ma come fare?

Attorno a ogni pianta fiorita c’era uno sparso ronzare d’api; bisognava non lasciarsi distrarre da percorsi isolati e secondari, ma seguire l’invisibile via aerea in cui l’andirivieni d’api si faceva sempre più fitto, finché non si giungeva a vederne una nuvola densa levarsi dietro una siepe come un fumo. Là sotto erano le arnie, una o alcune, in fila su una tavola, e intento ad esse, in mezzo al brulichio d’api, c’era il Cavaliere.

Era infatti, questa dell’apicoltura, una delle attività segrete del nostro zio naturale; segreta fino a un certo punto, perché egli stesso portava a tavola ogni tanto un favo stillante miele appena tolto dall’arnia; ma essa si svolgeva tutta fuor dell’ambito delle nostre proprietà, in luoghi che egli evidentemente non voleva si sapessero.

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Doveva essere una sua cautela, per sottrarre i proventi di questa personale industria al paiolo bucato dell’amministrazione familiare; oppure - poiché certo l’uomo non era avaro, e poi, cosa poteva rendergli, quel po’ di miele e di cera? - per aver qualcosa in cui il Barone suo fratello non cacciasse il naso, non pretendesse di guidarlo per mano; oppure ancora per non mescolare le poche cose che amava, come l’apicoltura, con le molte che non amava, come l’amministrazione.

Comunque, restava il fatto che nostro padre non gli avrebbe mai permesso di tenere api vicino a casa, perché il Barone aveva un’irragionevole paura d’essere punto, e quando per caso s’imbatteva in un’ape o in una vespa in giardino, spiccava un’assurda corsa per i viali, ficcandosi le mani nella parrucca come a proteggersi dalle beccate d’un’aquila. Una volta, così facendo, la parrucca gli volò via, l’ape adombrata dal suo scatto gli s’avventò contro e gli conficcò il pungiglione nel cranio calvo. Stette tre giorni a premersi la testa con pezzuole bagnate d’aceto, perché era uomo siffatto, ben fiero e forte nei casi più gravi, ma che un graffietto o un foruncolino facevano andare come matto.

Dunque, Enea Silvio Carrega aveva sminuzzato il suo allevamento 9

d’api un po’ qua e un po’ là per tutta la vallata d’Ombrosa; i proprietari gli davano il permesso di tenere un alveare o due o tre in una fascia dei loro campi, per il compenso d’un poco di miele, e lui era sempre in giro da un posto all’altro, trafficando intorno alle arnie con mosse che pareva avesse zampetto d’ape al posto delle mani, anche perché le teneva talvolta, per non essere punto, calzate in mezzi guanti neri. Sul viso, avvolto intorno al fez come in un turbante, portava un velo nero, che a ogni respiro gli s’appiccicava e sollevava sulla bocca. E muoveva un arnese che spandeva fumo, per allontanare gli insetti mentre lui frugava nelle arnie. E tutto, brulichio d’api, veli, nuvola di fumo, pareva a Cosimo un incantesimo che quell’uomo cercava di suscitare per scomparire di lì, esser cancellato, volato via, e poi rinascere altro, o in altro tempo, o altrove. Ma era un mago da poco, perché riappariva sempre uguale, magari succhiandosi un polpastrello punto.

Era la primavera. Cosimo un mattino vide l’aria come impazzita, vibrante d’un suono mai udito, un ronzio che raggiungeva punte di boato, e attraversata da una grandine che invece di cadere si spostava in una direzione orizzontale, e vorticava lentamente sparsa intorno, ma seguendo una specie di colonna più densa. Era una moltitudine d’api: e 9

intorno c’era il verde e i fiori e il sole; e Cosimo che non capiva cos’era si sentì preso da un’eccitazione struggente e feroce. -

Scappano le api! Cavalier Avvocato! Scappano le api! - prese a gridare, correndo per gli alberi alla ricerca del Carrega.

- Non scappano: sciamano, - disse la voce del Cavaliere, e Cosimo se lo vide sotto di sé, spuntato come un fungo, mentre gli faceva segno di star zitto. Poi subito corse via, sparì. Dov’era andato?

Era l’epoca degli sciami. Uno stuolo d’api stava seguendo una regina fuori del vecchio alveare. Cosimo si guardò intorno. Ecco che il Cavalier Avvocato ricompariva alla porta della cucina e aveva in mano un paiolo e una padella. Ora faceva cozzare la padella contro il paiolo e ne levava un deng! deng! altissimo, che rintronava nei timpani e si spegneva in una lunga vibrazione, tanto fastidiosa che veniva da turarsi le orecchie. Percuotendo quegli arnesi di rame ogni tre passi, il Cavalier Avvocato camminava dietro lo stuolo delle api. A ognuno di quei clangori, lo sciame pareva colto da uno scuotimento, un rapido abbassarsi e tornar su, e il ronzio pareva fatto più basso, il volare più incerto. Cosimo non vedeva bene, ma gli sembrava che adesso tutto lo sciame convergesse verso un punto nel verde, e non andasse più in là.

E il Carrega continuava a menar colpi nel paiolo.

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- Cosa succede, Cavalier Avvocato? Cosa fa? -gli chiese mio fratello, raggiungendolo.

- Presto, - farfugliò lui, - va’ sull’albero dove s’è fermato lo sciame, ma attento a non muoverlo finché non arrivo io!

Le api calavano verso un melograno. Cosimo vi giunse e dapprincipio non vide nulla, poi subito scorse come un grosso frutto, a pigna, che pendeva da un ramo, ed era tutto fatto d’api aggrappate una sull’altra, e sempre ne venivano di nuove ad ingrossarlo.

Cosimo stava in cima al melograno trattenendo il respiro. Lì sotto pendeva il grappolo d’api, e più grosso diventava e più pareva leggero, come appeso a un filo, o meno ancora, alle zampette d’una vecchia ape regina, e fatto di sottile cartilagine, con tutte quelle ali fruscianti che stendevano il loro diafano colore grigio sopra le striature nere e gialle degli addomi.

Il Cavalier Avvocato arrivò saltellando, e reggeva tra le mani un’arnia. La protese capovolta sotto il grappolo. - Dai, - disse piano a Cosimo, - una piccola scossa secca.

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