- Vado a prendere le bestie abbattute da mio fratello, e gliele porto sugli... - stavo dicendo, ma nostro padre m’interruppe: - Chi t’ha invitato a conversazione? Va’ a giocare!
Eravamo in giardino, era sera e faceva ancora chiaro, essendo estate. Ed ecco per i platani e per gli olmi, tranquillo se ne veniva 6
Cosimo, col berretto di pel di gatto in capo, il fucile a tracolla, uno spiedo a tracolla dall’altra parte, e le gambe nelle ghette.
- Ehi, ehi! - fece il Conte alzandosi e muovendo il capo per meglio vedere, divertito. - Chi è là? Chi è lassù sulle piante?
- Cosa c’è? Non so proprio... Ma le sarà parso... - faceva nostro padre, e non guardava nella direzione indicata, ma negli occhi del Conte come per assicurarsi che ci vedesse bene.
Cosimo intanto era giunto proprio sopra di loro, fermo a gambe larghe su una forcella.
- Ah, è mio figlio, sì, Cosimo, sono ragazzi, per farci una sorpresa, vede, s’è arrampicato lassù in cima...
- È il maggiore?
- Sì, sì, dei due maschi è il più grande, ma di poco, sa, sono ancora due bambini, giocano...
- Però è in gamba ad andare così per i rami. E con quell’arsenale addosso...
- Eh, giocano... - e con un terribile sforzo di malafede che lo fece diventare rosso in viso: - Che fai lassù? Eh? Vuoi scendere? Vieni a salutare il signor Conte!
Cosimo si cavò il berretto di pel di gatto, fece un inchino. -
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Riverisco, signor Conte.
- Ah, ah, ah! - rideva il Conte, - bravissimo, bravissimo! Lo lasci star su, lo lasci star su, Monsieur Arminio! Bravissimo giovanotto che va per gli alberi! - E rideva.
E quello scimunito del Contino: - C’est original, ça. C’est très original! - non sapeva che ripetere.
Cosimo si sedette lì sulla forcella. Nostro padre cambiò discorso, e parlava parlava, cercando di distrarre il Conte. Ma il Conte ogni tanto alzava gli occhi e mio fratello era sempre lassù, su quell’albero o su un altro, che puliva il fucile, o ungeva di grasso le ghette, o si metteva la flanella pesante perché veniva notte.
- Ah, ma guarda! Sa far tutto, lassù in cima, il giovanotto! Ah, quanto mi piace! Ah, lo racconterò a Corte, la prima volta che ci vado!
Lo racconterò a mio figlio vescovo! Lo racconterò alla Principessa mia zia!
Mio padre schiattava. Per di più, aveva un altro pensiero: non vedeva più sua figlia, ed era scomparso anche il Contino.
Cosimo che s’era allontanato in uno dei suoi giri d’esplorazione, tornò trafelato. - Gli ha fatto venire il singhiozzo! Gli ha fatto venire il singhiozzo!
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Il Conte s’impensierì. - Oh, è spiacevole. Mio figlio soffre molto di singhiozzo. Va’, bravo giovanotto, va’ a vedere se gli passa. Di’ che tornino.
Cosimo saltò via, e poi tornò, più trafelato di prima: - Si rincorrono.
Lei vuole mettergli una lucertola viva sotto la camicia per fargli passare il singhiozzo! Lui non vuole! - E riscappò a vedere.
Così passammo quella serata in villa, non dissimile in verità dalle altre, con Cosimo sugli alberi che partecipava come di straforo alla nostra vita, ma stavolta c’erano gli ospiti, e la fama dello strano comportamento di mio fratello s’espandeva per le Corti d’Europa, con vergogna di nostro padre. Vergogna immotivata, tant’è vero che il Conte d’Estomac ebbe una favorevole impressione della nostra famiglia, e così avvenne che nostra sorella Battista si fidanzò col Contino.
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Gli olivi, per il loro andar torcendosi, sono a Cosimo vie comode e piane, piante pazienti e amiche, nella ruvida scorza, per passarci e per fermarcisi, sebbene i rami grossi siano pochi per pianta e non ci sia gran varietà di movimenti. Su un fico, invece, stando attento che regga il peso, non s’è mai finito di girare; Cosimo sta sotto il padiglione delle foglie, vede in mezzo alle nervature trasparire il sole, i frutti verdi gonfiare a poco a poco, odora il lattice che geme nel collo dei peduncoli. Il fico ti fa suo, t’impregna del suo umore gommoso, dei ronzii dei calabroni; dopo poco a Cosimo pareva di stare diventando fico lui stesso e, messo a disagio, se ne andava. Sul duro sorbo, o sul 7
gelso da more, si sta bene; peccato siano rari. Così i noci, che anche a me, che è tutto dire, alle volte vedendo mio fratello perdersi in un vecchio noce sterminato, come in un palazzo di molti piani e innumerevoli stanze, veniva voglia d’imitarlo, d’andare a star lassù; tant’è la forza e la certezza che quell’albero mette a essere albero, l’ostinazione a esser pesante e duro, che gli s’esprime persino nelle foglie.
Cosimo stava volentieri tra le ondulate foglie dei lecci (o elci, come li ho chiamati finché si trattava del parco di casa nostra, forse per suggestione del linguaggio ricercato di nostro padre) e ne amava la screpolata corteccia, di cui quand’era sovrappensiero sollevava i quadrelli con le dita, non per istinto di far del male, ma come d’aiutare l’albero nella sua lunga fatica di rifarsi. O anche desquamava la bianca corteccia dei platani, scoprendo strati di vecchio oro muffito. Amava anche i tronchi bugnati come ha l’olmo, che ai bitorzoli ricaccia getti teneri e ciuffì di foglie seghettate e di cartacee samare; ma è difficile muovercisi perché i rami vanno in su, esili e folti, lasciando poco varco. Nei boschi, preferiva faggi e querce: perché sul pino le impalcate vicinissime, non forti e tutte fitte di aghi, non lasciano spazio né appiglio; ed il castagno, tra foglia spinosa, ricci, scorza, rami 7
alti, par fatto apposta per tener lontani.
Queste amicizie e distinzioni Cosimo le riconobbe poi col tempo a poco a poco, ossia riconobbe di conoscerle; ma già in quei primi giorni cominciavano a far parte di lui come istinto naturale. Era il mondo ormai a essergli diverso, fatto di stretti e ricurvi ponti nel vuoto, di nodi o scaglie o rughe che irruvidiscono le scorze, di luci che variano il loro verde a seconda del velario di foglie più fitte o più rade, tremanti al primo scuotersi d’aria sui peduncoli o mosse come vele insieme all’incurvarsi dell’albero. Mentre il nostro, di mondo, s’appiattiva là in fondo, e noi avevamo figure sproporzionate e certo nulla capivamo di quel che lui lassù sapeva, lui che passava le notti ad ascoltare come il legno stipa delle sue cellule i giri che segnano gli anni nell’interno dei tronchi, e le muffe allargano la chiazza al vento tramontano, e in un brivido gli uccelli addormentati dentro il nido ricantucciano il capo là dove più morbida è la piuma dell’ala, e si sveglia il bruco, e si schiude l’uovo dell’averla. C’è il momento in cui il silenzio della campagna si compone nel cavo dell’orecchio in un pulviscolo di rumori, un gracchio, uno squittio, un fruscio velocissimo tra l’erba, uno schiocco nell’acqua, uno zampettio tra terra e sassi, e lo strido della cicala alto su tutto. I rumori si tirano un con l’altro, l’udito 7
arriva a sceverarne sempre di nuovi come alle dita che disfano un bioccolo di lana ogni stame si rivela intrecciato di fili sempre più sottili ed impalpabili. Le rane intanto continuano il gracidio che resta nello sfondo e non muta il flusso dei suoni, come la luce non varia per il continuo ammicco delle stelle. Invece a ogni levarsi o scorrer via del vento, ogni rumore cambiava ed era nuovo. Solo restava nel cavo più profondo dell’orecchio l’ombra di un mugghio o murmure: era il mare.
Venne l’inverno, Cosimo si fece un giubbotto di pelliccia. Lo cucì da sé con pezzi di pelli di varie bestie da lui cacciate: lepri, volpi, martore e furetti. In testa portava sempre quel berretto di gatto selvatico. Si fece anche delle brache, di pelo di capra col fondo e le ginocchia di cuoio. In quanto a scarpe, capì finalmente che per gli alberi la cosa migliore erano delle pantofole, e se ne fece un paio non so con che pelle, forse tasso.
Così si difendeva dal freddo. Bisogna dire che a quei tempi da noi gli inverni erano miti, non con quel freddo d’ora che si dice Napoleone abbia stanato dalla Russia e si sia fatto correr dietro fin qui. Ma anche allora passar le notti d’inverno al sereno non era un bel vivere.
Per la notte Cosimo aveva trovato il sistema dell’otre di pelo; non più tende o capanne: un otre col pelo dalla parte di dentro, appeso a un 7
ramo. Ci si calava dentro, ci spariva tutto e s’addormentava rannicchiato come un bambino. Se un rumore insolito traversava la notte, dalla bocca del sacco usciva il berretto di pelo, la canna del fucile, poi lui a occhi sgranati. (Dicevano che gli occhi gli fossero diventati luminosi nel buio come i gatti e i gufi: io però non me ne accorsi mai).
Al mattino invece, quando cantava la ghiandaia, dal sacco uscivano fuori due mani strette a pugno, i pugni s’alzavano e due braccia si allargavano stirandosi lentamente, e quello stirarsi sollevava fuori la sua faccia sbadigliante, il suo busto col fucile a tracolla e la fiaschetta della polvere, le sue gambe arcuate (gli cominciavano a venire un po’
storte, per l’abitudine a stare e muoversi sempre carponi o accoccolato). Queste gambe saltavano fuori, si sgranchivano, e così, con uno scrollar di schiena, una grattata sotto il giubbotto di pelo, sveglio e fresco come una rosa Cosimo incominciava la sua giornata.