dato che da un po’ non lo vedevo portare la marsina - quel brandello ce l’aveva messo apposta per prenderci in giro. Comunque, l’albero restò laidamente imbrattato di vischio e poi seccò.
Cominciammo a convincerci che Cosimo non sarebbe più tornato, anche nostro padre. Da quando mio fratello saltava per gli alberi di tutto il territorio d’Ombrosa, il Barone non osava più farsi vedere in giro, perché temeva che la dignità ducale fosse compromessa. Si faceva sempre più pallido e scavato in volto e non so fino a che punto la sua fosse ansia paterna e fino a che punto preoccupazione di conseguenze dinastiche: ma le due cose ormai facevano tutt’uno, perché Cosimo era il suo primogenito, erede del titolo, e se mal si può dare un Barone che salta sui rami come un francolino, meno ancora si può ammettere che lo faccia un Duca, sia pur fanciullo, e il titolo controverso non avrebbe certo in quella condotta dell’erede trovato un argomento di sostegno.
Preoccupazioni inutili, s’intende, perché delle velleità di nostro padre gli Ombrosotti ridevano; e i nobili che avevano ville là intorno lo tenevano per matto. Ormai tra i nobili era invalso l’uso d’abitare in villa in luoghi ameni, più che nei castelli dei feudi, e questo faceva già sì che si tendesse a vivere come privati cittadini, a evitare le noie. Chi 4
andava più a pensare all’antico Ducato d’Ombrosa? Il bello d’Ombrosa è che era casa di tutti e di nessuno: legata a certi diritti verso i Marchesi d’Ondariva, signori di quasi tutte le terre, ma da tempo libero Comune, tributario della Repubblica di Genova; noi ci potevamo star tranquilli, tra quelle terre che avevamo ereditato ed altre che avevamo comprato per niente dal Comune in un momento che era pieno di debiti. Cosa si poteva chiedere di più? C’era una piccola società nobiliare, lì intorno, con ville e parchi ed orti fin sul mare; tutti vivevano in allegria facendosi visita e andando a caccia, la vita costava poco, s’avevano certi vantaggi di chi sta a Corte senza gli impicci, gli impegni e le spese di chi ha una famiglia reale cui badare, una capitale, una politica. Nostro padre invece queste cose non le gustava, lui si sentiva un sovrano spodestato, e coi nobili del vicinato aveva finito per rompere tutti i rapporti (nostra madre, straniera, si può dire che non ne avesse mai avuti); il che aveva anche i suoi vantaggi, perché non frequentando nessuno risparmiavamo molte spese, e mascheravamo la penuria delle nostre finanze.
Col popolo d’Ombrosa non è da dire che avessimo rapporti migliori; sapete come sono gli Ombrosotti, gente un po’ gretta, che bada ai suoi negozi; in quei tempi si cominciavano a vender bene i li-4
moni, con l’usanza delle limonate zuccherate che si diffondeva nelle classi ricche; e avevano piantato orti di limoni dappertutto, e riattato il porto rovinato dalle incursioni dei pirati tanto tempo prima. In mezzo tra Repubblica di Genova, possessi del Re di Sardegna, Regno di Francia e territori vescovili, trafficavano con tutti e s’infischiavano di tutti, non ci fossero stati quei tributi che dovevano a Genova e che facevano sudare a ogni data d’esazione, motivo ogni anno di tumulti contro gli esattori della Repubblica.
Il Barone di Rondò, quando scoppiavano questi tumulti per le tasse, credeva sempre che fossero sul punto di venirgli a offrire la corona ducale. Allora si presentava in piazza, s’offriva agli Ombrosotti come protettore, ma ogni volta doveva fare presto a scappare sotto una gragnuola di limoni marci. Allora, diceva che era stata tessuta una congiura contro di lui: dai Gesuiti, come al solito. Perché si era messo in testa che tra i Gesuiti e lui ci fosse una guerra mortale, e la Compagnia non pensasse ad altro che a tramare ai suoi danni. In effetti, c’erano stati degli screzi, per via d’un orto la cui proprietà era contesa tra la nostra famiglia e la Compagnia di Gesù; ne era sorta una lite e il Barone, essendo allora in buona con il Vescovo, era riuscito a far allontanare il Padre provinciale dal territorio della Diocesi. Da allora 4
nostro padre era sicuro che la Compagnia mandasse i suoi agenti ad at-tentare alla sua vita e ai suoi diritti; e da parte sua cercava di mettere insieme una milizia di fedeli che liberassero il Vescovo, a suo parere caduto prigioniero dei Gesuiti; e dava asilo e protezione a quanti dai Gesuiti si dichiaravano perseguitati, cosicché aveva scelto come nostro padre spirituale quel mezzo giansenista con la testa tra le nuvole.
D’una sola persona nostro padre si fidava, ed era il Cavalier Avvocato. Il Barone aveva un debole per quel fratello naturale, come per un figliolo unico e disgraziato; e ora non so dire se ce ne rendessimo conto, ma certo doveva esserci, nel nostro modo di considerare il Carrega, un po’ di gelosia perché nostro padre aveva più a cuore quel fratello cinquantenne che noi ragazzi. Del resto, non eravamo i soli a guardarlo di traverso: la Generalessa e Battista fìngevano di portargli rispetto, invece non lo potevano soffrire; lui sotto quell’apparenza sottomessa se ne infischiava di tutto e di tutti, e forse ci odiava tutti, anche il Barone cui tanto doveva. Il Cavalier Avvocato parlava poco, certe volte lo si sarebbe detto sordomuto, o che non capisse la lingua: chissà come riusciva a fare l’avvocato, prima, e se già allora era così stranito, prima dei Turchi. Forse era pur stato persona di intelletto, se aveva imparato dai Turchi tutti quei 4
calcoli d’idraulica, l’unica cosa cui adesso fosse capace di applicarsi, e per cui mio padre ne faceva lodi esagerate. Non seppi mai bene il suo passato, né chi fosse stata sua madre, né quali fossero stati in gioventù i suoi rapporti con nostro nonno (certo anche lui doveva essergli affezionato, per averlo fatto studiare da avvocato e avergli fatto attribuire il titolo di Cavaliere), né come fosse finito in Turchia. Non si sapeva neanche bene se era proprio in Turchia che aveva soggiornato tanto a lungo, o in qualche stato barbaresco, Tunisi, Algeri, ma insomma in un paese maomettano, e si diceva che si fosse fatto maomettano pure lui.
Tante se ne dicevano: che avesse ricoperto cariche importanti, gran dignitario del Sultano, Idraulico del Divano o altro di simile, e poi una congiura di palazzo o una gelosia di donne o un debito di gioco l’avesse fatto cadere in disgrazia e vendere per schiavo. Si sa che fu trovato incatenato a remare tra gli schiavi in una galera ottomana presa prigioniera dai Veneziani, che lo liberarono. A Venezia, viveva poco più che come un accattone, finché non so cos’altro aveva combinato, una rissa (con chi potesse rissare, un uomo così schivo, lo sa il cielo) e finì di nuovo in ceppi. Lo riscattò nostro padre, tramite i buoni uffici della Repubblica di Genova, e ricapitò tra noi, un omino calvo con la barba nera, tutto sbigottito, mezzo mutolo (ero bambino ma la scena di 5
quella sera m’è rimasta impressa), infagottato in larghi panni non suoi.
Nostro padre l’impose a tutti come una persona di autorità, lo nominò amministratore, gli destinò uno studio che s’andò riempiendo di carte sempre in disordine. Il Cavalier Avvocato vestiva una lunga zimarra e una papalina a fez, come usavano allora nei loro gabinetti di studio molti nobili e borghesi; solo che lui nello studio a dir la verità non ci stava quasi mai, e lo si cominciò a veder girare vestito così anche fuori, in campagna. Finì col presentarsi anche a tavola in quelle fogge turche, e la cosa più strana fu che nostro padre, così attento alle regole, mostrò di tollerarlo.
Nonostante i suoi compiti d’amministratore, il Cavalier Avvocato non scambiava quasi mai parola con castaldi o fìttavoli o manenti, data la sua indole timida e la difficoltà di favella; e tutte le cure pratiche, il dare ordini, lo star dietro alla gente, toccavano sempre in effetti a nostro padre. Enea Silvio Carrega teneva i libri dei conti, e non so se i nostri affari andassero così male per il modo in cui lui teneva i conti, o se i suoi conti andassero così male per il modo in cui andavano i nostri affari. E poi faceva calcoli e disegni d’impianti di irrigazione, e riempiva di linee e cifre una gran lavagna, con parole in scrittura turca.
Ogni tanto nostro padre si chiudeva con lui nello studio per ore (erano 5
le più lunghe soste che il Cavalier Avvocato vi faceva), e dopo poco dalla porta chiusa giungeva la voce adirata del Barone, gli accenti ondosi d’un diverbio, ma la voce del Cavaliere non s’avvertiva quasi.
Poi la porta s’apriva, il Cavalier Avvocato usciva con i suoi passetti rapidi nelle falde della zimarra, il fez ritto sul cocuzzolo, prendeva per una porta-finestra e via per il parco e la campagna. - Enea Silvio! Enea Silvio! - gridava nostro padre correndogli dietro, ma il fratellastro era già tra i filari della vigna, o in mezzo ai limoneti, e si vedeva solo il fez rosso procedere ostinato tra le foglie. Nostro padre l’inseguiva chiamandolo; dopo un po’ li vedevamo ritornare, il Barone sempre discutendo, allargando le braccia, e il Cavaliere piccolo vicino a lui, ingobbito, i pugni stretti nelle tasche della zimarra.
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VIII
In quei giorni Cosimo faceva spesso sfide con la gente che stava a terra, sfide di mira, di destrezza, anche per saggiare le possibilità sue, di tutto quel che riusciva a fare di là in cima. Sfidò i monelli al tiro delle piastrelle. Erano in quei posti vicino a Porta Capperi, tra le baracche dei poveri e dei vagabondi. Da un leccio mezzo secco e spoglio, Cosimo stava giocando a piastrelle, quando vide avvicinarsi un uomo a cavallo, alto, un po’ curvo, avvolto in un mantello nero.
Riconobbe suo padre. La marmaglia si disperse; dalle soglie delle catapecchie le donne stavano a guardare.
Il Barone Arminio cavalcò fin sotto l’albero. Era il rosso tramonto.
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Cosimo era tra i rami spogli. Si guardarono in viso. Era la prima volta, dopo il pranzo delle lumache, che si trovavano così, faccia a faccia.
Erano passati molti giorni, le cose erano diventate diverse, l’uno e l’altro sapevano che ormai non c’entravano più le lumache, né l’obbedienza dei figli o l’autorità dei padri; che di tante cose logiche e sensate che si potevano dire, tutte sarebbero state fuori posto; eppure qualche cosa dovevano pur dire.
- Date un bello spettacolo di voi! - cominciò il padre, amaramente. -
E proprio degno di un gentiluomo! - (Gli aveva dato il voi, come faceva nei rimproveri più gravi, ma ora quell’uso ebbe un senso di lontananza, di distacco).
- Un gentiluomo, signor padre, è tale stando in terra come stando in cima agli alberi, - rispose Cosimo, e subito aggiunse: - se si comporta rettamente.
- Una buona sentenza, - ammise gravemente il Barone, -
quantunque, ora è poco, rubavate le susine a un fittavolo.
Era vero. Mio fratello era preso in castagna. Cosa doveva rispondere? Fece un sorriso, ma non altero o cinico: un sorriso di timidezza, e arrossì.
Anche il padre sorrise, un sorriso mesto, e chissà perché arrossì 5
anche lui. - Ora fate comunella coi peggiori bastardi ed accattoni, -
disse poi.
- No, signor padre, io sto per conto mio, e ognuno per il proprio, -
disse Cosimo, fermo.
- Vi invito a venire a terra, - disse il Barone, con voce pacata, quasi spenta, - e a riprendere i doveri del vostro stato.
- Non intendo obbedirvi, signor padre, - fece Cosimo, - me ne duole.
Erano a disagio tutti e due, annoiati. Ognuno sapeva quel che l’altro avrebbe detto. - Ma i vostri studi? E le vostre devozioni di cristiano? -
disse il padre. - Intendete crescere come un selvaggio delle Americhe?