pareva che dovesse mancargli il piede e cadere, cosa che mai avvenne.
Saltava, muoveva passi rapidissimi su di un ramo obliquo, s’appendeva e sollevava di scatto a un ramo superiore, e in quattro o cinque di questi precari zig-zag era sparito.
Dove andava? Quella volta corse e corse, dai lecci agli olivi ai faggi, e fu nel bosco. Si fermò ansante. Sotto di lui si distendeva un prato. Il vento basso vi muoveva un’onda, per i ciuffi fitti dell’erba, in un cangiare sfumature di verde. Volavano impalpabili piume dalle sfere di quei fiori detti soffioni. In mezzo c’era un pino isolato, irraggiungibile, con pigne oblunghe. I rampichini, rapidissimi uccelli color marrone picchiettato, si posavano sulle fronde fitte d’aghi, in punta, in posizioni sghembe, alcuni capovolti con la coda in su e il becco in basso, e beccavano bruchi e pinoli.
Quel bisogno d’entrare in un elemento difficilmente possedibile che aveva spinto mio fratello a far sue le vie degli alberi, ora gli lavorava ancora dentro, malsoddisfatto, e gli comunicava la smania d’una penetrazione più minuta, d’un rapporto che lo legasse a ogni foglia e scaglia e piuma e frullo.
Era quell’amore che ha l’uomo cacciatore per ciò che è vivo e non sa esprimerlo altro che puntandoci il fucile; Cosimo ancora non lo 3
sapeva riconoscere e cercava di sfogarlo accanendosi nella sua esplorazione.
Il bosco era fitto, impraticabile. Cosimo doveva aprirsi la strada a colpi di spadino, e a poco a poco dimenticava ogni sua smania, tutto preso dai problemi cui via via si trovava di fronte e da una paura (che non voleva riconoscere ma c’era) di star troppo allontanandosi dai luoghi familiari. Così facendosi largo nel folto, giunse nel punto dove vide due occhi che lo fissavano, gialli, tra le foglie, dritto davanti a sé.
Cosimo mise avanti lo spadino, scostò un ramo, lo lasciò ritornare piano al suo posto. Trasse un sospiro di sollievo, rise del timore provato; aveva visto di chi erano quegli occhi gialli, erano d’un gatto.
L’immagine del gatto, appena vista scostando il ramo, restava nitida nella sua mente, e dopo un momento Cosimo era di nuovo tremante di paura. Perché quel gatto, in tutto uguale a un gatto, era un gatto terribile, spaventoso, da mettersi a gridare al solo vederlo. Non si può dire cosa avesse di tanto spaventoso: era una specie di soriano, più grosso di tutti i soriani, ma questo non voleva dire niente, era terribile nei baffi dritti come aculei d’istrice, nel soffio che si sentiva quasi più con la vista che con l’udito uscire di tra una doppia fila di denti affilati come uncini; negli orecchi che erano qualcosa di più che aguzzi, erano 3
due fiamme di tensione, guernite d’una falsamente tenue peluria; nel pelo, tutto ritto, che gonfiava attorno al collo rattratto un collare biondo, e di lì si dipartivano le strie che fremevano sui fianchi come carezzandosi da sé; nella coda ferma in una posa così innaturale da parere insostenibile: a tutto questo che Cosimo aveva visto in un secondo dietro il ramo subito lasciato tornare al proprio posto s’aggiungeva quello che non aveva fatto in tempo a vedere ma s’immaginava: il ciuffo esagerato di pelo che attorno alle zampe mascherava la forza lancinante degli unghielli, pronti a scagliarsi contro di lui; e quello che vedeva ancora: le iridi gialle che lo fissavano tra le foglie ruotando intorno alla pupilla nera; e quello che sentiva: il bofonchio sempre più cupo e intenso; tutto questo gli fece capire di trovarsi davanti al più feroce gatto selvatico del bosco.
Tacevano tutti i cinguettii ed i frulli. Saltò, il gatto selvatico, ma non contro il ragazzo, un salto quasi verticale che stupì Cosimo più che spaventarlo. Lo spavento venne dopo, vedendosi il felino su un ramo proprio sopra la sua testa. Era là, rattratto, ne vedeva la pancia dal lungo pelo quasi bianco, le zampe tese con le unghie nel legno, mentre inarcava il dorso e faceva: fff... e si preparava certo a piombare su di lui. Cosimo, con un perfetto movimento neppure ragionato, passò su di 3
un ramo più basso. Fff... fff... fece il gatto selvatico, e ad ognuno dei fff... faceva un salto, uno in là uno in qua, e si ritrovò sul ramo sopra Cosimo. Mio fratello ripetè la sua mossa, ma venne a trovarsi a cavalcioni del ramo più basso di quel faggio. Sotto, il salto fino a terra era di una certa altezza, ma non tanto che non fosse preferibile saltar giù piuttosto che aspettare cosa avrebbe fatto la bestia, appena avesse finito d’emettere quello straziante suono tra il soffio e il gnaulìo.
Cosimo sollevò una gamba, quasi fosse per saltar giù, ma come in lui si scontrassero due istinti - quello naturale di porsi in salvo e quello dell’ostinazione di non scendere a costo della vita - strinse nello stesso tempo le cosce e le ginocchia al ramo; al gatto parve che fosse quello il momento di buttarsi, mentre il ragazzo era lì oscillante; gli volò addosso in un arruffìo di pelo, unghie irte e soffio; Cosimo non seppe far di meglio che chiudere gli occhi e avanzare lo spadino, una mossa da scemo, che il gatto facilmente evitò e gli fu sulla testa, sicuro di portarlo giù con sé sotto le unghie. Un’artigliata prese Cosimo sulla guancia, ma invece di cadere, serrato com’era al ramo coi ginocchi, s’allungò riverso lungo il ramo. Tutto il contrario di quel che s’aspettava il gatto, il quale si trovò sbalestrato di fianco, a cader lui.
Volle trattenersi, piantare gli unghielli nel ramo, ed in quel guizzo girò 4
su se stesso nell’aria; un secondo, quanto bastò a Cosimo, in un improvviso slancio di vittoria, per avventargli contro un a-fondo nella pancia e infilarlo gnaulante allo spadino.
Era salvo, lordo di sangue, con la bestia selvatica stecchita sullo spadino come su uno spiedo, e una guancia strappata da sotto l’occhio al mento da una triplice unghiata. Urlava di dolore e di vittoria e non capiva niente e si teneva stretto al ramo, alla spada, al cadavere di gatto, nel momento disperato di chi ha vinto la prima volta ed ora sa che strazio è vincere, e sa che è ormai impegnato a continuare la via che ha scelto e non gli sarà dato lo scampo di chi fallisce.
Così lo vidi arrivare per le piante, tutto insanguinato fin sul panciotto, il codino disfatto sotto il tricorno sformato, e reggeva per la coda quel gatto selvatico morto che adesso pareva un gatto e basta.
Corsi dalla Generalessa sul terrazzo. - Signora madre, - gridai, - è ferito?
- Was? Ferito come? - e già puntava il cannocchiale.
- Ferito che sembra un ferito! - dissi io e la Generalessa parve trovare pertinente la mia definizione, perché tenendogli dietro col cannocchiale mentre saltava più svelto che mai, disse: - Das 4
stimmt.
Subito si diede da fare a preparare garza e cerotti e balsami come dovesse rifornire l’ambulanza d’un battaglione, e diede tutto a me, che glielo portassi, senza che nemmeno la sfiorasse la speranza che lui, dovendosi far medicare, si decidesse a ritornare a casa. Io, col pacco delle bende, corsi nel parco e mi misi ad aspettarlo sull’ultimo gelso vicino al muro dei d’Ondariva, perché lui era già scomparso giù per la magnolia.
Nel giardino dei d’Ondariva egli apparve trionfante con la bestia uccisa in mano. E cosa vide nello spiazzo davanti alla villa? Una carrozza pronta per partire, con i servi che caricavano i bagagli sull’imperiale, e, in mezzo a uno stuolo di governanti e zie nere e severissime. Viola vestita da viaggio che abbracciava il Marchese e la Marchesa.
- Viola! - gridò, e alzò il gatto per la coda. - Dove vai?
Tutta la gente attorno alla carrozza alzò lo sguardo sui rami e al vederlo, lacero, sanguinante, con quell’aria di pazzo, con quella bestia morta in mano, ebbero un moto di raccapriccio. - De nouveau ici! Et arrangé de quelle facon! - e come prese da una furia tutte le zie spingevano la bambina verso la carrozza.
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Viola si voltò a naso in su, e con aria di dispetto, un dispetto annoiato e sussiegoso contro i parenti che però poteva essere anche contro Cosimo, scandì (certo rispondendo alla domanda di lui): - Mi mandano in collegio, - e si voltò per salire in carrozza. Non l’aveva degnato d’uno sguardo, né lui né la sua caccia.
Già era chiuso lo sportello, il cocchiere era in serpa, e Cosimo che ancora non poteva ammettere quella partenza, cercò d’attrarre l’attenzione di lei, di farle capire che dedicava a lei quella cruenta vittoria, ma non seppe spiegarsi altrimenti che gridandole: - Io ho vinto un gatto!
La frusta diede uno schiocco, la carrozza tra lo sventolio dei fazzoletti delle zie partì e dallo sportello si udì un: - Ma bravo! - di Viola, non si capì se d’entusiasmo o di dileggio.
Questo fu il loro addio. E in Cosimo, la tensione, il dolore dei graffi, la delusione di non aver gloria dalla sua impresa, la disperazione di quell’improvvisa separazione, tutto s’ingorgò e diruppe in un pianto feroce, pieno d’urla e di strida e rametti strappati.
- Hors d’ici Hors d’ici! Polisson sauvage! Hors de notre jardin! -
inveivano le zie, e tutti i famigli dei d’Ondariva accorrevano con lunghi bastoni o tirando sassi per cacciarlo.
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Cosimo scagliò il gatto morto in faccia a chi gli venne sotto, singhiozzando e urlando. I servi raccattarono la bestia per la coda e la buttarono in un letamaio.
Quando seppi che la nostra vicina era partita, per un poco sperai che Cosimo sarebbe sceso. Non so perché, collegavo con lei, o anche con lei, la decisione di mio fratello di restare sugli alberi.
Invece non se ne parlò nemmeno. Salii io a portargli bende e cerotti, e si medicò da sé i graffi del viso e delle braccia. Poi volle una lenza con un uncino. Se ne servì per ripescare, dall’alto d’un ulivo che sporgeva sul letamaio dei d’Ondariva, il gatto morto. Lo scuoiò, conciò alla meglio il pelo e se ne fece un berretto. Fu il primo dei berretti di pelo che gli vedemmo portare per tutta la vita.
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VII
L’ultimo tentativo di catturare Cosimo fu fatto da nostra sorella Battista. Iniziativa sua, naturalmente, compiuta senza consultarsi con nessuno, in segreto, come faceva lei le cose. Uscì nottetempo, con una caldaia di vischio e una scala a pioli, e invischiò un carrubo dalla cima al piede. Era un albero su cui Cosimo usava posarsi ogni mattino.
Al mattino, sul carrubo si trovarono appiccicati cardellini che battevano le ali, scriccioli tutti avviluppati nella poltiglia, farfalle notturne, foglie portate dal vento, una coda di scoiattolo, e anche una falda strappata dalla marsina di Cosimo. Chissà se egli s’era seduto su un ramo ed era poi riuscito a liberarsi, o se invece - più probabilmente, 4