E l’interprete, che era il Padre Sulpicio de Guadalete, della Compagnia di Gesù, esule da quando il suo ordine era stato messo al bando dalla Spagna: - Protetti dai nostri baldacchini, rivolgiamo il pensiero al Signore, ringraziandolo di quel poco che ci basta!...
- A caccia ci andate mai?
- Señor, algunas veces con el visco.
- Talvolta uno fra noi unge di vischio un ramo, per suo spasso.
Cosimo non era mai stanco di scoprire come avevano risolto i problemi che s’erano presentati pure a lui.
- E per lavarvi, per lavarvi, come fate?
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- Para lavar? Hay lavanderas! - disse Don Frederico, con un’alzata di spalle.
- Diamo i nostri indumenti alle lavandaie del paese, - tradusse Don Sulpicio. - Ogni lunedì, a esser precisi, noi si cala il canestro della roba sporca.
- No, volevo dire per lavarvi la faccia e il corpo. Don Frederico grugnì e alzò le spalle, come se
questo problema non gli si fosse mai presentato. Don Sulpicio si credette in dovere d’interpretare:
- Secondo il parere di Sua Altezza, queste son quistioni private di ciascheduno.
- E, chiedo venia, i vostri bisogni dove li fate?
- Ollas, Señor.
E Don Sulpicio, sempre col suo tono modesto:
- S’usa certi orciuolini, in verità.
Congedatosi da Don Frederico, Cosimo fu guidato dal Padre Sulpicio a far visita ai vari membri della colonia, nei loro rispettivi alberi residenziali. Tutti questi hidalghi e queste dame serbavano, pur nelle ineliminabili scomodità del loro soggiorno, atteggiamenti abituali e composti. Certi uomini, per stare a cavalcioni sui rami, usavano selle 7
da cavallo, e ciò piacque molto a Cosimo, che in tanti anni non aveva mai pensato a questo sistema (utilissimo per le staffe - notò subito -
che eliminano l’inconveniente di dover tenere i piedi penzoloni, cosa che dopo un po’ dà il formicolìo). Alcuni puntavano cannocchiali da marina (uno tra loro aveva il grado di Almirante) che probabilmente servivano soltanto a guardarsi tra loro da un albero all’altro, curiosare e far pettegolezzi. Le signore e signorine sedevano tutte su cuscini da loro stesse ricamati, agucchiando (erano le uniche persone in qualche modo operose) oppure carezzando grossi gatti. Di gatti, v’era su quegli alberi gran numero, come pure d’uccelli, in gabbia questi (forse erano le vittime del vischio) tranne alcuni liberi colombi che venivano a posarsi sulla mano delle fanciulle, e carezzati tristemente.
In queste specie di salotti arborei Cosimo era ricevuto con ospitale gravità. Gli offrivano il caffè, poi subito si mettevano a parlare dei palazzi da loro lasciati a Siviglia, a Granada, e dei loro possedimenti e granai e scuderie, e lo invitavano pel giorno in cui sarebbero stati reintegrati nei loro onori. Del Re che li aveva banditi parlavano con un accento che era insieme d’avversione fanatica e di devota reverenza, talvolta riuscendo a separare esattamente la persona contro la quale le loro famiglie
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erano in lotta e il titolo regale dalla cui autorità emanava la propria.
Talvolta invece a bella posta mescolavano i due opposti modi di considerazione in un solo slancio dell’animo: e Cosimo, ogni volta che il discorso cadeva sul Sovrano, non sapeva più che faccia fare.
Aleggiava su tutti i gesti e i discorsi degli esuli un’aura di tristezza e lutto, che un po’ corrispondeva alla loro natura, un po’ a una determinazione volontaria, come talora avviene in chi combatte per una causa non ben definita nei convincimenti e cerca di supplire con l’imponenza del contegno.
Nelle giovinette - che a una prima occhiata parvero a Cosimo tutte un po’ troppo pelose e opache di pelle - serpeggiava un accenno di brio, sempre frenato a tempo. Due d’esse giocavano, da un platano all’altro, al volano. Tic e tac, tic e tac, poi un gridolino: il volano era caduto in strada. Lo raccattava un monello olivabasso e per tirarlo su pretendeva due pesetas.
Sull’ultimo albero, un olmo, stava un vecchio, chiamato El Conde, senza parrucca, dimesso nel vestire. Il Padre Sulpicio, avvicinandosi, abbassò la voce, e Cosimo fu indotto a imitarlo. El Conde con un braccio spostava ogni tanto un ramo e guardava il declivio della collina e una piana or verde or brulla che si perdeva lontano.
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Sulpicio mormorò a Cosimo una storia d’un suo figlio detenuto nelle carceri di Re Carlo e torturato. Cosimo comprese che mentre tutti quegli hidalghi facevano gli esuli così per dire, ma dovevano ogni poco richiamarsi alla mente e ripetersi perché e percome si trovavano là, solo quel vecchio soffriva davvero. Questo gesto di scostare il ramo come aspettandosi di veder apparire un’altra terra, quest’inoltrare pian piano lo sguardo nella distesa ondulata come sperando di non incontrare mai l’orizzonte, di riuscire a scorgere un paese ahi quanto lontano, era il primo segno vero d’esilio che Cosi-mo vedeva. E comprese quanto per quegli hidalghi contasse la presenza del Conde, come fosse quella a tenerli insieme, a dare loro un senso. Era lui, forse il più povero, certo in patria il meno autorevole di loro, che diceva loro quello che dovevano soffrire e sperare.
Tornando dalle visite, Cosimo vide su un ontano una fanciulla che non aveva visto prima. In due salti fu lì.
Era una ragazza con occhi di bellissimo color pervinca e carnagione profumata. Reggeva un secchio.
- Com’è che quando ho visto tutti non vi ho vista?
- Ero per acqua al pozzo, - e sorrise. Dal secchio, un po’ inclinato, 7
cadde dell’acqua. Lui la aiutò a reggerlo.
- Voi dunque scendete dagli alberi?
- No; c’è un ritorto ciliegio che fa ombra al pozzo. Di là caliamo i secchi. Venite.
Camminarono per un ramo, scavalcando il muro d’una corte. Lei lo guidò nel passaggio sul ciliegio. Sotto era il pozzo.
- Vedete, Barone?
- Come sapete che sono un Barone?
- Io so tutto, - sorrise. - Le mie sorelle m’hanno subito informata della visita.
- Sono quelle del volano?