- Irena e Raimunda, appunto.
- Le figlie di Don Frederico?
- Sì...
- E il vostro nome?
- Ursula.
- Voi andate sugli alberi meglio d’ogni altro qui.
- Ci andavo da bambina: a Granada avevamo grandi alberi nel patio. - Sapreste cogliere quella rosa? - In cima a un albero era fiorita una rosa rampicante.
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- Peccato: no.
- Bene, ve la coglierò io -. S’avviò, tornò con la rosa. Ursula sorrise ed avanzò le mani.
- Voglio appuntarla io stesso. Ditemi dove.
- Sul capo, grazie, - e accompagnò la mano di lui.
- Ora ditemi: sapreste, - Cosimo chiese, - raggiungere quel mandorlo?
- Come si fa? - rise. - Non so mica volare.
- Aspettate, - e Cosimo tirò un laccio. - Se vi lasciate legare a questa corda, io vi scarrucolo di là.
- No... Ho paura, - ma rideva.
- È il mio sistema. Ci viaggio da anni, facendo tutto da solo.
- Mamma mia!
La trasportò di là. Poi venne lui. Era un mandorlo tenero e non vasto. Vi si stava vicini. Ursula era ancora ansante e rossa per quel volo.
- Spaventata?
- No -. Ma le batteva il cuore.
- La rosa non s’è persa, - lui disse e la toccò per aggiustarla.
Così, stretti sull’albero, a ogni gesto s’andavano abbracciando.
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- Uh! - disse lei, e, lui per primo, si baciarono. Così cominciò l’amore, il ragazzo felice e sbalordito, lei felice e non sorpresa affatto (alle ragazze nulla accade a caso). Era l’amore tanto atteso da Cosimo e adesso inaspettatamente giunto, e così bello da non capire come mai lo si potesse immaginare bello prima. E della sua bellezza la cosa più nuova era l’essere così semplice, e al ragazzo in quel momento pare che debba sempre essere così.
XVIII
Fiorirono i peschi, i mandorli, i ciliegi. Cosimo e Ursula passavano insieme le giornate sugli alberi fioriti. La primavera colorava di gaiezza perfino la funerea vicinanza del parentado.
Nella colonia degli esuli mio fratello seppe subito rendersi utile, insegnando i vari modi di passare da un albero all’altro e incoraggiando quelle nobili famiglie a uscire dalla abituale compostezza per praticare un po’ di movimento. Gettò anche dei ponti di corda, che permettevano agli esuli più vecchi di scambiarsi delle visite. E così, in quasi un anno di permanenza tra gli Spagnoli, dotò la colonia di molti attrezzi da lui inventati: serbatoi d’acqua, fornelli, sacchi di pelo per dormirci dentro. Il desiderio di far nuove invenzioni 7
lo portava a secondare le usanze di questi hidalghi anche quando non andavano d’accordo con le idee dei suoi autori preferiti: così, vedendo il desiderio di quelle pie persone di confessarsi regolarmente, scavò dentro un tronco un confessionale, dentro il quale poteva entrare il magro Don Sulpicio e da una finestrella con tendina e grata ascoltare i loro peccati.
La pura passione delle innovazioni tecniche, insomma, non bastava a salvarlo dall’ossequio alle norme vigenti; ci volevano le idee.
Cosimo scrisse al libraio Orbecche che da Ombrosa gli rimandasse per la posta a Olivabassa i volumi arrivati nel frattempo. Così potè far leggere a Ursula Paolo e Virginia e La Nuova Eloisa.
Gli esuli tenevano spesso adunanze su una vasta quercia, parlamenti in cui stilavano lettere al Sovrano. Queste lettere in principio dovevano essere sempre d’indignata protesta e di minaccia, quasi degli ultimatum; ma a un certo punto, dall’uno o dall’altro di loro venivano proposte formule più blande, più rispettose, e così si finiva in una supplica in cui si prosternavano umilmente ai piedi delle Graziose Maestà implorandone il perdono.
Allora s’alzava El Conde. Tutti ammutolivano. El Conde, 7
guardando in alto, cominciava a parlare, a voce bassa e vibrata, e diceva tutto quel che aveva in cuore. Quando si risiedeva, gli altri restavano seri e muti. Nessuno accennava più alla supplica.
Cosimo ormai faceva parte della comunità e prendeva parte ai parlamenti. E là, con ingenuo fervore giovanile, spiegava le idee dei filosofi, e i torti dei Sovrani, e come gli Stati potevano esser retti secondo ragione e giustizia. Ma tra tutti, i soli che potevano dargli ascolto erano El Conde che per quanto vecchio s’arrovellava sempre alla ricerca d’un modo di capire e reagire, Ursula che aveva letto qualche libro, e un paio di ragazze un po’ più sveglie delle altre. Il resto della colonia erano teste di suola da piantarci dentro i chiodi.
Insomma, questo Conde, dài e dài, invece di star sempre a contemplare il paesaggio cominciò a volersi leggere dei libri.
Rousseau gli riuscì un po’ ostico; Montesquieu invece gli piaceva: era già un passo. Gli altri hidalghi, niente, sebbene qualcuno di nascosto da Padre Sulpicio chiedesse a Cosimo in prestito la Pulzella per andarsi a leggere le pagine spinte. Così, col Conde che macinava nuove idee, le adunanze sulla quercia presero un’altra piega: ormai si parlava d’andare in Spagna a far la rivoluzione.
Padre Sulpicio dapprincipio non fiutò il pericolo. Lui di suo non era 7
molto fino, e, tagliato fuori da tutta la gerarchia dei superiori, non era più aggiornato sui veleni delle coscienze. Ma appena potè riordinare le idee (o appena, dicono altri, ricevette certe lettere coi sigilli vescovili) cominciò a dire che il demonio s’era intrufolato in quella loro comunità e che c’era da aspettarsi una pioggia di fulmini, che incenerisse gli alberi con tutti loro sopra.
Una notte Cosimo fu svegliato da un lamento. Accorse con una lanterna e sull’olmo del Conde vide il vecchio già legato al tronco e il Gesuita che stringeva i nodi.