Mio fratello voleva firmarmi una carta d’usufruttuario di tutti i beni, purché gli passassi un mensile, gli pagassi le tasse e tenessi un po’ in ordine gli affari. Non avevo che da prendermi la direzione dei poderi, scegliermi una sposa e già mi vedevo davanti quella vita regolata e pacifica, che nonostante i gran trambusti del trapasso di secolo mi riuscì di vivere davvero.
Però, prima di cominciare, mi concessi un periodo di viaggi. Fui anche a Parigi, proprio in tempo per vedere le trionfali accoglienze tributate al Voltaire che vi tornava dopo molti anni per la rappre-sentazione d’una sua tragedia. Ma queste non sono le memorie della mia vita, che non meriterebbero certo d’esser scritte; volevo solo dire come in tutto questo viaggio fui colpito dalla fama che s’era sparsa dell’uomo rampante d’Ombrosa, anche nelle nazioni straniere. Perfino su di un almanacco vidi una figura con sotto scritto: «L’homme 9
sauvage d’Ombreuse (Rép. Génoise). Vit seulement sur les arbres». L’avevano rappresentato come un essere tutto ricoperto di lanugine, con una lunga barba ed una lunga coda, e mangiava una locusta. Questa figura era nel capitolo dei mostri, tra l’Ermafrodito e la Sirena.
Di fronte a fantasie di questo genere, io di solito mi guardavo bene dal rivelare che l’uomo selvatico era mio fratello. Ma lo proclamai ben forte quando a Parigi fui invitato a un ricevimento in onore di Voltaire.
Il vecchio filosofo se ne stava sulla sua poltrona, coccolato da uno stuolo di madame, allegro come una pasqua e maligno come un istrice.
Quando seppe che venivo da Ombrosa, m’apostrofò: - C’est chez vous, mon cher Chevalier, qu’il y a ce fameux philosophe qui vit sur les arbres camme un singe?
E io, lusingato, non potei trattenermi dal rispondergli: - C’est mon frère, Monsieur, le Baron de Rondeau.
Voltaire fu molto sorpreso, fors’anche perché il fratello di quel fenomeno appariva persona così normale, e si mise a farmi domande, come: - Mais c’est pour approcher du ciel, que votre frère reste là-haut?
- Mio fratello sostiene, - risposi, - che chi vuole guardare bene la 9
terra deve tenersi alla distanza necessaria, - e il Voltaire apprezzò molto la risposta.
- Jadis, c’était seulement la Nature qui créait des phénomènes vivants, - concluse; - maintenant c’est la Raison -. E il vecchio sapiente si rituffò nel chiacchiericcio delle sue pinzochere teiste.
Presto dovetti interrompere il viaggio e ritornare a Ombrosa, richiamato da un dispaccio urgente. L’asma di nostra madre s’era improvvisamente aggravata e la poverina non lasciava più il letto.
Quando varcai il cancello e alzai gli occhi verso la nostra villa ero sicuro che l’avrei visto lì. Cosimo era arrampicato su un alto ramo di gelso, appena
fuori del davanzale di nostra madre. - Cosimo! - lo chiamai, ma a voce smorzata. Mi fece un cenno che voleva dire tutt’insieme che la mamma era un po’ sollevata, ma era sempre grave, e che salissi ma fa-cessi piano.
La stanza era in penombra. La mamma in letto con una pila di guanciali che le tenevano sollevate le spalle sembrava più grande di quanto non l’avessimo mai vista. Intorno c’erano poche donne di casa.
Battista non era ancora arrivata, perché il Conte suo marito, che doveva accompagnarla, era stato trattenuto per la vendemmia.
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Nell’ombra della stanza, spiccava la finestra aperta che inquadrava Cosimo fermo sul ramo dell’albero.
Mi chinai a baciare la mano di nostra madre. Mi riconobbe subito e mi posò la mano sul capo. - Oh, sei arrivato, Biagio... - Parlava con un filo di voce, quando l’asma non le stringeva troppo il petto, ma correntemente e con gran senno. Quello che mi colpì, però, fu il sentirla rivolgersi indifferentemente a me come a Cosimo, quasi fosse anch’egli lì al capezzale. E Cosimo dall’albero le rispondeva.
- È tanto che ho preso la medicina, Cosimo?
- No, son solo pochi minuti, mamma, aspettate a riprenderne, che ora non vi può far bene.
A un certo punto ella disse: - Cosimo, dammi uno spicchio d’arancia, - e io mi sentii stranito. Ma più ancora stupii quando vidi che Cosimo allungava nella camera attraverso la finestra una specie d’arpione da barche e con quello prendeva uno spicchio d’arancia da una consolle e lo porgeva in mano a nostra madre.
Notai che per tutte queste piccole cose, ella preferiva rivolgersi a lui.
- Cosimo, dammi lo scialle.
E lui coll’arpione cercava tra la roba buttata sulla 9
poltrona, sollevava lo scialle, lo porgeva a lei. - Ecco, mamma.
- Grazie, figlio mio.
Sempre gli parlava come fosse a un passo di distanza ma notai che non gli chiedeva mai cose che lui non arrivasse a fare dall’albero. In quei casi chiedeva sempre a me o alle donne.
Di notte la mamma non s’assopiva. Cosimo restava a vegliarla sull’albero, con una lucernetta appesa al ramo, perché lo vedesse anche nel buio.
Al mattino era il momento più brutto per l’asma. L’unico rimedio era cercare di distrarla e Cosimo con uno zufolo suonava delle ariette, o imitava il canto degli uccelli, o acchiappava farfalle e poi le faceva volare nella camera, o dispiegava dei festoni di fiori di glicine.
Ci fu una giornata di sole. Cosimo con una ciotola sull’albero si mise a fare bolle di sapone e le soffiava dentro la finestra, verso il letto della malata. La mamma vedeva quei colori dell’iride volare e riempire la stanza e diceva: - O che giochi fate! - che pareva quando eravamo bambini e disapprovava sempre i nostri divertimenti come troppo futili e infantili. Ma adesso, forse per la prima volta, prendeva piacere a un nostro gioco. Le bolle di sapone le arrivavano fin sul viso e lei col respiro le faceva scoppiare, e sorrideva. Una bolla giunse fino 9
alle sue labbra e restò intatta. Ci chinammo su di lei. Cosimo lasciò cadere la ciotola. Era morta.
Ai lutti succedono presto o tardi eventi lieti, è legge della vita. Dopo un anno dalla morte di nostra madre mi fidanzai con una fanciulla della nobiltà dei dintorni. Ci volle del bello e del buono per convincere la mia promessa sposa all’idea che sarebbe venuta a stare a Ombrosa: aveva paura di mio fratello. Il pensiero che ci fosse un uomo che si muoveva tra le foglie, che spiava ogni mossa dalle finestre, che appariva quando meno ce lo si aspettava, la riempiva di terrore, anche perché non aveva mai visto Cosimo e l’immaginava come una specie d’In-diano. Per toglierle dalla testa questa paura, indissi un pranzo all’aperto, sotto gli alberi, cui anche Cosimo era invitato. Cosimo mangiava sopra di noi, su di un faggio, coi piatti su di una mensoletta, e devo dire che sebbene per i pasti in società fosse fuori d’esercizio si comportò molto bene. La mia fidanzata si tranquillizzò un poco, rendendosi conto che a parte lo star sugli alberi era un uomo in tutto uguale agli altri; ma le restò un’invincibile diffidenza.
Anche quando, sposatici, ci stabilimmo insieme nella villa d’Ombrosa, sfuggiva il più possibile non solo la conversazione ma 0
anche la vista del cognato, sebbene lui, poverino, ogni tanto le portasse dei mazzi di fiori o delle pelli pregiate. Quando inco-minciarono a nascerci i figli e poi a crescere, si mise in testa che la vicinanza dello zio potesse avere una cattiva influenza sulla loro educazione. Non fu contenta finché non facemmo riattare il castello nel nostro vecchio feudo di Rondò, da tempo disabitato, e prendemmo a stare più lassù che a Ombrosa, perché i bambini non avessero cattivi esempi.
E pure Cosimo cominciava ad accorgersi del tempo che passava, e il segno era il bassotto Ottimo Massimo che stava diventando vecchio e non aveva più voglia di unirsi alle mute dei segugi dietro alle volpi né tentava più assurdi amori con cagne alane o mastine. Era sempre accucciato, come se per la pochissima distanza che separava la sua pancia da terra quand’era in piedi, non valesse la pena di tenersi ritto.
E lì disteso quant’era lungo, dalla coda al muso, ai piedi dell’albero su cui era Cosimo, alzava uno sguardo stanco verso il padrone e scodinzolava
appena. Cosimo si faceva scontento: il senso del trascorrere del tempo gli comunicava una specie d’insoddisfazione della sua vita, del su e giù sempre tra quei quattro stecchi. E nulla gli dava più la 0
contentezza piena, né la caccia, né i fugaci amori, né i libri. Non sapeva neanche lui cosa voleva: preso dalle sue furie, s’arrampicava rapidissimo sulle vette più tenere e fragili, come cercasse altri alberi che crescessero sulla cima degli alberi per salire anche su quelli.
Un giorno Ottimo Massimo era inquieto. Pareva fiutasse un vento di primavera. Alzava il muso, annusava, si ributtava giù. Due o tre volte s’alzò, si mosse intorno, si risdraiò. Tutt’a un tratto prese la corsa.