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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli non c’è modo di difendersi. – Se si sapesse leggere e scrivere, non ci potrebbero cosí derubare. Ora ci sono le scuole, ma non ci si insegna nulla. Quelli di Roma prefe-riscono che noi si resti come bestie –. Tuttavia questi contadini taglieggiati, quelli stessi che facevano un giorno di strada a piedi, da Senise, per venire a vendere due lire di «lacci», o che una volta portarono fin da Metaponto una cesta di arance bellissime, costate ai coltivato-ri qualche morto della perniciosa maligna delle rive del mare, si spogliarono dell’oro nella «giornata della fede».
Di ori, veramente, ce n’erano ben pochi in paese: razzia-ti a poco a poco, dai mercanti d’oro, che girano ogni an-no per i villaggi piú remoti, soprattutto nei mesi di maggio e di giugno, poco prima del raccolto del grano, quando i contadini hanno finito le scorte, sono indebita-ti, e non sanno come fare per tirare avanti. Fu fatto credere a tutti che consegnare l’oro era obbligatorio, che chissà quali pene sarebbero venute a chi non l’avesse da-to; che anche il Papa aveva ordinato di dare tutto l’oro delle chiese: ed essi lo portarono, rassegnati a questa nuova vessazione, sull’altare della Patria. Anche la Giulia, anche la Parroccola si privarono del loro anello nu-ziale, ricordo dei loro antichi matrimoni, e dei mariti scomparsi di là dal mare.
Il marito della Giulia era partito, con il figlio il primo dei diciassette che la Santarcangelese avrebbe avuto poi, per l’Argentina, e non se ne era poi mai saputo piú nulla. Ma un giorno la Giulia ricevette una lettera, e me la portò perché gliela leggessi. Era scritta in un linguaggio misto di italiano e di spagnolo, e veniva da Civitavec-chia. Era quel primo figlio, perduto da quasi vent’anni, cresciuto a Buenos Aires, che scriveva di essersi arruolato per andare in Abissinia. Si era ricordato della madre.
Non le parlava del padre: diceva che sperava di avere una licenza prima di partire dall’Italia, per venirla a conoscere e a salutare. La licenza non venne, il giovane Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli mandò una sua fotografia, e scrisse di tanto in tanto dall’Africa. Io gli rispondevo, sotto dettato della Giulia.
Giunse infine una lettera, dove egli diceva che la guerra sarebbe presto finita, e pregava sua madre di trovargli, a Gagliano, una ragazza per moglie. Stava a lei di sceglier-la: appena tornato, l’avrebbe sposata. Anche su questo giovane, partito prima di ogni possibile ricordo infantile, l’America era passata, come sugli altri emigrati, senza lasciar traccia; ed egli sarebbe tornato ad un paese che non aveva mai visto, per sposare una donna ignota, scelta dalla madre strega, di cui sapeva soltanto il nome. La Giulia, che conosceva tutto il palese e il nascosto di tutte le donne di Gagliano, scelse per suo figlio una contadina non bella, ma robusta e ritrosissima, che stava quasi di faccia a casa mia, e attese, con la sposa, il ritorno e le nozze.
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli Aprile fu un mese pazzo, di sole e piogge e nuvole vaganti. Qualcosa era per l’aria, come un tremito lontano, che forse annunciava altrove la primavera: ma non arrivavano fin qui quegli effluvi di una vita rinascente, quel turgore vegetale delle felici terre del nord, che si libera-no della neve per respirare nel sole amoroso e nel verde.
Il freddo era finito, soffiavano venti gagliardi, ma l’erba non cresceva sulle prode, né i fiori, né le viole. Nulla cambiava nel paesaggio: le argille si stendevano grige tutto attorno, come sempre: qualcosa mancava, la vita stessa dell’anno; e il senso di questa mancanza riempiva il cuore di tristezza. Col tempo migliore, le vie del paese erano tornate deserte: gli uomini erano tutto il giorno lontani, nei campi invisibili. I ragazzi sguazzavano, con le capre, nelle pozzanghere. Io passeggiavo in ozio, col mio vestito di velluto, o restavo a dipingere sulla mia terrazza, all’aperto. Dalle case mi giungevano alterne le voci delle donne, e gli strilli dei maialini giovani, quando quelle li lavavano e insaponavano e strigliavano, secondo il loro uso, come bambini rosati riluttanti dall’acqua.
Tornavo a casa, una sera, ripercorrendo i noti saliscendi della strada fra Gagliano di Sopra e Gagliano di Sotto, e fermandomi qua e là a riguardare meccanica-mente quei monti di cui sapevo a mente ogni macchia e ogni ruga, come visi di persone familiari che diventano quasi invisibili per troppo lunga conoscenza. Guardavo cosí, senza piú vedere nulla di determinato, in quell’aria grigia e in quel vento: mi pareva di aver perso ogni senso, di essere uscito dal tempo, di essere tutto avvolto dal mare di una passiva eternità, da cui non sarei piú potuto uscire. Mi ero seduto un momento vicino alla fontana che a quell’ora era deserta, e ascoltavo in me il cavo rumore di quel mare, senza pensare a nulla, quando mi raggiunse la postina, una vecchia malata, scarna, schian-tata dalla tosse e dagli stenti, che si affannava tutto il giorno su per le stradette,del paese, con la borsa delle Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli lettere sul capo. Aveva un telegramma per me, molto ri-tardato dalla censura, che mi annunciava la morte di un mio stretto parente. Rientrai in casa; di lí a poco venni avvertito che la questura mi autorizzava, in seguito a ri-chiesta urgente dei miei, a recarmi, ben scortato, per pochi giorni nella mia città, per gravi ragioni di famiglia.
Avrei potuto partire all’alba, per prendere l’autobus di Matera: mi avrebbe accompagnato fin là don Gennaro, la guardia municipale.
Cosí fui strappato a quell’apatico fluire di giorni, e mi ritrovai di nuovo in moto, in una strada, su un treno, tra campi verdi. Quel viaggio fu per me cosí triste che mi è quasi uscito dalla memoria. Rividi ancora una volta da lontano il monte di Grassano, e quel paese cosí prosai-camente angelico: poi entrai nelle terre per me nuove, sempre piú brulle, desolate e deserte, tra il Basento, il Bradano e la Gravina, oltre Grottole e Miglionico, verso Matera. A Matera dovetti fermarmi alcune ore, perché si disponesse per la mia scorta. Vidi allora quella città, e capii come fosse giustificato l’orrore di mia sorella, che in me si accompagnava alla meraviglia per quella tragica bellezza. Montai infine sul treno, con un agente, e risalii, notte e giorno, tutta l’Italia. Restai pochi giorni nella mia città, seguito costantemente da due poliziotti, che dovevano vegliare su di me anche la notte, ma che invece dormivano in una stanzetta che avevo improvvisato per loro in casa mia. Il mio soggiorno fu melanconico, a parte la ragione dolorosa del viaggio. Mi aspettavo il piú vi-vo piacere nel rivedere la città, nel parlare con i vecchi amici, nel ripartecipare per un momento a una vita molteplice e movimentata: ma ora sentivo in me un distacco che non sapevo superare, un senso di infinita lontananza, una difficoltà di adesione che mi impedivano di godere dei beni ritrovati. Molti mi sfuggivano per prudenza, altri evitavo io stesso di incontrare per non comprometterli altri, piú coraggiosi o meno pericolanti, Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli mi cercavano, senza timore dei miei custodi e del loro rapporto serale. Ma anche con questi mi riusciva difficile ritrovare un completo contatto. Mi pareva che una parte di me fosse ormai estranea a quel mondo d’interessi, di ambizioni, di attività e di speranza; quella loro vita non era piú la mia, e non mi toccava il cuore. Cosí, passati in un attimo quei brevi giorni, ripartii senza dispiacere, con due nuovi accompagnatori. Erano due agenti, che avevano brigato a lungo per avere questo incarico, perché speravano, guadagnando qualcosa sui giorni di viaggio, di trovare il tempo di visitare le loro famiglie. Uno di essi, un siciliano magro, aveva la moglie a Roma. Quando fummo là, e dovemmo restarci qualche ora in attesa della coincidenza, mi si raccomandò, che non lo tradissi, perché avrebbe voluto fermarsi con la moglie. Lo rassicurai: si godesse pure quei giorni: il suo compagno sarebbe bastato per sorvegliarmi. Mi salutò, e scomparve.
L’altro mi accompagnò invece fino a Gagliano. Era un giovane bruno, già un po’ stempiato, piuttosto elegante. Mi disse, con molta vergogna per la sua attuale occupazione, di appartenere a una famiglia assai distinta di Montemurro, in val d’Agri: e seppi poi, a Gagliano, che tutto quello che mi aveva raccontato era vero. Suo padre era un cieco, celebre in tutta la provincia: ed era ricco. Teneva in affitto delle grandissime tenute, in paesi diversi e lontani della Lucania: tutti lo conoscevano, lui e un suo famoso cavallo, che lo conduceva per tutte le strade, a visitare quei poderi sparsi a cinquantine di chilometri l’uno dall’altro, solo e senza guida. Erano otto figli, e tutti i maggiori avevano studiato, e si erano laurea-ti. Quando il padre morí, gli affari della famiglia andarono subito a rotoli. I fratelli avevano tutti dei buoni impieghi, ma il mio poliziotto, De Luca, che era l’ultimo, era ancora studente al liceo. Dovette sospendere gli studi, e non trovò meglio da fare, secondo l’uso, che en-Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli trare nella Polizia. Ma quel mestiere gli ripugnava: voleva dare la licenza liceale, trovare un altro impiego. Forse io avrei potuto aiutarlo? Cosí il mio custode mi confes-sava le sue miserie. A Roma c’erano i suoi fratelli, i suoi zii, tutti impiegati in qualche Ministero. Egli voleva visitarli, ma non poteva lasciarmi: mi pregò di accompa-gnarlo. Fu cosí che vidi i salotti di parecchie case d’impiegati; fui presentato a tutti come un suo amico personale, e dappertutto ebbi una tazza di caffè, e dovetti dare risposte evasive sulla mia persona. De Luca si vergognava anche dei suoi parenti; nessuno di essi sapeva né doveva sapere che faceva il poliziotto. Per loro, egli aveva un buon impiego in una città del nord, e io ero un suo collega.
Già il treno ci riportava, oltre la capitale, verso il sud.
Era notte, e non mi riusciva di dormire. Seduto sulla du-ra panca, andavo ripensando ai giorni passati, a quel senso di estraneità, e alla totale incomprensione dei politici per la vita di quei paesi verso cui mi affrettavo. Tutti mi avevano chiesto notizie del mezzogiorno; a tutti avevo raccontato quello che avevo visto: e, se tutti mi avevano ascoltato con interesse, ben pochi mi era parso volessero realmente capire quello che dicevo. Erano uomini di varie opinioni e temperamenti: dagli estremisti piú accesi ai piú rigidi conservatori. Molti erano uomini di ve-ro ingegno e tutti dicevano di aver meditato sul «problema meridionale» e avevano pronte le loro formule e i loro schemi. Ma cosí come queste loro formule e schemi, e perfino il linguaggio e le parole usate per esprimer-li sarebbero stati incomprensibili all’orecchio dei contadini, cosí la vita e i bisogni dei contadini erano per essi un mondo chiuso, che neppure si curavano di penetrare.
Erano, in fondo, tutti (mi pareva ora di vederlo chiaramente) degli adoratori, piú o meno inconsapevoli, dello Stato; degli idolatri che si ignoravano. Non importava se il loro Stato fosse quello attuale o quello che vagheggia-Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli vano nel futuro: nell’uno e nell’altro caso era lo Stato, inteso come qualcosa di trascendente alle persone e alla vita del popolo; tirannico o paternamente provvidente, dittatoriale o democratico, ma sempre unitario, centra-lizzato e lontano. Di qui la impossibilità, fra i politici e i miei contadini, di intendere e di essere intesi. Di qui il semplicismo, spesso ammantato di espressioni filosofeg-gianti, dei politici, e l’astrattezza delle loro soluzioni, non mai aderenti a una realtà viva, ma schematiche, par-ziali, e cosí presto invecchiate. Quindici anni di fascismo avevano fatto dimenticare a tutti il problema meridionale; e, se ora dovevano riproporselo, non sapevano vederlo che in funzione a qualcosa d’altro, alle generiche fin-zioni mediatrici del partito o della classe, o magari della razza. Alcuni vedevano in esso un puro problema economico e tecnico, parlavano di opere pubbliche, di bonifiche, di necessaria industrializzazione, di colonizzazione interna, o si riferivano ai vecchi programmi socialisti «rifare l’Italia». Altri non vi vedevano che una triste eredità storica, una tradizione di borbonica servitú, che una democrazia liberale avrebbe un po’ per volta eliminato. Altri sentenziavano non essere altro, il problema meridionale, che un caso particolare della oppressione capitalistica, che la dittatura del proletariato avrebbe senz’altro risolto. Altri ancora pensavano a una vera inferiorità di razza, e parlavano del sud come di un peso morto per l’Italia del nord, e studiavano le provvi-denze per ovviare, dall’alto, a questo doloroso stato di fatto. Per tutti, lo Stato avrebbe dovuto fare qualcosa, qualcosa di molto utile, benefico e provvidenziale: e mi avevano guardato con stupore quando io avevo detto che lo Stato, come essi lo intendevano, era invece l’ostacolo fondamentale a che si facesse qualunque cosa. Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamia-mo problema meridionale non è altro che il problema Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli dello Stato. Fra lo statalismo fascista, lo statalismo liberale, lo statalismo socialistico, e tutte quelle altre future forme di statalismo che in un paese piccolo-borghese come il nostro cercheranno di sorgere, e l’antistatalismo dei contadini, c’è, e ci sarà sempre, un abisso; e si potrà cercare di colmarlo soltanto quando riusciremo a creare una forma di Stato di cui anche i contadini si sentano parte. Le opere pubbliche, le bonifiche, sono ottime co-se, ma non risolvono il problema. La colonizzazione interna potrà avere dei discreti frutti materiali, ma tutta l’Italia, non solo il mezzogiorno, diventerebbe una colonia. I piani centralizzati possono portare grandi risultati pratici, ma sotto qualunque segno resterebbero due lta-lie ostili. Il problema di cui parliamo è molto piú complesso di quanto pensiate. Ha tre diversi aspetti, che so-no le tre facce di una sola realtà, e che non possono essere intese né risolte separatamente. Siamo anzitutto di fronte al coesistere di due civiltà diversissime, nessuna delle quali è in grado di assimilare l’altra. Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non piú cristiana, stanno di fronte; e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima la sua teocrazia statale, il dissidio continuerà. La guerra attuale, e quelle che verranno, sono in gran parte il risultato di questo dissidio secolare, giunto ora alla sua piú intensa acutezza, e non soltanto in Italia.
La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza, per esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale si perpetuerà. Il brigantaggio, guerra contadina, ne è la prova: e quello del secolo scorso non sarà l’ultimo.
Finché Roma governerà Matera, Matera sarà anarchica e disperata, e Roma disperata e tirannica.
Il secondo aspetto del problema è quello economico: è il problema della miseria. Quelle terre si sono andate progressivamente impoverendo; le foreste sono state tagliate, i fiumi si sono fatti torrenti, gli animali si sono di-Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli radati, invece degli alberi, dei prati e dei boschi, ci si è ostinati a coltivare il grano in terre inadatte. Non ci sono capitali, non c’è industria, non c’è risparmio, non ci so-no scuole, l’emigrazione è diventata impossibile, le tasse sono insopportabili e sproporzionate: e dappertutto regna la malaria. Tutto ciò è in buona parte il risultato delle buone intenzioni e degli sforzi dello Stato, di uno Stato che non sarà mai quello dei contadini, e che per essi ha creato soltanto miseria e deserto.
Infine c’è il lato sociale del problema. Si usa dire che il grande nemico è il latifondo, il grande proprietario; e certamente, là dove il latifondo esiste, esso è tutt’altro che una istituzione benefica. Ma se il grande proprietario, che sta a, Napoli, a Roma, o a Palermo, è un nemico dei contadini, non è tuttavia il maggiore né il piú gravo-so. Egli almeno è lontano, e non pesa quotidianamente sulla vita di tutti. Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile ai contadini, è la piccola borghesia dei paesi. È una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempie-re la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale.
Questo problema, nel suo triplice aspetto, preesisteva al fascismo; ma il fascismo, pure non parlandone piú, e negandolo, l’ha portato alla sua massima acutezza, perché con lui lo statalismo piccolo-borghese è arrivato alla piú completa affermazione. Noi non possiamo oggi pre-vedere quali forme politiche si preparino per il futuro: ma in un paese di piccola borghesia come l’Italia, e nel quale le ideologie piccolo-borghesi sono andate conta-giando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno al fascismo, per evoluzione lenta o per opera di violenza, e anche le piú estreme e apparentemente rivoluzionarie Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli fra esse, saranno riportate a riaffermare, in modi diversi, quelle ideologie; ricreeranno uno Stato altrettanto, e forse piú, lontano dalla vita, idolatrico e astratto, perpe-tueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano. Senza una rivoluzione contadina, non avremo mai una vera rivoluzione italiana, e viceversa. Le due cose si identificano. Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapre-mo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno: ché in questo caso avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio, che finirebbe, al solito, con la sconfitta contadina, e il disastro generale; ma soltanto con l’opera di tutta l’Italia, e il suo radicale rinnovamento. Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può piú essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale. Dobbiamo ripensare ai fonda-menti stessi dell’idea di Stato: al concetto d’individuo che ne è la base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato. L’individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i rapporti. Questo concetto di relazione, fuori della quale l’individuo non esiste, è lo stesso che defini-sce lo Stato. Individuo e Stato coincidono nella loro es-senza, e devono arrivare a coincidere nella pratica quotidiana, per esistere entrambi. Questo capovolgimento della politica, che va inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l’unica strada che Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo. Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l’insieme di infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo. È questa la sola forma statale che possa avviare a soluzione contemporanea i tre aspetti inter-dipendenti del problema meridionale; che possa per-mettere la coesistenza di due diverse civiltà, senza che l’una opprima l’altra, né l’altra gravi sull’una; che consenta, nei limiti del possibile, le condizioni migliori per liberarsi dalla miseria; e che infine, attraverso l’abolizio-ne di ogni potere e funzione sia dei grandi proprietari che della piccola borghesia locale, consenta al popolo contadino di vivere, per sé e per tutti. Ma l’autonomia del comune rurale non potrà esistere senza l’autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città, di tutte le forme della vita sociale. Questo è quello che ho appreso in un anno di vita sotterranea.