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Avevo preparato una predica veramente, mi sia concesso di dirlo con ogni umiltà, bellissima: l’avevo scritta, per leggerla, perché non ho molta memoria. L’avevo messa in tasca. E ora, ahimè, non la trovo piú, l’ho perduta; e non mi ricordo piú di nulla. Come fare? Che co-sa potrò dire a voi, miei fedeli, che aspettate da me la parola? Ahimè, le parole mi mancano! – E qui don Trajella tacque di nuovo, e rimase immobile, con gli occhi al soffitto, come assorto. In basso, tra le panche, i contadini aspettavano, incerti e incuriositi: ma don Luigino non si trattenne piú, si alzò rabbioso: – È uno scandalo, è una profanazione della Casa di Dio. Fascisti, a me! – I contadini non sapevano chi guardare. Don Trajella, come scuotendosi dall’estasi, si era inginocchiato, rivolgendosi verso un crocifisso di legno, attaccato sul bordo del pulpito, e, con le mani unite in preghiera, diceva: – Gesú, Gesú mio, vedi in quale imbarazzo mi trovo, per i miei peccati. Aiutami tu, mio Signore! Fammi uscire da questo malo passo, Gesú! – Ed ecco, come toccato dalla Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli grazia, il prete balzò in piedi; con una rapida mossa della mano afferrò un foglio di carta nascosto ai piedi del crocifisso, e gridò: – Miracolo! miracolo! Gesú mi ha ascoltato! Gesú mi ha soccorso! Avevo perduto la mia predica, e mi ha fatto trovare di meglio! Che cosa vale-vano le mie povere parole? Ascoltate, invece delle mie, le parole che vengono di lontano! – E cominciò a leggere il foglio del crocifisso. Ma don Luigino non l’ascoltava. Lanciato ormai in un freddo accesso d’ira e di sacra indignazione, continuava a gridare: – Fascisti, a me! È

un sacrilegio! Ubriaco, in chiesa, la notte di Natale! A me! – E, facendo segno ai sette o otto balilla e avanguardisti della sua scuola perché lo seguissero, intonò «Faccetta nera, bella abissina».

Il podestà e i ragazzi cantavano, ma don Trajella pareva non udirli, e continuava la sua lettura. Il foglio miracoloso era una lettera che veniva dall’Abissinia, di quel sergente gaglianese, allevato dai preti, che tutti conoscevano. – È la parola di uno di voi, di un figlio di questo paese, della piú cara di tutte le mie pecorelle. La mia povera predica non valeva nulla, al confronto. Gesú, che me l’ha fatta trovare qui, ha fatto il miracolo. Sentite: «Si avvicina il Santo Natale, e il mio pensiero vola a Gagliano, e a tutti gli amici e i compagni di laggiú, che immagi-no radunati nella nostra piccola chiesetta ad ascoltare la Santa Messa. Qui noi combattiamo per portare la nostra Santa Religione a queste popolazioni infedeli, combattiamo per convertire alla vera Fede questi pagani, per portare la pace e la beatitudine eterna», ecc. ecc. – La lettera continuava per un pezzo su questo tono, e finiva con saluti per tutti, e particolarmente per molti del paese, che venivano chiamati a nome. I contadini ascoltavano compiaciuti l’ultraterreno messaggio africano. Don Trajella prese di qui lo spunto per la sua orazione, de-streggiandosi tra i concetti di guerra e di pace. – Il Natale è la festa della pace, e noi siamo in guerra: ma, come Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli dice cosí bene la lettera, questa guerra non è una guerra, ma un’azione di pace, per il trionfo della Croce che è la sola vera pace per gli uomini; – e cosí via. La predica si perdeva nel pandemonio: Don Luigino e i suoi ragazzi da «Faccetta nera» erano passati a «Giovinezza» e finita

«Giovinezza» avevano riattaccato «Faccetta nera». Visto che i contadini non lo seguivano, e che il prete parlava, fingendo di non accorgersi del chiasso, il podestà si avviò alla porta, gridando: – Fuori dalla chiesa! Questo posto è profanato! Fascisti, a me! – e seguito dai suoi balilla e avanguardisti, e da qualcuno dei suoi amici, uscí, e si mise, col suo codazzo, a girare attorno alla chiesa, cantando alternativamente «Faccetta nera» e

«Giovinezza», e cosí continuò per tutta la durata della predica. Don Trajella intanto tirava diritto, ed era il so-lo, nella chiesa, a non parere a disagio: aveva soltanto, contro il solito, due macchie rosse ai pomelli nel viso pallidissimo. – Pax in terra hominibus bonae voluntatis, figli miei dilettissimi. Pax in terra, questo è il messaggio divino, che noi dobbiamo ascoltare con particolare compunzione e devozione in questo anno di guerra. Il divino Infante è nato proprio in quest’ora per portare questa parola di pace. Pax in terra hominibus, e perciò noi dobbiamo purificarci, per sentircene degni, dobbiamo fare un esame di coscienza, dobbiamo chiederci se abbiamo fatto il nostro dovere, per essere degni di ascoltare con purezza di cuore il Verbo di Dio. Ma voi siete malvagi, siete peccatori, voi non venite mai in chiesa, non fate le devozioni, cantate canzonacce, bestemmiate, non bat-tezzate i vostri figli, non vi confessate, non vi comunica-te, non avete rispetto per i ministri del Signore, non date a Dio quello che è di Dio, e perciò la pace non è con voi.

Pax in terra hominibus: voi non sapete il latino. Che cosa vuol dire? Pax in terra hominibus vuol dire che oggi, la vigilia di Natale, voi avreste dovuto portare un capretto in dono, secondo l’usanza, al vostro pastore. Invece non Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli l’avete fatto, perché siete dei miscredenti; e poiché non siete bonae voluntatis, non avete la volontà buona, cosí non avete la pace, e la benedizione del Signore. Pensate-ci dunque, portate al vostro parroco il capretto, pagate-gli i debiti per i suoi terreni, che glieli dovete dall’anno passato, se volete che Dio vi guardi con misericordia, vi tenga la sua mano sul capo, e ispiri la pace nei vostri cuori; se volete che la pace torni nel mondo, e finisca la guerra che vi fa trepidare per la sorte dei vostri cari e della nostra Patria diletta –. E cosí via di questo passo, con scherzi, rivendicazioni, e citazioni latine. «Faccetta nera» risonava dalla porta, sottolineando i passaggi dell’orazione, mentre il ragazzo campanaio, a un cenno del prete, si era attaccato alla campana, cercando di coprire, con quegli squilli da morto, i canti del podestà. In questo chiasso, fra la generale costernazione, la predica ebbe finalmente termine. Don Trajella scese dal pulpito, e senza voltarsi a destra né a sinistra uscí dalla chiesa, e noi tutti lo seguimmo. Fuori, don Luigino continuava a cantare. Un contadino col mantello nero aspettava davanti alla chiesa, tenendo per la cavezza un mulo sellato.

Era venuto da Gaglianello per prendere il prete, che doveva dire anche là la messa di Natale. Don Trajella chiuse la porta della chiesa, si mise la chiave in tasca, e, aiutato dal contadino, si arrampicò sul mulo e partí.

Doveva fare due ore di strada, sul sentiero tra i burroni, nella neve. A Gaglianello Gesú Bambino nacque, quell’anno, verso le quattro del mattino. Don Trajella ripeté là il suo miracolo, e poiché non c’era, in quella frazione sperduta, né podestà né signori, tutto andò benissimo, e i contadini furono entusiasti della predica, e, una volta tanto, il povero prete venne trattato con i dovuti onori, ebbe da bere quanto volle, si ubriacò, questa volta davvero, e non tornò a Gagliano che tre giorni dopo.

Io, che ero rimasto con gli altri davanti alla chiesa, mi sottrassi in fretta alla compagnia, che commentava l’ac-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli caduto. Tutti i signori, tranne il dottor Milillo che scuoteva la testa, disgustato del nipote, davano ragione al podestà, e si intendevano per denunciare il prete alle autorità. – Finalmente ce ne sbarazzeremo! – strillava don Luigino, – questa è la volta buona! – Nessuno saprà mai se don Trajella avesse preparato il miracolo, con la stendhaliana messa in scena del ritardo, e della perdita della predica scritta, e dell’imbarazzo sul pulpito, soltanto per un pio fine di edificazione, per fare, con quella astuzia oratoria, maggior effetto sull’animo degli ascol-tatori, o se non avesse anche, nello stesso tempo, voluto prendersi argutamente gioco dei suoi nemici, e magari anche di se stesso, e divertirsi alle spalle di quella gente che lo odiava e da cui si sentiva perseguitato. Certo, non era ubriaco, o, se anche aveva bevuto un po’ piú del solito, questo gli aveva aggiunto, anziché tolto, lucidezza e presenza di spirito. Ma don Luigino era convinto che il prete era ubriaco, che il discorso era stato veramente smarrito, e che tutto ciò era uno scandalo; e questa fu la rovina del povero vecchio prete. L’indomani mattina, per quanto fosse festa, e Natale, già partivano le denun-zie: lettere al Prefetto, alla Questura e al Vescovo. Vennero poi, qualche tempo dopo, due preti di Tricarico mandati dal Vescovo per fare un’inchiesta. Credo che tutti coloro che essi interrogarono deposero contro il prete: io solo cercai di scusarlo, ma non avevo alcuna autorità. E il Vescovo si decise a imporre a don Trajella di andare ad abitare nella sua vera sede, a Gaglianello, e gli vietò di presentarsi al concorso per la parrocchia di Gagliano. Ma questo avvenne poi.

Quella mattina, il cielo era grigio e freddo, e i contadini dormirono fino a tardi. I camini fiunavano piú del solito: forse qualche pezzo di carne di capretto cuoceva nelle pentole, fra gli alari. Era la piú grande festa dell’anno, un giorno lieto di pace simulata e di supposta ricchezza. Era soprattutto il giorno nel quale si possono Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli dire e fare cose impossibili in ogni altro tempo dell’an-no. La Giulia arrivò a casa mia tutta ripulita, con lo scialle smacchiato, il velo stirato di fresco, e il bambino meno stracciato del solito, che trascinava i grossi scarpo-ni di un altro ragazzo piú vecchio di lui di qualche anno.

Io la aspettavo con impazienza: c’era tutta una parte, e la piú importante, della sua sapienza stregonesca, che avrebbe potuto comunicarmi soltanto quest’oggi. La Santarcangelese mi aveva insegnato ogni specie di sorti-legi e di formule magiche, per fare innamorare e per guarire le malattie: ma aveva sempre rifiutato di farmi sapere gli incanti di morte, quelli che possono far ammalare e morire. – Soltanto a Natale si possono dire, e in grandissimo segreto, e con giuramento di non ripeterli a nessun altro, se non in quello stesso giorno, che è un giorno santo. In tutti gli altri giorni dell’anno, è peccato mortale –. Ma dovetti lo stesso pregarla e ripregarla, e insistere perché mi mettesse nel segreto: la Giulia si schermiva perché, in fondo, anche di Natale la cosa non è del tutto innocente. Dovetti solennemente giurarle che poteva fidarsi della mia discrezione, e che il diavolo non avrebbe riso di noi; finalmente si indusse a iniziarmi alle terribili formule che, per sola virtú di parola, attaccano un uomo, a poco a poco, in ogni sua parte viva, e lo col-piscono e lo disseccano e inaridiscono, fino a portarlo alla tomba. Riferirò qui qualcuno di quegli spaventosi esorcismi, che sarebbero forse di tanta utilità, in questi tempi, al lettore? Ahimè, no. Non è Natale, e sono legato da un giuramento.

Arrivammo alla fine dell’anno. Volli attendere la mezzanotte, secondo l’usanza. Ero solo, nella mia cucina, davanti a un fuoco che sfriggeva e soffiava e cigolava, mentre fuori urlava la tempesta di vento e di neve. Avevo un bicchiere di vino, ma a che cosa avrei potuto brin-dare? Il mio orologio si era fermato, e nessun rintocco di fuori poteva giungermi e indicarmi il passare del tem-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli po, dove il tempo non scorre. Cosí finí, in un momento indeterminato, l’anno 1935, quest’anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano. Cominciò con un segno funesto, una eclisse di sole.

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli L’eclisse era un segno del cielo. Un sole malato di peste guardava col suo occhio velato un mondo che aveva iniziato la sua guerra di dissoluzione. C’era un peccato, sotto; non soltanto quello che si commetteva in quei giorni, i massacri coi gas asfissianti che facevano scuote-re la testa ai contadini, che sanno che ogni colpa si scon-ta; ma un peccato piú fondamentale, di quelli per cui tutti pagano, gli innocenti con i colpevoli. Il sole si oscu-rava per avvertircene: – Un triste futuro ci aspetta, – dicevano tutti.

I giorni erano freddi e smorti; il sole si levava pallido, come a fatica, sui monti bianchi. Cacciati dal gelo e dalla fame, i lupi si avvicinavano al paese. Barone li sentiva da lontano, con un suo senso misterioso, ed entrava in uno stato d’inquietudine e di agitazione straordinaria. Correva per la casa ringhiando, il pelo gli si rizzava; grattava la porta con le unghie per chiedere di uscire. Gli aprivo, ed egli spariva nella notte, e fino al mattino non lo rive-devo piú. Non ho mai capito se in quella sua esaltazione per i lupi ci fosse odio, o terrore, o piuttosto amore e desiderio, se quelle fughe notturne erano cacce, o conve-gno di amici antichissimi nella foresta. Certo, in quelle notti, la tramontana portava il rumore della canea, degli abbaiamenti strani, qua e là per le valli. Barone tornava al mattino, stanco per essere stato chissà dove, bagnato e sporco di fango. Si sdraiava vicino al fuoco, e mi guardava, con un solo occhio aperto, di sotto in su.

Qualche lupo attraversò anche il paese: si trovavano, il mattino, le sue peste sulla neve. Una sera ne vidi uno io sesso, dalla mia terrazza: un grosso cane magro, che uscí improvvisamente dal buio, si fermò un momento al-la luce di una lampada dondolante per il vento, alzò il muso ad annusare l’aria, e a passo lento e tranquillo ritornò a dileguarsi nell’ombra.

Era un buon tempo, quello, per i cacciatori. Qualcuno partí, per prendere parte a battute al cinghiale, oltre Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli Accettura; si diceva che ce ne fossero molti: ma a Gagliano quell’anno non se ne prese nessuno. I piú, profit-tando del riposo dei campi, uscivano con le loro giacche di velluto e il fucile ben lustro, a caccia di volpi e di le-pri, e tornavano spesso con il carniere pieno. Con l’osso della zampa posteriore destra del lepre, svuotato del mi-dollo con un ferro rovente, si fanno dei bocchini per i sigari, che i vecchi fumano con religiosa precauzione, perché il freddo dell’aria non li incrini, fino a che diventino di un bel nero lucido. Un vecchio contadino, che avevo curato di non so piú che male, volle regalarmi il suo bocchino, di un colore venerabile, per essere stato fumato da lui per vent’anni. Quando si seppe in paese che avevo gradito questo regalo, tutti andarono a gara a offrirmi quegli ossicini, già forati o ancora grezzi: e cominciai anch’io, con perseveranza, ad annerirli, fuman-do i miei poveri sigari Roma su e giú per la strada del paese.

Non arrivavano i giornali né la posta, per la neve che chiudeva le strade: l’isola fra i burroni aveva perso ogni contatto con la terra. Il mutarsi dei giorni era un semplice variare di nuvole e di sole: il nuovo anno giaceva immobile, come un tronco addormentato. Nell’uguaglian-za delle ore, non c’è posto né per la memoria né per la speranza: passato e futuro sono come due stagni morti.

Tutto il domani, fino alla fine dei tempi, tendeva a diventare anche per me quel vago «crai» contadino, fatto di vuota pazienza, via dalla storia e dal tempo. Come talvolta il linguaggio inganna, con le sue interne contraddi-zioni! In questa landa atemporale, il dialetto possiede delle misure del tempo piú ricche che quelle di alcuna lingua; di là da quell’immobile, eterno crai, ogni giorno del futuro ha un suo proprio nome. Crai è domani, e sempre; ma il giorno dopo domani è pescrai e il giorno dopo ancora è pescrille; poi viene pescruflo, e poi maruflo e maruflone; ed il settimo giorno è maruflicchio. Ma Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli questa esattezza di termini ha piú che altro un valore di ironia. Queste parole non si usano tanto per indicare questo o quel giorno, ma piuttosto tutte insieme come un elenco, e il loro stesso suono è grottesco: sono come una riprova della inutilità di voler distinguere nelle eterne nebbie del crai. Certo anch’io cominciavo a non at-tendermi nulla da nessuno dei futuri marufli o maruflo-ni o maruflicchi. Nulla interrompeva la solitudine delle mie sere nella cucina fumosa, se non a volte la visita dei carabinieri di ronda, che venivano ad assicurarsi pro forma se c’ero, e a bere un bicchiere di vino. Il padrone di casa mi aveva avvertito che sarei stato spesso disturbato dal rumore del trappeto, il frantoio che era sotto alle mie stanze; ci si entrava dall’orto, per una porticina di fianco agli scalini che portavano in casa. Avrebbe lavorato anche di notte, il trappeto, mi aveva detto. Quando girava la vecchia mola di pietra, trascinata in tondo da un asino bendato, la casa tremava, e un rombo continuo saliva dal pavimento. Ma il raccolto delle olive quell’an-no fu cosí scarso, che il trappeto macinò in tutto per due o tre giorni, e poi rimase zitto e fermo come prima, e le mie sere non furono piú disturbate.

Soltanto una volta, dopo cena, arrivarono da me il brigadiere e l’avvocato P. per giocare a carte. Dissero che mi sapevano solo, e immaginavano che sarei stato contento di un po’ di compagnia: pensavano di venire spesso, e che avremmo passato insieme delle belle ore.

Io tremavo al pensiero che la cosa potesse diventare una abitudine quotidiana, che mi costringesse a passare il mio tempo nelle noiose insulsaggini del gioco delle carte: in quel tempo preferivo star solo a leggere o a lavorare.

To rede and dryve the night away

For me thoughte it better play

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