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Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli Tuttavia apprezzando la loro buona intenzione, feci buon viso a cattivo gioco, e passammo la sera ad un interminabile ramino. Non tornarono piú. Don Luigino aveva saputo subito di questa visita da qualcuno dei suoi accoliti. A me non disse nulla: ma fece al brigadiere una terribile scenata, sulla piazza, accusandolo di fraterniz-zare con i confinati, e minacciando di denunciarlo e di farlo trasferire. Cosí nessuno, oltre i malati, e i contadini (che erano liberi di frequentarmi, perché non erano considerati, veramente, degli uomini), osò piú venirmi a trovare, tranne il dottor Milillo, che amava gli atteggiamenti indipendenti, e, nella sua qualità di vecchio zio, non aveva nulla da temere dal nipote.

Ero, cosí, libero di me, e del mio tempo. Se non avevo la compagnia dei signori, avevo quella dei bambini. Ce n’erano moltissimi, di tutte le età, e usavano battere al mio uscio ad ogni ora del giorno. Quello che li aveva attratti, dapprincipio, era Barone, questo essere infantile e meraviglioso. Poi li aveva colpiti la mia pittura, e non fi-nivano di stupirsi delle immagini che apparivano, come per incanto, sulla tela, e che erano proprio le case, le colline e i visi dei contadini. Erano diventati miei amici: entravano liberamente in casa, posavano per i miei quadri, orgogliosi di vedersi dipinti. Si informavano di quando sarei andato a dipingere nella campagna; e arrivavano in frotta a prendermi a casa. Ce n’era sempre, allora, una ventina, e tutti consideravano massimo onore portarmi la cassetta, il cavalletto, la tela: e per questo onore si disputavano e si picchiavano, finché io non intervenivo, come un dio inappellabile, a scegliere e giudicare. Il preferito andava con la cassetta, l’oggetto piú pesante, e perciò piú degno e ambito, fiero e felice come un paladino, con un passo di gloria. Uno, un ragazzo di otto o dieci anni, Giovanni Fanelli, pallido, con dei grandi occhi neri e un collo lungo e sottile, dalla pelle bianca co-me quella di una donna, si era piú di tutti entusiasmato Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli per la pittura. Tutti i bambini mi chiedevano in regalo i vecchi tubi di colore vuoti, e i vecchi pennelli spelati, e se ne servivano per i loro giochi. Giovanni ne ebbe an-ch’egli la sua parte, ma ne fece tutt’altro uso: senza dirmi nulla, in segreto, si era messo a fare il pittore. Era at-tentissimo a tutto quello che facevo: mi vedeva preparare la tela con l’imprimitura, tirarla sui telai: queste operazioni, poiché io le facevo, gli parevano tanto es-senziali all’arte come il fatto del dipingere. Egli cercò dunque degli stecchi di legno, e riuscí a connetterli insieme: su questi telai asimmetrici e irregolari, tese qualche pezzo di vecchia camicia trovata chissà dove, e ci impiastrò su non so che pappa, a simboleggiate l’imprimitura. Arrivato a questo punto, gli pareva di aver fatto il piú. Coi fondi dei tubi vuoti e i rimasugli della mia ta-volozza, e i pennelli frusti, dipingeva su quelle sue tele, cercando di imitare la corsa e il modo della mia pennellata. Era un bambino timido, arrossiva facilmente, e non avrebbe osato, per quanto ne avesse un gran desiderio, farmi vedere le sue opere. Avvertito dagli altri, le vidi.

Non erano le solite pitture infantili, né delle imitazioni.

Erano cose informi, macchie di colore non prive d’incanto. Non so se Giovanni Fanelli sia diventato o potesse diventare un pittore: ma certo non vidi mai in nessuno quella sua fiducia in una rivelazione che dovesse venire da sola, dal lavoro; quel suo credere nella ripeti-zione della tecnica come di una infallibile formula magica, o come di un lavoro della terra, che, arata e seminata, porta il suo frutto.

Questi ragazzi, gli stessi che a Natale giravano in frotte al suono dei cupi-cupi, o che si incontravano per le vie, pronti a fuggire, come stormi di uccelli, non avevano un capo, come a Grassano il Capitano. Erano vivaci, intelligenti e tristi. Quasi tutti erano vestiti di cenci malamente rattoppati, con le vecchie giacche dei fratelli maggiori, dalle maniche troppo lunghe rimboccate sui Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli polsi; scalzi o con delle grosse scarpe da uomo bucate.

Pallidi tutti, gialli per la malaria, magri, con gli sguardi intenti, neri e vuoti, profondissimi. Ce n’era di tutti i caratteri, ingenui e astuti, candidi e malvagi, ma tutti pieni di movimento, con gli occhi accesi come di febbre: tutti vivi di una vita precoce, che si sarebbe poi spenta con gli anni, nella monotona prigione del tempo. Mobili e silenziosi, me li vedevo comparire attorno da ogni pane, pieni di una muta fedeltà e di desideri non espressi. Tutto quello che io possedevo o facevo, li riempiva di estatica ammirazione. I piú piccoli oggetti che io buttavo, fino alle scatole vuote o ai pezzi di carta, erano per loro tesori che si disputavano in lotte accanite. Correvano a farmi, non richiesti, ogni sorta di servigi: andavano pei campi, e tornavano la sera a portarmi dei mazzetti di asparagi selvatici, o dei funghi del legno, insipidi e ti-gliosi, che, in mancanza di altri migliori, quaggiú si usano mangiare. Andavano lontano, verso Gaglianello, e mi riportavano i frutti amari dell’arancio selvatico, da una pianta che era laggiú, la sola di tutto il paese, perché li dipingessi. Mi erano amici, ma pieni di pudore, ritrosia e diffidenza, avvezzi naturalmente al silenzio, e a nascondere il loro pensiero; immersi in quel fuggente misterioso mondo animale nel quale vivevano, come piccole capre svelte e fugaci. Uno di essi, Giovannino, un ragazzo bianco e nero, con degli occhi rotondi e un viso stupito sotto il cappello da uomo, figlio di un pastore, non si separava mai da una sua capra fulva, con gli occhi gialli, che lo seguiva dappertutto come un cagnolino.

Quando veniva a casa mia con gli altri bambini, anche la capra Nennella entrava nella mia cucina, annusando, desiderosa di sale. Barone aveva imparato a rispettarla: quando si usciva a dipingere, Nennella seguiva saltellan-do la fila dei ragazzi, mentre il cane correva innanzi abbaiando di felice intrattenibile libertà. Quando ci ferma-vamo, Giovannino restava a guardarmi lavorare, Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli abbracciando il collo di Nennella, finché la capra si libe-rava con un balzo e correva lontano a brucare qualche cespuglio di ginestra. Io poi mandavo via i ragazzi perché non mi infastidissero, e quelli si allontanavano a malincuore, e tornavano verso sera, quando già gli sciami delle zanzare mi fischiavano attorno, e gli ultimi raggi del sole arrivavano lunghi e rosati, per vedere il quadro finito, e riportarlo trionfalmente a casa. Ora che la neve copriva la terra, questi cortei infantili erano finiti: ma i bambini mi venivano a cercare in casa, restavano a scal-darsi al fuoco della cucina, o mi chiedevano di salire a giocare sulla terrazza. Tre o quattro soprattutto mi erano quasi sempre attorno. Il piú piccolo era il figlio della Parroccola, che abitava in un tugurio a pochi metri da casa mia. Aveva forse un cinque anni, una grossa testa rotonda, col naso corto e la bocca carnosa, su un corpic-mo esile. La Parroccola, sua madre, cosí chiamata perché anch’essa aveva un grosso testone, che la faceva assomigliare al bastone pastorale del parroco, era una delle streghe contadine del paese: la piú modesta di tutte, la piú brutta e la piú bonaria. Quel suo faccione, con il largo naso piatto, le due enormi narici aperte, la boc-caccia sgangherata, i capelli radi, la pelle ruvida e giallastra, era davvero mostruoso; e di corpo era piccola e tozza, infagottata negli stracci sotto il velo. Ma era una buona donna. Campava facendo la lavandaia, e non negava, al bisogno, le sue grazie, in un suo letto grande co-me una piazza, a qualche carabiniere o a qualche giovanotto. La vedevo ogni giorno sull’uscio, di faccia a casa mia; e le dicevo, per scherzo, che mi piaceva, e che speravo non mi avrebbe rifiutato. La Parroccola arrossiva di piacere, per quanto poteva arrossire quella sua pelle spessa come una buccia, e mi diceva: – Non faccio per te, don Carlo. Io so’ zambra! – La Parroccola era zambra, cioè rozza e contadina; ma, con quel suo viso da or-chessa, tuttavia gentile. Il bambino era il solo dei suoi Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli che avesse con sé: gli altri erano morti o lontani; e le somigliava.

Un altro dei miei fedeli era Michelino, un ragazzo di una diecina d’anni, avido, astuto e melanconico, con degli occhi neri e opachi, eredità di antichissimi pianti, che parevano l’immagine vera di quel paese desolato. Ma piú di tutti mi cercavano i figli del sarto, specialmente il piú piccolo, Tonino, un ragazzino minuto, svelto, arguto e timido, con una piccola testa bruna rasata e degli occhietti vivi come capocchie di spilli. Il padre, che li amava molto, cercava di tenerli un po’ meglio degli altri, per il suo orgoglio di buon artigiano, di sarto di New York.

Ma come fare, se egli era tornato in patria, e tutto gli era andato male, e non aveva denaro, piú di quello che avessero i contadini? I suoi ragazzi venivano su come gli altri, ed egli pensava con amarezza, tirando la sua guglia-ta, che non c’era ormai piú nessuna speranza di poterne fare dei galantuomini, e neppure i mezzi per curare a dovere le loro tonsille sempre gonfie e le loro vegetazio-ni adenoidi. E anche Tonino, che pure era vispo come un monachicchio, aveva già in sé un riflesso della delusione paterna.

Tutti questi bambini avevano qualcosa di singolare; avevano qualcosa dell’animale e qualcosa dell’uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore. I loro giochi non erano i soliti dei bambini del popolo delle città, simili in tutti i paesi: i fruschi soli erano i loro compagni. Erano chiusi, sapevano tacere, e, sotto l’ingenuità infantile, c’era l’impenetrabilità del contadino, sdegnosa di impossibili conforti, il pudore contadino, che difende almeno l’anima in un mondo desolato. Erano, in generale, molto piú intelligenti e precoci dei ragazzi cittadini della loro età: rapidi nell’intuire, pieni di desiderio di apprendere e di ammirazione per le cose ignote del mondo di fuori. Un giorno che mi videro Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli scrivere mi chiesero se avessi potuto insegnarglielo: a scuola non imparavano nulla, col sistema delle bacchette, dei sigari e delle chiacchiere dal balcone, e dei discorsi patriottici. Andavano tutti a scuola, l’istruzione è obbligatoria, ma, con quei maestri, ne uscivano analfa-beti. Cosí presero di loro iniziativa l’abitudine di venire qualche volta la sera a scrivere nella mia cucina. Rim-piango di non aver dato loro, per la mia naturale ripugnanza a tutto ciò che è insegnamento diretto, piú tempo e piú cura: un buon maestro non avrebbe mai potuto trovare una migliore scolaresca, né piú ricca di una quasi incredibile buona volontà.

Venne il carnevale, inaspettato e anacronistico. Non ci sono, a Gagliano, per questo, né feste né giochi: sí che m’ero dimenticato della sua esistenza. Me ne ricordai un giorno, quando, mentre passeggiavo nella via principale, oltre la piazza, vidi sbucare dal fondo e correre velocissi-mi in salita, tre fantasmi vestiti di bianco. Venivano a grandi salti, e urlavano come animali inferociti, esaltan-dosi delle loro stesse grida. Erano le maschere contadine. Erano tutte bianche: in capo avevano dei berretti di maglia o delle calze bianche che pendevano da un lato, e dei pennacchi bianchi; il viso era infarinato; erano vestiti di camicie bianche, e anche le scarpe erano coperte di bianco. Portavano in mano delle pelli di pecora secche e arrotolate come bastoni, e le brandivano minacciosi, e battevano con esse sulla schiena e sul capo tutti quelli che non si scansavano in tempo. Sembravano demonî scatenati; pieni di entusiasmo feroce, per quel solo momento di follia e di impunità, tanto piú folle e imprevedibile in quell’aria virtuosa. Mi ricordai della notte di san Giovanni a Roma, quando i giovani vanno in giro picchiando con delle grosse teste d’aglio: ma quella è una notte di felicità collettiva e fallica, di baldoria dinanzi agli enormi piatti di lumache, con i fuochi, i canti, le danze e gli amori nel tepore benigno del cielo estivo. I Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli battitori di Gagliano erano invece soli, e solitari in una sforzata e cupa follia; si compensavano degli stenti e della schiavitú con un simulacro di libertà, pieno di eccesso e di ferocia vera. I tre fantasmi bianchi picchiavano senza misericordia chi veniva a tiro, senza distinguere, poiché una volta tanto tutto era lecito, fra signori e contadini, e tenevano tutta la strada in salti obliqui, presi dal furore, gridando invasati, scotendo nei balzi le bianche penne, come degli amok incruenti, o dei danzatori di una sacra danza del terrore. Velocissimi, come erano comparsi, scomparvero in alto, dietro la chiesa. Allora anche i bambini cominciarono ad andare in giro con il viso impiastricciato di nero, e i baffli dipinti con i turac-cioli bruciati. Un giorno ne capitarono da me, cosí con-ciati, una ventina: e quando dissi che sarebbe stato facile mascherarsi con delle vere maschere, mi pregarono di farle. Mi misi all’opera, e feci, con dei cilindri di carta bianca con dei buchi per gli occhi, una maschera per ciascuno, assai piú grande del viso, che restava tutto coperto. Non so perché, ma forse per il ricordo delle funebri maschere contadine, o spinto, senza volerlo, dal ge-nio del luogo, le feci tutte uguali, dipinte di bianco e di nero, e tutte erano teste di morto, con le cavità nere delle occhiaie e del naso, e i denti senza labbra. I bambini non si impressionarono, anzi ne furono felici, e si affret-tarono a infilarle, ne misero una anche al muso di Barone, e corsero via, spargendosi in tutte le case del paese.

Era ormai sera, e quella ventina di spettri entravano gridando nelle stanze appena illuminate dai fuochi rossi dei camini, e dai lumini a olio ondeggianti. Le donne fuggivano atterrite: perché qui ogni simbolo è reale, e quei venti ragazzi erano davvero, quella sera, un trionfo della morte.

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli Le giornate cominciavano, lentamente, ad allungarsi: la corsa dell’anno si era invertita; la neve aveva lasciato il posto alle piogge e alle giornate serene. La primavera non era piú molto lontana e io pensavo che si sarebbe dovuto provvedere in tempo, prima che il sole riportas-se le zanzare, a fare tutto quello che era possibile per combattere la malaria. Anche con i mezzi limitati di cui si poteva disporre in paese, si sarebbe potuto ottenere parecchio; ci si sarebbe dovuti rivolgere alla Croce Rossa per avere il verde di Parigi per disinfettare quelle poche acque ferme nelle vicinanze dell’abitato; fare qualche lavoro per incanalare la fontana vecchia; far provvista di chinino, di atebrina e plasmochina, e di cioccolatini per i bambini, per non trovarci sprovveduti con la bella stagione, e cosí via. Erano tutte cose semplici, e che, secondo la legge, sarebbero state obbligatorie.

Cominciai a parlarne e a riparlarne al podestà: ma mi accorsi ben presto che don Luigino approvava i miei consigli, ma si guardava bene dal far nulla. Pensai allora, per costringerlo a una responsabilità, di scrivergli tutto quello che si sarebbe dovuto fare; preparai una specie di memoriale di una ventina di pagine, con i particolari piú precisi di tutti i lavori da eseguire, sia per quello che toccava al comune, sia per quello che si doveva chiedere a Roma; e lo consegnai a Magalone. Il podestà lesse il memoriale, se ne disse felice, mi lodò, e con un bel sorriso mi annunciò che, poiché doveva andare il giorno seguente a Matera, lo avrebbe mostrato al prefetto, che avrebbe potuto aiutarci. Don Luigino andò a Matera, e al ritorno corse a dirmi che Sua Eccellenza era stata entusiasta del mio lavoro, che tutto quello che chiedevo per la lotta antimalarica si sarebbe provveduto; e che, di riflesso, ne sarebbe venuto anche un bene per me e per gli altri confinati. Don Luigino era raggiante, e fiero di avermi con sé. Tutto pareva dunque per il meglio.

Tre o quattro giorni dopo il ritorno del podestà, ar-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli rivò un telegramma della questura di Matera, nel quale mi si vietava di occuparmi di medicina e di esercitare in Gagliano; pena la prigione. Non ho mai saputo se questo improvviso divieto fosse il solo risultato pratico del mio memoriale e del mio, eccesso di zelo, come pensavano molti contadini: – Dobbiamo tenercela la malaria: se tu ce la vuoi togliere, ti manderanno via –; o se invece, come pensavano altri, derivasse dalle manovre dei medici del paese; o se forse non fosse generato soltanto dal timore della questura che io diventassi troppo popolare: poiché la mia fama di medico miracoloso andava crescendo; e spesso venivano dei malati anche da paesi lontani, per consultarmi. Il telegramma mi fu portato dai carabinieri, la sera.

L’indomani mattina, all’alba, quando nessuno in paese sapeva ancora del divieto, un uomo a cavallo batté alla mia porta. – Vieni subito, dottore, – mi disse. – Mio fratello sta male. Siamo giú, al Pantano, a tre ore di strada di qui. Ho portato il cavallo –. Il Pantano è una regione, verso l’Agri, lontana e isolata: c’è una masseria, la sola di tutte queste terre, dove dei contadini vivono sul campo, lontano dal paese. Risposi all’uomo che mi era impossibile venire, perché non potevo uscire dall’abitato, e perché non potevo piú neppure fare il medico. Lo consigliai di rivolgersi al dottor Milillo o al dottor Gibilisco. – A quei medicaciucci! Meglio nulla –. Scosse la testa e partí.

Scendeva un nevischio gelido, misto a pioggia. Rimasi in casa tutta la mattina, preparando una lettera per la questura, dove protestavo per il divieto, chiedevo che venisse annullato, e che, in attesa di nuove disposizioni, mi si considerasse almeno autorizzato a non abbandona-re in tronco i malati attualmente in cura, e mi si permet-tesse di continuare a occuparmi, nell’interesse della popolazione, delle misure da prendersi per la lotta antimalarica. Questa lettera non ebbe mai risposta.

Stavo alzandomi da tavola, verso le due del pomerig-Letteratura italiana Einaudi

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Carlo Levi - Cristo si è fermato a Eboli gio, quando l’uomo del cavallo tornò. Era stato fino al Pantano; suo fratello andava peggio, stava veramente male, bisognava a tutti i costi che io cercassi di salvarlo.

Gli dissi di venire con me, e uscimmo insieme per chiedere al podestà una autorizzazione speciale. Don Luigino non era in casa: era andato da sua sorella a prendere il caffè: lo trovammo là, sdraiato su una poltrona. Gli esposi il caso: – È impossibile. Gli ordini di Matera sono tassativi. Non posso prendermi questa responsabilità.

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