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– ponendosi il bastone tra le gambe, trasse un profondo respiro e sorrise alla sua stanchezza mortale. Il volto estenuato, solcato tutto di rughe verticali, raso, era d’un pallore cadaverico, ma gli occhi, all’incontro, eran vivacissimi, ardenti, quasi giovanili. Gli s’allungavano in guisa strana su le gote, su le tempie, certe grosse ciocche di capelli, che parevan lingue di cenere bagnata.

Ci accolse con molta cordialità, parlando con spiccato accento napoletano; pregò quindi il suo segretario di seguitare a mostrarmi i ricordi di cui era pieno il salone e che attestavano la sua fedeltà alla dinastia dei Borboni.

Quando fummo innanzi a un quadretto coperto da un mantino verde, su cui era ricamata in oro questa leggenda: «“Non nascondo; riparo; alzami e leggi”», egli pregò Papiano di staccar dalla parete il quadretto e di recarglielo. C’era sotto, riparata dal vetro e incorniciata, una lettera di Pietro Ulloa che, nel settembre del 1860, cioè agli ultimi aneliti del regno, invitava il marchese Giglio d’Auletta a far parte del Ministero che non si poté poi costituire: accanto c’era la minuta della lettera d’accettazione del marchese: fiera lettera che bollava tutti coloro che s’erano rifiutati di assumere la responsabilità del potere in quel momento di supremo pericolo e d’angoscioso scompiglio, di fronte al nemico, al filibustiere Garibaldi già quasi alle porte di Napoli.

Leggendo ad alta voce questo documento, il vecchio s’accese e si commosse tanto, che, sebbene ciò ch’ei leggeva fosse affatto contrario al mio sentimento, pure mi destò ammirazione. Era stato anch’egli, dal canto suo, un eroe. N’ebbi un’altra prova, quando egli stesso mi volle narrar la storia di un certo giglio di legno dorato, ch’era pur lì, nel salone. La mattina del 5 settembre 1860 il Re usciva dalla Reggia di Napoli in un legnetto scoperto insieme con la Regina e due gentiluomini di corte: arrivato il legnetto in via di Chiaja dovette fermarsi per un intoppo di carri e di vetture innanzi a una farmacia che aveva su l’insegna i gigli d’oro. Una scala, appoggiata all’insegna, impediva il transito. Alcuni operaj, saliti su quella scala, staccavano dall’insegna i gigli. Il Re se n’accorse e additò con la mano alla Regina quell’atto di vile prudenza del farmacista, che pure in altri tempi aveva sollecitato l’onore di fregiar la sua bottega di quel simbolo regale. Egli, il marchese d’Auletta, si trovava in quel momento a passare di là: indignato, furente, s’era precipitato entro la farmacia, aveva afferrato per il bavero della giacca quel vile, gli aveva mostrato il Re lì fuori, gli aveva poi sputato in faccia e, brandendo uno di quei gigli staccati, s’era messo a gridare tra la ressa: «Viva il Re!».

Questo giglio di legno gli ricordava ora, lì nel salotto, quella triste mattina di settembre, e una delle ultime passeggiate del suo Sovrano per le vie di Napoli; ed egli se ne gloriava quasi quanto della chiave d’oro di gentiluomo

di camera e dell’insegna di cavaliere di San Gennaro e di tant’altre onorificenze che facevano bella mostra di sé nel salone, sotto i due grandi ritratti a olio di Ferdinando e di Francesco II.

Poco dopo, per attuare il mio tristo disegno, io lasciai il marchese col Paleari e Papiano, e m’accostai a Pepita.

M’accorsi subito ch’ella era molto nervosa e impaziente. Volle per prima cosa saper l’ora da me.

— Quattro e meccio? Bene! bene!

Che fossero però le quattro e meccio non aveva certamente dovuto farle piacere: lo argomentai da quel « Bene! bene! » a denti stretti e dal volubile e quasi aggressivo discorso in cui subito dopo si lanciò contro l’Italia e più contro Roma così gonfia di sé per il suo passato. Mi disse, tra l’altro, che anche loro, in Ispagna, avevano tambien un Colosseo come il nostro, della stessa antichità; ma non se ne curavano né punto né poco:

Piedra muerta!

Valeva senza fine di più, per loro, una Plaza de toros. Sì, e per lei segnatamente, più di tutti i capolavori dell’arte antica, quel ritratto di Minerva del pittore Manuel Bernaldez che tardava a venire. L’impazienza di Pepita non proveniva da altro, ed era già al colmo. Fremeva, parlando; si passava rapidissimamente, di tratto in tratto, un dito sul naso; si mordeva il labbro; apriva e chiudeva le mani, e gli occhi le andavano sempre lì, all’uscio.

Finalmente il Bernaldez fu annunziato dal cameriere, e si presentò accaldato, sudato, come se avesse corso. Subito Pepita gli voltò le spalle e si sforzò d’assumere un contegno freddo e indifferente; ma quando egli, dopo aver salutato il marchese, si avvicinò a noi, o meglio a lei e, parlandole nella sua lingua, chiese scusa del ritardo, ella non seppe contenersi più e gli rispose con vertiginosa rapidità:

— Prima de tuto lei parli taliano, porqué aquì siamo a Roma, dove ci sono aquesti segnori che no comprendono lo espagnolo, e no me par bona crianza

che lei parli con migo espagnolo. Poi le digo che me ne importa niente del su’ retardo e che podeva pasarse de la escusa.

Quegli, mortificatissimo, sorrise nervosamente e s’inchinò; poi le chiese se poteva riprendere il ritratto, essendoci ancora un po’ di luce.

— Ma comodo! — gli rispose lei con la stessa aria e lo stesso tono. — Lei puede pintar senza de mi o tambien borrar lo pintado, come glie par.

Manuel Bernaldez tornò a inchinarsi e si rivolse alla signora Candida che teneva ancora in braccio la cagnetta.

Ricominciò allora per Minerva il supplizio. Ma a un supplizio ben più crudele fu sottoposto il suo carnefice: Pepita, per punirlo del ritardo, prese a sfoggiar con me tanta civetteria, che mi parve anche troppa per lo scopo a cui tendevo. Volgendo di sfuggita qualche sguardo ad Adriana, m’accorgevo di quant’ella soffrisse. Il supplizio non era dunque soltanto per il Bernaldez e per Minerva; era anche per lei e per me. Mi sentivo il volto in fiamme, come se man mano mi ubriacasse il dispetto che sapevo di cagionare a quel povero giovane, il quale tuttavia non m’ispirava pietà: pietà, lì dentro, m’ispirava soltanto Adriana; e, poiché io dovevo farla soffrire, non m’importava che soffrisse anche lui della stessa pena: anzi quanto più lui ne soffriva, tanto meno mi pareva che dovesse soffrirne Adriana. A poco a poco, la violenza che ciascuno di noi faceva a se stesso crebbe e si tese fino a tal punto, che per forza doveva in qualche modo scoppiare.

Ne diede il pretesto Minerva. Non tenuta quel giorno in soggezione dallo sguardo della padroncina, essa, appena il pittore staccava gli occhi da lei per rivolgerli alla tela, zitta zitta, si levava dalla positura voluta, cacciava le zampine e il musetto nell’insenatura tra la spalliera e il piano della poltrona, come se volesse ficcarsi e nascondersi lì, e presentava al pittore il di dietro, bello scoperto, come un o, scotendo quasi a dileggio la coda ritta. Già parecchie volte la signora Candida la aveva rimessa a posto. Aspettando, il Bernaldez sbuffava, coglieva a volo qualche mia parola rivolta a Pepita e la commentava borbottando sotto sotto fra sé. Più d’una volta, essendomene accorto, fui sul punto d’intimargli: «Parli forte!». Ma egli alla fine non ne poté più, e gridò a Pepita:

— Prego: faccia almeno star ferma la bestia!

Vestia, vestia, vestia… — scattò Pepita, agitando le mani per aria, eccitatissima. — Sarà vestia, ma non glie se dice!

— Chi sa che capisce, poverina… — mi venne da osservare a mo’ di scusa, rivolto al Bernaldez.

La frase poteva veramente prestarsi a una doppia interpretazione; me ne accorsi dopo averla proferita. Io volevo dire: «Chi sa che cosa immagina che le si faccia». Ma il Bernaldez prese in altro senso le mie parole, e con estrema violenza, figgendomi gli occhi negli occhi, rimbeccò:

— Ciò che dimostra di non capir lei!

Sotto lo sguardo fermo e provocante di lui, nell’eccitazione in cui mi trovavo anch’io, non potei fare a meno di rispondergli:

— Ma io capisco, signor mio, che lei sarà magari un gran pittore…

— Che cos’è? — domandò il marchese, notando il nostro fare aggressivo.

Il Bernaldez, perdendo ogni dominio su se stesso, s’alzò e venne a piantarmisi di faccia:

— Un gran pittore… Finisca!

— Un gran pittore, ecco… ma di poco garbo, mi pare; e fa paura alle cagnette, — gli dissi io allora, risoluto e sprezzante.

— Sta bene, — fece lui. — Vedremo se alle cagnette soltanto!

E si ritirò.

Pepita improvvisamente ruppe in un pianto strano, convulso, e cadde svenuta tra le braccia della signora Candida e di Papiano.

Nella confusione sopravvenuta, mentr’io con gli altri mi facevo a guardar la Pantogada adagiata sul canapè, mi sentii afferrar per un braccio e mi vidi

sopra di nuovo il Bernaldez, ch’era tornato indietro. Feci in tempo a ghermirgli la mano levata su me e lo respinsi con forza, ma egli mi si lanciò contro ancora una volta e mi sfiorò appena il viso con la mano. Io mi avventai, furibondo; ma Papiano e il Paleari accorsero a trattenermi, mentre il Bernaldez si ritraeva gridandomi:

— Se l’abbia per dato! Ai suoi ordini!… Qua conoscono il mio indirizzo!

Il marchese s’era levato a metà dalla poltrona, tutto fremente, e gridava contro l’aggressore; io mi dibattevo intanto fra il Paleari e Papiano, che mi impedivano di correre a raggiungere colui. Tentò di calmarmi anche il marchese, dicendomi che, da gentiluomo, io dovevo mandar due amici per dare una buona lezione a quel villano, che aveva osato di mostrar così poco rispetto per la sua casa.

Fremente in tutto il corpo, senza più fiato, gli chiesi appena scusa per lo spiacevole incidente e scappai via, seguito dal Paleari e da Papiano. Adriana rimase presso la svenuta, ch’era stata condotta di là.

Mi toccava ora a pregare il mio ladro che mi facesse da testimonio: lui e il Paleari: a chi altri avrei potuto rivolgermi?

Are sens

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