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— Io? — esclamò, candido e stupito, il signor Anselmo. — Ma che!

Nossignore! Dice sul serio? — (e sorrideva). — Non m’intendo di tali faccende, io, signor Meis… Via, via, ragazzate, sciocchezze, scusi…

— Lei lo farà per me, — gli gridai energicamente, non potendo entrare in quel momento in discussione con lui. — Andrà con suo genero a trovare quel signore, e…

— Ma io non vado! Ma che dice! — m’interruppe. — Mi domandi qualunque altro servizio: son pronto a servirla; ma questo, no: non è per me, prima di tutto; e poi, via, glie l’ho detto: ragazzate! Non bisogna dare importanza… Che c’entra…

— Questo, no! questo, no! — interloquì Papiano vedendomi smaniare. —

C’entra benissimo! Il signor Meis ha tutto il diritto d’esigere una soddisfazione; direi anzi che è in obbligo, sicuro! deve, deve…

— Andrà dunque lei con un suo amico, — dissi, non aspettandomi anche da lui un rifiuto.

Ma Papiano aprì le braccia addoloratissimo.

— Si figuri con che cuore vorrei farlo!

— E non lo fa? — gli gridai forte, in mezzo alla strada.

— Piano, signor Meis, — pregò egli, umile. — Guardi… Senta: mi consideri… consideri la mia infelicissima condizione di subalterno… di miserabile segretario del marchese… servo, servo, servo…

— Che ci ha da vedere? Il marchese stesso… ha sentito?

— Sissignore! Ma domani? Quel clericale… di fronte al partito… col segretario che s’impiccia in questioni cavalleresche… Ah, santo Dio, lei non sa che miserie! E poi, quella fraschetta, ha veduto? è innamorata, come una gatta, del pittore, di quel farabutto… Domani fanno la pace, e allora io, scusi, come mi trovo? Ci vado di mezzo! Abbia pazienza, signor Meis, mi consideri… È proprio così.

— Mi vogliono dunque lasciar solo in questo frangente? — proruppi ancora una volta, esasperato. — Io non conosco nessuno, qua a Roma!

— …Ma c’è il rimedio! C’è il rimedio! — s’affrettò a consigliarmi Papiano. — Glielo volevo dir subito… Tanto io, quanto mio suocero, creda, ci troveremmo imbrogliati; siamo disadatti… Lei ha ragione, lei freme, lo vedo: il sangue non è acqua. Ebbene, si rivolga subito a due ufficiali del regio esercito: non possono negarsi di rappresentare un gentiluomo come lei in una partita d’onore. Lei si presenta, espone loro il caso… Non è la prima volta che càpita loro di rendere questo servizio a un forestiere.

Eravamo arrivati al portone di casa; dissi a Papiano: — Sta bene! — e lo piantai lì, col suocero, avviandomi solo, fosco, senza direzione.

Mi s’era ancora una volta riaffacciato il pensiero schiacciante della mia assoluta impotenza. Potevo fare un duello nella condizione mia? Non

volevo ancora capirlo ch’io non potevo far più nulla? Due ufficiali? Sì. Ma avrebbero voluto prima sapere, e con fondamento, ch’io mi fossi. Ah, pure in faccia potevano sputarmi, schiaffeggiarmi, bastonarmi: dovevo pregare che picchiassero sodo, sì, quanto volevano, ma senza gridare, senza far troppo rumore… Due ufficiali! E se per poco avessi loro scoperto il mio vero stato, ma prima di tutto non m’avrebbero creduto, chi sa che avrebbero sospettato; e poi sarebbe stato inutile, come per Adriana: pur credendomi, m’avrebbero consigliato di rifarmi prima vivo, giacché un morto, via, non si trova nelle debite condizioni di fronte al codice cavalleresco…

E dunque dovevo soffrirmi in pace l’affronto, come già il furto? Insultato, quasi schiaffeggiato, sfidato, andarmene via come un vile, sparir così, nel bujo dell’intollerabile sorte che mi attendeva, spregevole, odioso a me stesso?

No, no! E come avrei potuto più vivere? come sopportar la mia vita? No, no, basta! basta! Mi fermai. Mi vidi vacillar tutto all’intorno; sentii mancarmi le gambe al sorgere improvviso d’un sentimento oscuro, che mi comunicò un brivido dal capo alle piante.

«Ma almeno prima, prima…» dissi tra me, vaneggiando, «almeno prima tentare… perché no? se mi venisse fatto… Almeno tentare… per non rimaner di fronte a me stesso così vile… Se mi venisse fatto… avrei meno schifo di me… Tanto, non ho più nulla da perdere… Perché non tentare?»

Ero a due passi dal Caffè Aragno. «Là, là, allo sbaraglio!» E, nel cieco orgasmo che mi spronava, entrai.

Nella prima sala, attorno a un tavolino, c’erano cinque o sei ufficiali d’artiglieria e, come uno d’essi, vedendomi arrestar lì presso torbido, esitante, si voltò a guardarmi, io gli accennai un saluto, e con voce rotta dall’affanno:

— Prego… scusi… — gli dissi. — Potrei dirle una parola?

Era un giovanottino senza baffi, che doveva essere uscito quell’anno stesso dall’Accademia, tenente. Si alzò subito e mi s’appressò, con molta cortesia.

— Dica pure, signore…

— Ecco, mi presento da me: Adriano Meis. Sono forestiere, e non conosco nessuno… Ho avuto una… una lite, sì… Avrei bisogno di due padrini…

Non saprei a chi rivolgermi… Se lei con un suo compagno volesse…

Sorpreso, perplesso, quegli stette un po’ a squadrarmi, poi si voltò verso i compagni, chiamò:

— Grigliotti!

Questi, ch’era un tenente anziano, con un pajo di baffoni all’insù, la caramella incastrata per forza in un occhio, lisciato, impomatato, si levò, seguitando a parlare coi compagni (pronunziava l’ erre alla francese) e ci s’avvicinò, facendomi un lieve, compassato inchino. Vedendolo alzare, fui sul punto di dire al tenentino: «Quello, no, per carità! quello, no!». Ma certo nessun altro del crocchio, come riconobbi poi, poteva esser più designato di colui alla bisogna. Aveva su la punta delle dita tutti gli articoli del codice cavalleresco.

Non potrei qui riferire per filo e per segno tutto ciò che egli si compiacque di dirmi intorno al mio caso, tutto ciò che pretendeva da me… dovevo telegrafare, non so come, non so a chi, esporre, determinare, andare dal colonnello ça va sans dire… come aveva fatto lui, quando non era ancora sotto le armi, e gli era capitato a Pavia lo stesso mio caso… Perché, in materia cavalleresca… e giù, giù, articoli e precedenti e controversie e giurì d’onore e che so io.

Avevo cominciato a sentirmi tra le spine fin dal primo vederlo: figurarsi ora, sentendolo sproloquiare così! A un certo punto, non ne potei più: tutto il sangue m’era montato alla testa: proruppi:

— Ma sissignore! ma lo so! Sta bene… lei dice bene; ma come vuole ch’io telegrafi, adesso? Io son solo! Io voglio battermi, ecco! battermi subito, domani stesso, se è possibile… senza tante storie! Che vuole ch’io ne sappia? Io mi son rivolto a loro con la speranza che non ci fosse bisogno di tante formalità, di tante inezie, di tante sciocchezze, mi scusi!

Dopo questa sfuriata, la conversazione diventò quasi diverbio e terminò improvvisamente con uno scoppio di risa sguajate di tutti quegli ufficiali.

Scappai via, fuori di me, avvampato in volto, come se mi avessero preso a scudisciate. Mi recai le mani alla testa, quasi per arrestar la ragione che mi fuggiva; e, inseguito da quelle risa, m’allontanai di furia, per cacciarmi, per nascondermi in qualche posto… Dove? A casa? Ne provai orrore. E andai, andai all’impazzata; poi, man mano rallentai il passo e alla fine, arrangolato, mi fermai, come se non potessi più trascinar l’anima, frustata da quel dileggio, fremebonda e piena d’una plumbea tetraggine angosciosa.

Rimasi un pezzo attonito; poi mi mossi di nuovo, senza più pensare, alleggerito d’un tratto, in modo strano, d’ogni ambascia, quasi istupidito; e ripresi a vagare, non so per quanto tempo, fermandomi qua e là a guardar nelle vetrine delle botteghe, che man mano si serravano, e mi pareva che si serrassero per me, per sempre; e che le vie a poco a poco si spopolassero, perché io restassi solo, nella notte, errabondo, tra case tacite, buje, con tutte le porte, tutte le finestre serrate, serrate per me, per sempre: tutta la vita si rinserrava, si spegneva, ammutoliva con quella notte; e io già la vedevo come da lontano, come se essa non avesse più senso né scopo per me. Ed ecco, alla fine, senza volerlo, quasi guidato dal sentimento oscuro che mi aveva invaso tutto, maturandomisi dentro man mano, mi ritrovai sul Ponte Margherita, appoggiato al parapetto, a guardare con occhi sbarrati il fiume nero nella notte.

«Là?»

Un brivido mi colse, di sgomento, che fece d’un subito insorgere con impeto rabbioso tutte le mie vitali energie armate di un sentimento d’odio feroce contro coloro che, da lontano, m’obbligavano a finire, come avevan voluto, là, nel molino della Stìa. Esse, Romilda e la madre, mi avevan gettato in questi frangenti: ah, io non avrei mai pensato di simulare un suicidio per liberarmi di loro. Ed ecco, ora, dopo essermi aggirato due anni, come un’ombra, in quella illusione di vita oltre la morte, mi vedevo costretto, forzato, trascinato pei capelli a eseguire su me la loro condanna.

Mi avevano ucciso davvero! Ed esse, esse sole si erano liberate di me…

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