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Dodici mila lire, signorina… e che son rena? crede ella che sarei così tranquillo, se davvero me le avessero rubate?

— Ma Adriana mi ha detto… — si provò ad aggiungere quella.

— Sciocchezze! sciocchezze! — troncai io. — È vero, guardi… sospettai per un momento… Ma dissi pure alla signorina Adriana che non credevo possibile il furto… E difatti, via! Che ragione, del resto, avrei io a dire che ho ritrovato il denaro, se non l’avessi davvero ritrovato?

La signorina Caporale si strinse ne le spalle.

— Forse Adriana crede che lei possa avere qualche ragione per…

— Ma no! ma no! — m’affrettai a interromperla. — Si tratta, ripeto, di dodici mila lire, signorina. Fossero state trenta, quaranta lire, eh via!… Non ho di queste idee generose, creda pure… Che diamine! ci vorrebbe un eroe…

Quando la signorina Caporale andò via, per riferire ad Adriana le mie parole, mi torsi le mani, me le addentai. Dovevo regolarmi proprio così?

Approfittarmi di quel furto, come se con quel denaro rubato volessi pagarla, compensarla delle speranze deluse? Ah, era vile questo mio modo d’agire!

Avrebbe certo gridato di rabbia, ella, di là, e mi avrebbe disprezzato…

senza comprendere che il suo dolore era anche il mio. Ebbene, così doveva essere! Ella doveva odiarmi, disprezzarmi, com’io mi odiavo e mi disprezzavo. E anzi per inferocire di più contro me stesso, per far crescere il

suo disprezzo, mi sarei mostrato ora tenerissimo verso Papiano, verso il suo nemico, come per compensarlo a gli occhi di lei del sospetto concepito a suo carico. Sì, sì, e avrei stordito così anche il mio ladro, sì, fino a far credere a tutti ch’io fossi pazzo… E ancora più, ancora più: non dovevamo or ora andare in casa del marchese Giglio? ebbene, mi sarei messo, quel giorno stesso, a far la corte alla signorina Pantogada.

— Mi disprezzerai ancor più, così, Adriana! — gemetti, rovesciandomi sul letto. — Che altro, che altro posso fare per te?

Poco dopo le quattro, venne a picchiare all’uscio della mia camera il signor Anselmo.

— Eccomi, — gli dissi, e mi recai addosso il pastrano. — Son pronto.

— Viene così? — mi domandò il Paleari, guardandomi meravigliato.

— Perché? — feci io.

Ma mi accorsi subito che avevo ancora in capo il berrettino da viaggio, che solevo portare per casa. Me lo cacciai in tasca e tolsi dall’attaccapanni il cappello, mentre il signor Anselmo rideva, rideva come se lui…

— Dove va, signor Anselmo?

— Ma guardi un po’ come stavo per andare anch’io — rispose tra le risa, additandomi le pantofole ai piedi. — Vada, vada di là; c’è Adriana…

— Viene anche lei? — domandai.

— Non voleva venire, — disse, avviandosi per la sua camera, il Paleari. —

Ma l’ho persuasa. Vada: è nel salotto da pranzo, già pronta…

Con che sguardo duro, di rampogna, m’accolse in quella stanza la signorina Caporale! Ella, che aveva tanto sofferto per amore e che s’era sentita tante volte confortare dalla dolce fanciulla ignara, ora che Adriana sapeva, ora che Adriana era ferita, voleva confortarla lei a sua volta, grata, premurosa; e si ribellava contro di me, perché le pareva ingiusto ch’io facessi soffrire una così buona e bella creatura. Lei, sì, lei non era bella e non era buona, e

dunque se gli uomini con lei si mostravano cattivi, almeno un’ombra di scusa potevano averla. Ma perché far soffrire così Adriana?

Questo mi disse il suo sguardo, e m’invitò a guardar colei ch’io facevo soffrire.

Com’era pallida! Le si vedeva ancora negli occhi che aveva pianto. Chi sa che sforzo, nell’angoscia, le era costato il doversi abbigliare per uscire con me…

Non ostante l’animo con cui mi recai a quella visita, la figura e la casa del marchese Giglio d’Auletta mi destarono una certa curiosità.

Sapevo che egli stava a Roma perché, ormai, per la restaurazione del Regno delle Due Sicilie non vedeva altro espediente se non nella lotta per il trionfo del potere temporale: restituita Roma al Pontefice, l’unità d’Italia si sarebbe sfasciata, e allora… chi sa! Non voleva arrischiar profezie, il marchese. Per il momento, il suo cómpito era ben definito: lotta senza quartiere, là, nel campo clericale. E la sua casa era frequentata dai più intransigenti prelati della Curia, dai paladini più fervidi del partito nero.

Quel giorno, però, nel vasto salone splendidamente arredato non trovammo nessuno. Cioè, no. C’era, nel mezzo, un cavalletto, che reggeva una tela a metà abbozzata, la quale voleva essere il ritratto di Minerva, della cagnetta di Pepita, tutta nera, sdrajata su una poltrona tutta bianca, la testa allungata su le due zampine davanti.

— Opera del pittore Bernaldez, — ci annunziò gravemente Papiano, come se facesse una presentazione, che da parte nostra richiedesse un profondissimo inchino.

Entrarono dapprima Pepita Pantogada e la governante, signora Candida.

Avevo veduto l’una e l’altra nella semioscurità della mia camera: ora, alla luce, la signorina Pantogada mi parve un’altra; non in tutto veramente, ma nel naso… Possibile che avesse quel naso in casa mia? Me l’ero figurata con un nasetto all’insù, ardito, e invece aquilino lo aveva, e robusto. Ma era pur bella così: bruna, sfavillante negli occhi, coi capelli lucidi, nerissimi e

ondulati; le labbra fine, taglienti, accese. L’abito scuro, punteggiato di bianco, le stava dipinto sul corpo svelto e formoso. La mite bellezza bionda d’Adriana, accanto a lei, impallidiva.

E finalmente potei spiegarmi che cosa avesse in capo la signora Candida!

Una magnifica parrucca fulva, riccioluta, e – su la parrucca – un ampio fazzoletto di seta cilestrina, anzi uno scialle, annodato artisticamente sotto il mento. Quanto vivace la cornice, tanto squallida la faccina magra e floscia, tuttoché imbiaccata, lisciata, imbellettata.

Minerva, intanto, la vecchia cagnetta, co’ suoi sforzati rochi abbajamenti, non lasciava fare i convenevoli. La povera bestiola però non abbajava a noi; abbajava al cavalletto, abbajava alla poltrona bianca, che dovevano esser per lei arnesi di tortura: protesta e sfogo d’anima esasperata. Quel maledetto ordegno dalle tre lunghe zampe avrebbe voluto farlo fuggire dal salone; ma poiché esso rimaneva lì, immobile e minaccioso, si ritraeva lei, abbajando, e poi gli saltava contro, digrignando i denti, e tornava a ritrarsi, furibonda.

Piccola, tozza, grassa su le quattro zampine troppo esili, Minerva era veramente sgraziata; gli occhi già appannati dalla vecchiaja e i peli della testa incanutiti; sul dorso poi, presso l’attaccatura della coda, era tutta spelata per l’abitudine di grattarsi furiosamente sotto gli scaffali, alle traverse delle seggiole, dovunque e comunque le venisse fatto. Ne sapevo qualche cosa.

Pepita tutt’a un tratto la afferrò pel collo e la gettò in braccio alla signora Candida, gridandole:

Cito!

Entrò, in quella, di furia don Ignazio Giglio d’Auletta. Curvo, quasi spezzato in due, corse alla sua poltrona presso la finestra, e – appena seduto

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