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Ecco, qualche cosa d’Adriano Meis mi sarebbe tuttavia rimasta in faccia.

Ma somigliavo pur tanto a Roberto, ora; oh, quanto non avrei mai supposto.

Il guajo fu, quando – dopo essermi liberato di tutti quei capellacci – mi rimisi in capo il cappello comperato poc’anzi: mi sprofondò fin su la nuca!

Dovetti rimediare, con l’ajuto del barbiere, ponendo un giro di carta sotto la fodera.

Per non entrare così, con le mani vuote, in un albergo, comperai una valigia: ci avrei messo dentro, per il momento, l’abito che indossavo e il pastrano.

Mi toccava rifornirmi di tutto, non potendo sperare che, dopo tanto tempo, là a Miragno, mia moglie avesse conservato qualche mio vestito e la biancheria. Comperai l’abito bell’e fatto, in un negozio, e me lo lasciai addosso; con la valigia nuova, scesi all’ Hôtel Nettuno.

Ero già stato a Pisa quand’ero Adriano Meis, ed ero sceso allora all’ Albergo di Londra. Avevo già ammirato tutte le meraviglie d’arte della città; ora, stremato di forze per le emozioni violente, digiuno dalla mattina del giorno avanti, cascavo di fame e di sonno. Presi qualche cibo, e quindi dormii quasi fino a sera.

Appena sveglio, però, caddi in preda a una fosca smania crescente. Quella giornata quasi non avvertita da me, tra le prime faccende e poi in quel sonno di piombo in cui ero caduto, chi sa intanto com’era passata lì, in casa Paleari! Rimescolìo, sbalordimento, curiosità morbosa di estranei, indagini frettolose, sospetti, strampalate ipotesi, insinuazioni, vane ricerche; e i miei

abiti e i miei libri, là, guardati con quella costernazione che ispirano gli oggetti appartenenti a qualcuno tragicamente morto.

E io avevo dormito! E ora, in questa impazienza angosciosa, avrei dovuto aspettare fino alla mattina del giorno seguente, per saper qualche cosa dai giornali di Roma.

Frattanto, non potendo correre a Miragno, o almeno a Oneglia, mi toccava a rimanere in una bella condizione, dentro una specie di parentesi di due, di tre giorni e fors’anche più: morto di là, a Miragno, come Mattia Pascal; morto di qua, a Roma, come Adriano Meis.

Non sapendo che fare, sperando di distrarmi un po’ da tante costernazioni, portai questi due morti a spasso per Pisa.

Oh, fu una piacevolissima passeggiata! Adriano Meis, che c’era stato, voleva quasi quasi far da guida e da cicerone a Mattia Pascal; ma questi oppresso da tante cose che andava rivolgendo in mente, si scrollava con fosche maniere, scoteva un braccio come per levarsi di torno quell’ombra esosa, capelluta, in abito lungo, col cappellaccio a larghe tese e con gli occhiali.

«Va’ via! va’! Tornatene al fiume, affogato!»

Ma ricordavo che anche Adriano Meis, passeggiando due anni addietro per le vie di Pisa, s’era sentito importunato, infastidito allo stesso modo dall’ombra, ugualmente esosa, di Mattia Pascal, e avrebbe voluto con lo stesso gesto cavarsela dai piedi, ricacciandola nella gora del molino, là, alla Stìa. Il meglio era non dar confidenza a nessuno dei due. O bianco campanile, tu potevi pendere da una parte; io, tra quei due, né di qua né di là.

Come Dio volle, arrivai finalmente a superare quella nuova interminabile nottata d’ambascia e ad avere in mano i giornali di Roma.

Non dirò che, alla lettura, mi tranquillassi: non potevo. La costernazione che mi teneva, fu però presto ovviata dal vedere che alla notizia del mio suicidio i giornali avevano dato le proporzioni d’uno dei soliti fatti di

cronaca. Dicevano tutti, sù per giù, la stessa cosa: del cappello, del bastone trovati sul Ponte Margherita, col laconico bigliettino; ch’ero torinese, uomo alquanto singolare, e che s’ignoravano le ragioni che mi avevano spinto al triste passo. Uno però avanzava la supposizione che ci fosse di mezzo una

«“ragione intima”», fondandosi sul «“diverbio con un giovane pittore spagnuolo, in casa di un notissimo personaggio del mondo clericale”».

Un altro diceva «“probabilmente per dissesti finanziarii”». Notizie vaghe, insomma, e brevi. Solo un giornale del mattino, solito di narrar diffusamente i fatti del giorno, accennava «“alla sorpresa e al dolore della famiglia del cavalier Anselmo Paleari, caposezione al Ministero della pubblica istruzione, ora a riposo, presso cui il Meis abitava, molto stimato per il suo riserbo e pe’ suoi modi cortesi”». — Grazie! — Anche questo giornale, riferendo la sfida corsa col pittore spagnuolo M. B., lasciava intendere che la ragione del suicidio dovesse cercarsi in una segreta passione amorosa.

M’ero ucciso per Pepita Pantogada, insomma. Ma, alla fine, meglio così. Il nome d’Adriana non era venuto fuori, né s’era fatto alcun cenno de’ miei biglietti di banca. La questura dunque, avrebbe indagato nascostamente. Ma su quali tracce?

Potevo partire per Oneglia.

Trovai Roberto in villa, per la vendemmia. Quel ch’io provassi nel rivedere la mia bella riviera, in cui credevo di non dover più metter piede, sarà facile intendere. Ma la gioja m’era turbata dall’ansia d’arrivare, dall’apprensione d’esser riconosciuto per via da qualche estraneo prima che dai parenti, dall’emozione di punto in punto crescente che mi cagionava il pensiero di ciò che avrebbero essi provato nel rivedermi vivo, d’un tratto, innanzi a loro. Mi s’annebbiava la vista, a pensarci, mi s’oscuravano il cielo e il mare, il sangue mi frizzava per le vene, il cuore mi batteva in tumulto. E mi pareva di non arrivar mai!

Quando, finalmente, il servo venne ad aprire il cancello della graziosa villa, recata in dote a Berto dalla moglie, mi sembrò, attraversando il viale, ch’io tornassi veramente dall’altro mondo.

— Favorisca, — mi disse il servo, cedendomi il passo su l’entrata della villa. — Chi debbo annunziare?

Non mi trovai più in gola la voce per rispondergli. Nascondendo lo sforzo con un sorriso, balbettai:

— Di’… dite… ditegli che… sì, c’è… c’è… un suo amico… intimo, che…

che viene da lontano… Così…

Per lo meno quel servo dovette credermi balbuziente. Depose la mia valigia accanto all’attaccapanni e m’invitò a entrare nel salotto lì presso.

Fremevo nell’attesa, ridevo, sbuffavo, mi guardavo attorno, in quel salottino chiaro, ben messo, arredato di mobili nuovi di lacca verdina. Vidi a un tratto, su la soglia dell’uscio per cui ero entrato, un bel bimbetto, di circa quattr’anni, con un piccolo annaffiatojo in una mano e un rastrellino nell’altra. Mi guardava con tanto d’occhi.

Provai una tenerezza indicibile: doveva essere un mio nipotino, il figlio maggiore di Berto; mi chinai, gli accennai con la mano di farsi avanti; ma gli feci paura; scappò via.

Sentii in quel punto schiudere l’altro uscio del salotto. Mi rizzai, gli occhi mi s’intorbidarono dalla commozione, una specie di riso convulso mi gorgogliò in gola.

Roberto era rimasto innanzi a me, turbato, quasi stordito.

— Con chi…? — fece.

— Berto! — gli gridai, aprendo le braccia. — Non mi riconosci?

Diventò pallidissimo, al suono della mia voce, si passò rapidamente una mano su la fronte e su gli occhi, vacillò, balbettando:

— Com’è… com’è… com’è?

Ma io fui pronto a sorreggerlo, quantunque egli si traesse indietro, quasi per paura.

— Son io! Mattia! non aver paura! Non sono morto… Mi vedi? Toccami!

Sono io, Roberto. Non sono mai stato più vivo d’adesso! Sù, sù, sù…

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