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Vieni… o meglio, no: attendi un po’ qua: mia moglie è incinta; non vorrei che, per quanto ti conosca poco, le potesse far male un’impressione troppo forte… Vado a prevenirla… Attendi, eh?

E mi tenne la mano fin sulla soglia dell’uscio, come se temesse ancora, che

– lasciandomi per un momento – io potessi sparir di nuovo.

Rimasto solo, mi misi a fare in quel salottino le volte del leone.

«Rimaritata! con Pomino! Ma sicuro… Anche la stessa moglie. Lui – eh già! – la aveva amata prima. Non gli sarà parso vero! E anche lei…

figuriamoci! Ricca, moglie di Pomino… E mentre lei qua s’era rimaritata, io là a Roma… E ora devo riprendermela! Ma possibile?»

Poco dopo, Roberto venne a chiamarmi tutto esultante. Ero ormai però tanto scombussolato da questa notizia inattesa, che non potei rispondere alla festa che mi fecero mia cognata e la madre e il fratello di lei. Berto se n’accorse, e interpellò subito il cognato su ciò che mi premeva soprattutto di sapere.

— Ma che legge è questa? — proruppi ancora una volta. — Scusi! Questa è legge turca!

Il giovane avvocato sorrise, rassettandosi le lenti sul naso, con aria di superiorità.

— Ma pure è così, — mi rispose. — Roberto ha ragione. Non rammento con precisione l’articolo, ma il caso è previsto dal codice: il secondo matrimonio diventa nullo, alla ricomparsa del primo coniuge.

— E io devo riprendermi, — esclamai irosamente, — una donna che, a saputa di tutti, è stata per un anno intero in funzione di moglie con un altr’uomo, il quale…

— Ma per colpa sua, scusi, caro signor Pascal! — m’interruppe l’avvocatino, sempre sorridente.

— Per colpa mia? Come? — feci io. — Quella buona donna sbaglia, prima di tutto, riconoscendomi nel cadavere d’un disgraziato che s’annega, poi s’affretta a riprender marito, e la colpa è mia? e io devo riprendermela?

— Certo, — replicò quegli, — dal momento che lei, signor Pascal, non volle correggere a tempo, prima cioè del termine prescritto dalla legge per contrarre un secondo matrimonio, lo sbaglio di sua moglie, sbaglio che poté anche – non nego – essere in mala fede. Lei lo accettò, quel falso riconoscimento, e se ne avvalse… Oh, badi: io la lodo di questo: per me ha fatto benissimo. Mi fa specie, anzi, che lei ritorni a ingarbugliarsi nell’intrico di queste nostre stupide leggi sociali. Io, ne’ panni suoi, non mi sarei fatto più vivo.

La calma, la saccenteria spavalda di questo giovanottino laureato di fresco m’irritarono.

— Ma perché lei non sa che cosa voglia dire! — gli risposi, scrollando le spalle.

— Come! — riprese lui. — Si può dare maggior fortuna, maggior felicità di questa?

— Sì, la provi! la provi! — esclamai, voltandomi verso Berto, per piantarlo lì, con la sua presunzione.

Ma anche da questo lato trovai spine.

— Oh, a proposito, — mi domandò mio fratello, — e come hai fatto, in tutto questo tempo, per…?

E stropicciò il pollice e l’indice, per significare quattrini.

— Come ho fatto? — gli risposi. — Storia lunga! Non sono adesso in condizione di narrartela. Ma ne ho avuti, sai? quattrini, e ne ho ancora: non credere dunque ch’io ritorni ora a Miragno perché ne sia a corto!

— Ah, ti ostini a tornarci? — insistette Berto, — anche dopo queste notizie?

— Ma si sa che ci torno! — esclamai. — Ti pare che, dopo quello che ho sperimentato e sofferto, voglia fare ancora il morto? No, caro mio: là, là; voglio le mie carte in regola, voglio risentirmi vivo, ben vivo, e anche a costo di riprendermi la moglie. Di’ un po’, è ancora viva la madre… la vedova Pescatore?

— Oh, non so, — mi rispose Berto. — Comprenderai che, dopo il secondo matrimonio… Ma credo di sì, che sia viva…

— Mi sento meglio! — esclamai. — Ma non importa! Mi vendicherò! Non son più quello di prima, sai? Soltanto mi dispiace che sarà una fortuna per quell’imbecille di Pomino!

Risero tutti. Il servo venne intanto ad annunziare ch’era in tavola. Dovetti fermarmi a desinare; ma fremevo di tanta impazienza, che non m’accorsi nemmeno di mangiare; sentii però infine che avevo divorato. La fiera, in me, s’era rifocillata, per prepararsi all’imminente assalto.

Berto mi propose di trattenermi almeno per quella sera in villa: la mattina seguente saremmo andati insieme a Miragno. Voleva godersi la scena del mio ritorno impreveduto alla vita, quel mio piombar come un nibbio là sul nido di Pomino. Ma io non tenevo più alle mosse, e non volli saperne: lo pregai di lasciarmi andar solo, e quella sera stessa, senz’altro indugio.

Partii col treno delle otto: fra mezz’ora, a Miragno.

XVIII: Il fu Mattia Pascal

Tra l’ansia e la rabbia (non sapevo che mi agitasse di più, ma eran forse una cosa sola: ansiosa rabbia, rabbiosa ansia) non mi curai più se altri mi riconoscesse prima di scendere o appena sceso a Miragno.

M’ero cacciato in un vagone di prima classe, per unica precauzione. Era sera; e del resto, l’esperimento fatto su Berto mi rassicurava: radicata com’era in tutti la certezza della mia trista morte, ormai di due anni lontana, nessuno avrebbe più potuto pensare ch’io fossi Mattia Pascal.

Mi provai a sporgere il capo dal finestrino, sperando che la vista dei noti luoghi mi destasse qualche altra emozione meno violenta; ma non valse che a farmi crescer l’ansia e la rabbia. Sotto la luna, intravidi da lontano il clivio della Stìa.

— Assassine! — fischiai tra i denti. — Là… Ma ora…

Quante cose, sbalordito dall’inattesa notizia, mi ero dimenticato di domandare a Roberto! Il podere, il molino erano stati davvero venduti? o eran tuttora, per comune accordo dei creditori, sotto un’amministrazione provvisoria? E Malagna era morto? E zia Scolastica?

Non mi pareva che fossero passati soltanto due anni e mesi; un’eternità mi pareva, e che – come erano accaduti a me casi straordinarii – dovessero parimenti esserne accaduti a Miragno. Eppure niente, forse, vi era accaduto, oltre quel matrimonio di Romilda con Pomino, normalissimo in sé, e che solo adesso, per la mia ricomparsa, sarebbe diventato straordinario.

Dove mi sarei diretto, appena sceso a Miragno? Dove s’era composto il nido la nuova coppia?

Troppo umile per Pomino, ricco e figlio unico, la casa in cui io, poveretto, avevo abitato. E poi Pomino, tenero di cuore, ci si sarebbe trovato certo a disagio, lì, con l’inevitabile ricordo di me. Forse s’era accasato col padre, nel Palazzo. Figurarsi la vedova Pescatore, che arie da matrona, adesso! e quel povero cavalier Pomino, Gerolamo I, delicato, gentile, mansueto, tra le

grinfie della megera! Che scene! Né il padre, certo, né il figlio avevano avuto il coraggio di levarsela dai piedi. E ora, ecco – ah che rabbia! – li avrei liberati io…

Sì, là, a casa Pomino, dovevo indirizzarmi: che se anche non ce li avessi trovati, avrei potuto sapere dalla portinaja dove andarli a scovare.

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