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mondo faccian delle dimande ben singolari.

Candido non lasciava di far interrogare questo buon vecchio: ei volle sapere come

si pregava Iddio nell’Eldorado. Non lo preghiamo, disse il buono e rispettabile vecchio: non abbiamo nulla da chiedergli: ei ci dà tutto ciò che ci abbisogna, e noi

lo ringraziamo senza fine.

Candido avea la curiosità veder de’ preti, e fece domandare se ve n’erano. Il buon

vecchio sorrise. - Amici miei, disse egli, noi siamo tutti preti: il re e tutti i capi di famiglia cantan degl’inni di rendimento di grazie; solennemente, e tutte le mattine,

e cinque o seimila musici li accompagnano. - Come! voi non avete frati, che insegnino, che disputino, che governino, che brighino e che facciano bruciare la gente che non è del lor parere. - Bisognerebbe che noi fossimo ben pazzi, disse il

vecchio: noi siamo tutti di un medesimo sentimento, e non intendiamo ciò che vogliate dire co’ vostri frati.

Candido a tutti que’ discorsi restava maravigliato, e diceva fra sè medesimo -

“Questo paese è ben differente dalla Wesfalia, e dal castello del signor barone: se

il nostro amico Pangloss avesse veduto Eldorado non avrebb’egli più detto che il

castello di Thunder-ten-tronckh era quel che v’è di meglio sulla terra. È certo che

bisogna viaggiare.”

Dopo questa lunga conversazione, il buon vecchio fece, attaccar la carrozza a sei

montoni e diede dodici de’ suoi domestici ai due viaggiatori per farli condurre alla

Corte - Scusatemi, disse loro, se la mia età mi toglie l’onore di accompagnarvi. Il

re vi riceverà in una maniera, di cui non sarete mal soddisfatti, e voi perdonerete

senza dubbio agli usi del paese, se ve ne sono alcuni che vi dispiacciano.

Candido e Cacambo salirono in carrozza; i sei montoni volavano, e in meno di quattr’ore arrivarono al palazzo del re situato alla cima della capitale. L’ingresso era di duecentoventi piedi di altezza, e cento di larghezza. È impossibile di esprimere qual ne fosse la materia: si può considerare qual prodigiosa superiorità

ella doveva avere su que’ sassi e su quella sabbia che noi chiamiamo oro e gemme.

Venti belle ragazze della guardia ricevettero Candido e Cacambo al discendere dalla carrozza; li condussero ai bagni, li vestirono di abiti tessuti di piuma di colibrì, e dopo i grand’uffiziali e grand’uffizialesse della corona li introdussero all’appartamento di sua maestà in mezzo a due file ciascuna di mille musici, secondo l’uso ordinario. Quand’essi si avvicinarono alla sala del trono, Cacambo

dimandò a un grand’uffiziale come bisognava contenersi per salutare sua maestà:

se si stava ginocchioni o colla pancia per terra, se si mettevano le mani sulla testa o sul di dietro, se si leccava la polvere della sala, in una parola qual era il cerimoniale. - L’uso, disse il grand’uffiziale, è di abbracciare il re e baciarlo da una

parte e dall’altra.

Candido o Cacambo saltarono al collo di sua maestà, ed egli li ricevè con tutta la

grazia immaginabile, e gl’invitò gentilmente a cena.

Frattanto si fece lor vedere la città, gli edifizj pubblici innalzati fino alle nuvole, i passeggi adornati di mille colonne, le fontane d’acqua pura, quelle d’acqua di rosa, quelle di liquor di canna di zucchero, che gettavano zampilli continuamente

nelle vaste piazze lastricate di una specie di pietre che tramandavano un odore simile a quello del garofano e della cannella. Candido chiese di vedere il palazzo

della giustizia, e il parlamento, o gli si disse che non vi era nulla di questo, nè mai si facean liti. Dimandò se vi erano delle prigioni, e gli si disse che no. Ciò lo stupì d’avvantaggio, e finalmente quel che più gli piacque fu il palazzo delle scienze, nel quale ei vide una galleria di duemila passi, tutta piena di strumenti di fisica.

Dopo di aver trascorsa, tutto il dopo pranzo, press’a poco la millesima parte della

città, furono ricondotti dal re. Candido si mise al tavola fra sua maestà, il suo servo Cacambo e molte dame. Non si poteva far miglior pasto, nè si poteva cenare con maggior gusto, di quel che ne provò il re. Cacambo spiegava le idee

del re a Candido, e benchè tradotte, eran sempre concettose. Di tutto quel che maravigliava Candido questo non era il meno.

Essi passarono un mese alla Corte; Candido diceva sempre a Cacambo: “È vero,

amico, che il paese ov’io son nato non ha nessun grado di comparazione col paese ove siamo, ma finalmente la bella Cunegonda non v’è, e voi ancora avrete

senza dubbio qualche amante in Europa. Se noi restiamo qui non vi faremo

maggior figura degli altri, invece se torniamo nel nostro mondo con dodici montoni

carichi de’ ciottoli d’Eldorado, saremo più ricchi di tutti insieme i re: non avremo più inquisitori da temere, e potremo facilmente riprenderci la bella Cunegonda.

Piacque tal discorso à Cacambo; s’ha tanto gusto a gironzare e farsi valere fra i

suoi, e far mostra di ciò che s’è veduto viaggiando, che i due fortunati si risolverono di più non esserlo, e di prender congedo da sua maestà.

- Voi fate una pazzia, disse loro il re: so bene che il mio paese è piccola cosa, ma

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