Charles Dickens David Copperfield
ero continuamente con lei, suo fratello e i Micawber (che già s’erano legati con essi in amicizia); ma non vedevo mai l’Emilia.
Una sera che mancava pochissimo alla data fissata per la partenza, ero solo con Peggotty e suo fratello. La nostra conversazione s’aggirava su Cam. Ella ci narrava con quanto affetto egli le aveva detto addio, e con quanta forza e tranquillità s’era sempre comportato; specialmente negli ultimi tempi che la sua segreta ambascia si era rincrudita. Era un soggetto sul quale quella buona creatura parlava di continuo; e il nostro interesse nell’ascoltare le tante cose che aveva da dirci non era inferiore al suo nel narrarmelo.
Mia zia e io stavamo allora sgomberando dai due villini di Highgate: io avevo l’intenzione di fare un viaggio al-l’estero, e lei di ritornare nella sua villetta di Dover.
Temporaneamente ci eravamo stabiliti in un albergo di Covent Garden. Mentre mi dirigevo all’albergo, ripensando, dopo la conversazione di quella sera, a ciò che s’era svolto nell’ultima mia visita a Yarmouth, fra Cam e me, esitai nel primo proposito di lasciare una lettera per l’Emilia nell’atto di congedarmi da suo zio a bordo del bastimento, e pensai che sarebbe stato meglio scriverle subito. Ella avrebbe potuto desiderare, dopo aver ricevuto quella comunicazione, di mandar per mezzo mio qualche parola d’addio al suo infelice innamorato.
E io non dovevo farle mancare simile occasione.
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Perciò mi sedetti a tavolino nella mia stanza, prima d’andare a letto, e le scrissi. Le dissi che avevo veduto Cam, e ch’egli m’aveva pregato di dirle ciò che ho già scritto a suo luogo in questi fogli. Fedelmente le ripetei tutto. Non avevo alcuna necessità di diffondermi in altre parole, anche se ne avessi avuto il diritto. La profonda fedeltà e la bontà dei detti di Cam non avevano bisogno d’essere abbellite da me e da nessuno. Chiusi la lettera per spedirla la mattina appresso, pregando con una riga il pescatore Peggotty di consegnarla ad Emilia e andai a letto all’alba.
Ero più debole di quel che m’immaginassi, e non pigliando sonno fino a giorno chiaro, mi trattenni a letto, stanco e non riposato, fino al giorno appresso. Fui destato dalla silenziosa presenza di mia zia accanto al letto.
La sentii in sonno, come spesso avviene in simili casi.
– Trot, mio caro – ella disse, quando apersi gli occhi. –
Non mi sapevo decidere a disturbarti. È qui il pescatore Peggotty. Lo faccio venir su?
Risposi di sì, ed egli subito apparve.
– Signorino Davy – egli disse, quando mi ebbe stretto la mano – ho dato a Emilia la vostra lettera, ed ella ha scritto quest’altra, pregandomi di farvela leggere, e di domandarvi se non vi dispiace di curarne la consegna,
– L’avete letta? – dissi.
Accennò di sì melanconicamente. L’apersi, e lessi ciò 1397
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che segue:
«Ho avuto la vostra lettera. Oh, che posso scrivere per ringraziarvi della vostra santa bontà per me? Mi son messa le vostre parole sul cuore. Ve le terrò fino al giorno della morte. Esse sono spine acute, ma sono anche un balsamo. Ho pregato su di esse, oh, ho pregato tanto!
Quando penso ciò che siete e ciò che è lo zio, penso che cosa deve essere il Signore, e posso invocarlo.
«Addio per sempre. Oh, caro, mio caro amico, addio per sempre in questo mondo! In un altro mondo, se sarò perdonata, potrò destarmi bambina e venire a voi. Mille benedizioni e grazie. Addio per sempre».
Questa, macchiata dalle lagrime, era la lettera.
– Posso dirle che voi non vedete alcun male a curarne la spedizione, signorino Davy? – disse il pescatore Peggotty, quando l’ebbi letta.
– Senza dubbio – dissi – ma pensavo...
– Che cosa, signorino Davy?
– Pensavo – dissi – d’andare a Yarmouth un’altra volta.
Ve tempo, e a sufficienza, d’andare e tornare prima che salpi il bastimento. La mia mente non fa che pensare a lui, così solo; mettergli in mano questa lettera di lei, ora, e mettervi in grado di dire a Emilia, al momento della partenza, che egli l’ha ricevuta, sarà un conforto per tutti e due. Accettai solennemente l’incarico di quel povero 1398
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giovane e farò del mio meglio per eseguirlo a dovere. Il viaggio per me non è un fastidio. Mi sento irrequieto, e muovermi mi farà bene. Parto stasera stessa.
Benché egli si sforzasse in tutti i modi di dissuaderme-ne, vedevo che in fondo era del mio parere; e questo, se mai, m’avrebbe riconfermato nel mio proposito. Egli si recò all’ufficio della diligenza, dietro mia preghiera, e prese per me un posto sull’imperiale. Partii quella sera stessa e rifeci la strada percorsa tante volte in mezzo a tante vicissitudini.
– Non vi sembra un cielo strano? – domandai al cocchiere, alla prima fermata fuori di Londra. – Non mi ricordo d’averne mai visto l’eguale.
– Neppure io l’ho visto mai – egli rispose. – È il vento, signore. Temo che fra poco vi saranno disgrazie in mare.
V’era un tenebroso agglomeramento di rapide nubi, tra-versate qua e là dal colore del fumo umido. S’accumula-vano in masse enormi, facendo pensare a maggiori altezze delle profondità dei più profondi abissi della terra, e la luna sgomenta sembrava vi s’immergesse a capofitto, come se avesse, in un terribile sconvolgimento delle leggi della natura, perduta la via del cielo. Il vento, che aveva soffiato tutto il giorno, diventava più violento e strepitava con un rombo formidabile. Un’ora dopo era molto più forte, e il cielo più nero e tempestoso.
Ma a misura che la notte avanzava e le nuvole s’adden-1399
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savano più fitte per tutto l’orizzonte, che era allora ne-rissimo, il vento raddoppiò di furore. Crebbe tanto, che i cavalli potevano appena tenergli fronte. Parecchie volte, nella tenebra notturna (era la fine di settembre e le notti erano già lunghe), i cavalli si volsero indietro o si fermarono improvvisamente; e in qualche istante ci assalì la paura che la diligenza si rovesciasse. Violente raffiche di pioggia cadevano con questa tempesta, come acquaz-zoni di acciaio; e allora, se v’era qualche riparo d’alberi o qualche muro, eravamo più lieti di fermarci, nell’assoluta impossibilità di continuare la lotta.
All’alba, il vento era ancor più violento. Mi ero trovato a Yarmouth quando i marinai dicevano che il vento spa-rava cannonate, ma non avevo mai assistito a nulla di simile. Arrivammo, dopo aver lottato quasi per ogni pollice di terreno dalla distanza di dieci miglia da Londra, molto tardi a Ipswich; gli abitanti, precipitatisi fuori atterriti nel cuor della notte al fracasso dei camini che crollavano, s’erano raccolti nella piazza del mercato.
Alcuni, riuniti nel cortile dell’albergo dove si scambia-vano i cavalli, ci narrarono che le grandi lastre di zinco dell’alta torre della chiesa erano state strappate dal vento e gettate in un vicolo lì presso, che n’era rimasto sbarrato. Altri raccontavano di contadini arrivati dai villaggi vicini, che avevano visto dei grandi alberi sradicati e giacenti coi rami sparsi sulle strade e nei campi. E intanto, lungi dal calmarsi, la tempesta diventava più fu-riosa.
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