volete venire un momento?
L’antico ricordo che s’era ridestato in me era nel suo sguardo. Gli chiesi, atterrito, appoggiandomi al braccio che egli mi offriva per sostenermi:
– È venuto a riva un corpo?
Egli disse: – Sì.
– Lo conosco, forse? – gli chiesi. Egli non rispose.
Ma mi condusse alla sponda, e lì, dove io e l’Emilia avevamo cercato le conchiglie – lì dove erano sparsi dal vento alcuni frammenti del vecchio battello distrutto 1414
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dall’uragano la sera innanzi – fra le rovine della casa che egli aveva disonorato – lo vidi allungato con la testa sul braccio, come lo avevo visto nel letto del convitto, di Salem House.
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LVI.
LA NUOVA FERITA E L’ ANTICA
Non era necessario, o Steerforth, dirmi nell’ultimo nostro colloquio – che ero assai lungi dal pensare dovesse segnare la nostra definitiva separazione – non era necessario dirmi: «Pensa a me con indulgenza!». Io l’avevo sempre fatto, e non potevo ora, dinanzi a simile spettacolo, condurmi diversamente.
Fu portata una barella, e, disteso su di essa e coperto d’una bandiera, egli fu sollevato e portato verso il paese.
I portatori l’avevano conosciuto, l’avevano accompagnato nelle sue escursioni, vedendolo sempre allegro e baldanzoso. Lo portarono a traverso il terribile mugghio del mare, tacito convoglio in mezzo a quel tumulto, fino al villino dove già era la Morte.
Ma quando ebbero deposta la barella sulla soglia, si guardarono l’un l’altro, e guardarono me, e si bisbiglia-rono qualche cosa. Indovinai che cosa. Compresero che non era giusto deporlo nella stessa stanza silenziosa.
Andammo in città, e portammo il nostro carico all’albergo. Non appena mi fu dato di raccogliere in qualche modo i miei pensieri, mandai a chiamare Joram, e lo 1416
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pregai di cercarmi una vettura con la quale poter fare il funebre trasporto a Londra durante la notte. Comprendevo che a me solo spettava questa cura, e il penoso dovere di preparare sua madre a riceverlo; ed io ero desideroso di compierlo più fedelmente che m’era possibile.
Scelsi la notte per quel viaggio, perché non si sarebbero raccolti molti curiosi alla partenza. Ma benché fosse quasi mezzanotte quando uscii dal cortile in una vettura, seguito da ciò che avevo in deposito, molta folla era in attesa. A intervalli, nella città, e anche un po’ fuori sulla strada maestra, incontrai dei gruppi numerosi; ma finalmente mi furono intorno soltanto la notte nera e l’aperta campagna e le ceneri della mia amicizia infantile.
In una mite mattinata d’autunno, verso mezzogiorno, allorché il suolo era già profumato dalle foglie cadute, e molte altre, colorate delicatamente di giallo, di rosso, e di bruno, pendevan dagli alberi, illuminate dal sole, arrivai a Highgate. Feci a piedi l’ultimo miglio, pensando a ciò che dovessi fare, e lasciai ferma la vettura che mi aveva seguito tutta la notte, in attesa del mio ordine di continuare il viaggio.
La casa, quando vi giunsi dinanzi, mi parve la stessa.
Neppure una cortina era sollevata, non un segno di vita nella triste corte lastricata, con la galleria che conduceva all’ingresso disusato. Il vento era cessato, e non si moveva più nulla.
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Sulle prime, al cancello, non ebbi il coraggio di sonare; e quando sonai, mi parve che il mio messaggio venisse espresso dallo stesso suono del campanello. Venne fuori, con la chiave in mano, la piccola cameriera, e, guardandomi, ansiosa mentre apriva, mi disse:
– Scusate, signore. Vi sentite male?
– No, sono stato molto agitato, e sono stanco.
– Che c’è, signore?... Il signor Giacomo?...
– Zitta! – dissi. – Sì, c’è qualche cosa che debbo annunziare alla signora Steerforth. È in casa?
La ragazza rispose piena d’ansia che la padrona oramai usciva di rado anche in carrozza; che se ne stava in camera sua, che non riceveva visite, ma che io certo sarei stato ricevuto.
La padrona era di sopra, aggiunse, e la signorina Dartle era con lei. Che cosa doveva andare a dire?
Avvertendola di non mostrarsi agitata, e di portar soltanto il mio biglietto da visita e dire che aspettavo, attesi nel salotto (dove già eravamo arrivati) che ella ritornasse. Il salotto mostrava che non era più frequentato, e aveva le imposte socchiuse. Da molto tempo l’arpa non era stata più toccata. Il ritratto di Steerforth bambino era lì. L’armadietto ove la madre conservava le lettere del figlio era lì. Mi domandai se mai le leggesse più, ora; se mai le avrebbe lette più.
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La casa era così tranquilla, che udii il passo leggero della piccola cameriera salire. Al ritorno, ella mi disse che la signora Steerforth era indisposta, e non poteva venir da basso, e mi faceva le sue scuse, per esser costretta a ricevermi in camera sua. Dopo pochi istanti, io stavo dinanzi a lei.
Non era nella camera sua, ma in quella del figlio. Mi dissi, naturalmente, ch’ella vi s’era stabilita in memoria di lui; e che i molti segni delle occupazioni del figlio e delle sue imprese, che la circondavano, vi rimanevano appunto com’egli li aveva lasciati, per la stessa ragione.
Ella, però, mormorò, nell’atto di ricevermi, che stava lì perché era la camera meglio esposta e più conveniente al suo stato di salute; e con uno sguardo di alterezza respinse ogni più piccolo sospetto della verità.
Accanto alla sua poltrona stava, come al solito, Rosa Dartle. Dal momento in cui mi mise addosso i suoi occhi neri, mi accorsi ch’ella indovinava che ero portatore di male nuove. Indietreggiò d’un passo dalla poltrona, come per sfuggire all’osservazione della signora Steerforth; e m’esaminò con uno sguardo penetrante che non mosse più, non stornò più da me.
– Mi duole di vedervi vestito a lutto, signore – disse la signora Steerforth.