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Da lungo tempo, benché studiassi e lavorassi pazientemente, m’ero dato a robusti esercizi. La mia salute, molto scossa quando avevo lasciato l’Inghilterra, rifioriva.

Avevo veduto molto, ero stato in molti paesi, e la mente mi s’era arricchita di nuove cognizioni.

Ho raccontato ora tutto ciò che credo necessario di ricordar qui, di questo periodo di assenza... meno una circostanza. Pure non l’ho fatto col proposito di nascondere qualcosa dei miei pensieri; perché, come ho già detto altrove, queste son le mie memorie. Ho voluto serbare a parte e per la fine la corrente più segreta del mio spirito.

Ci entro ora.

Non posso penetrare così completamente nel mistero del mio cuore da poter precisare l’istante che pensai di poter fare d’Agnese l’oggetto delle mie prime e più care speranze. Non posso precisare in qual periodo della mia angoscia prima mi avvenisse di riflettere che nella mia spensierata giovinezza avevo respinto lungi da me il tesoro del suo amore. Forse avevo udito qualche bisbiglio di quel lontano pensiero al tempo che avevo avvertito la perdita o la mancanza di qualche cosa nella felicità che avevo sperato. Ma quel pensiero sorse ancora come un nuovo rimprovero e un nuovo rimpianto, allorché mi trovai triste e solo al mondo.

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Se in quel tempo mi fossi trovato spesso accanto ad Agnese, avrei forse, nella debolezza della mia desolazione, fatto trasparire questo sentimento. Fu ciò che vagamente temevo quando fui spinto a mettermi in viaggio. Non mi sarei rassegnato a perdere la minima parte del suo affetto di sorella; e, scoperto il mio sentimento, avrei messo fra me e lei una barriera fino allora inesistente.

Non potevo dimenticare che il sentimento che ora ella aveva per me era effetto della mia libera scelta, anzi opera mia. Se ella m’aveva amato di diverso amore – e a volte pensavo che c’era stato un tempo forse che m’aveva amato di diverso amore – quell’amore era stato da me ripudiato. Ed ora era svanito, certo, perché, da fanciullo, m’ero abituato a pensare a lei come a un’immagine lontana dalle mie aspirazioni. Tutta la mia appassionata tenerezza s’era volta su un altro oggetto; e non avevo fatto ciò che avrei potuto fare. Ciò che Agnese ora rappresentava per me, era stato generato da me e dal suo nobile cuore.

Nel principio del mutamento che a grado a grado s’ope-rò in me, quando tentai di comprender meglio me stesso e di diventar migliore, scorsi, a traverso un’attesa indefinita, un momento in cui forse avrei potuto sperare di cancellare l’errore di un giorno, ed esser così avventura-to da sposare Agnese. Ma, come il tempo passava, l’oscura speranza illanguidiva. Se mai un giorno m’aveva 1455

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amato, ella non doveva apparirmi che più nobile e sacra, perché aveva ascoltato tutte le mie confidenze, conosciuto gli errori del mio cuore; e s’era sacrificata per esser mia amica e sorella, vincendo su se stessa una grande vittoria. Se non mi aveva amato mai, potevo credere che m’avrebbe amato adesso?

M’ero sentito tanto debole di fronte alla sua costanza e alla sua forza! E il mio sentimento di debolezza era ora più profondo. Checché potessi essere stato per lei, e lei per me, se ero stato più degno di lei lungo tempo prima, non lo ero più. Quel tempo era passato. L’avevo lasciato passare, e l’avevo meritamente perduta.

Soffrivo molto in questi conflitti, che mi colmavan d’affanni e di rimorsi; ma era pur vero che provavo un senso di conforto nella persuasione che il dovere e l’onore mi ingiungevano di scacciare il pensiero di rivolgermi alla cara fanciulla nell’ora dei miei disinganni, dopo che scioccamente m’ero ritratto da lei al tempo delle speranze fresche e lucenti. Questa considerazione era alla radi-ce d’ogni idea che la concerneva. Non feci alcuno sforzo, allora, per dissimularmi che l’amavo e che le ero profondamente devoto; ma mi convinsi che era troppo tardi, e che i nostri antichi rapporti dovevano continuare a rimanere quali erano.

Avevo pensato molte volte a ciò che m’aveva detto Dora del nostro futuro, di ciò che sarebbe potuto accadere in quegli anni che non dovevano più venire. Avevo com-1456

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preso che le cose che non accadono hanno spesso su di noi, come quelle che accadono, degli effetti reali. Gli anni di cui ella parlava erano ora una realtà per la mia pena; e lo sarebbero stati un giorno, un po’ più tardi forse, se ci fossimo separati alla nostra prima irragionevo-lezza. Mi sforzai di convertire ciò che sarebbe potuto essere fra me e Agnese in un mezzo per divenire più coraggioso, meno egoista, più conscio di me stesso, e dei miei difetti ed errori. E così pensando a ciò che sarebbe potuto essere, arrivai alla convinzione che la mia speranza non si sarebbe avverata mai.

Questa, con la sua incertezza e inconsistenza, fu la mobile sabbia del mio spirito, dal tempo della mia partenza al tempo del mio ritorno in patria, tre anni dopo. Erano passati tre anni dalla partenza del bastimento degli emigranti, e nella stessa ora del tramonto, e nello stesso luogo, sul ponte della nave che mi aveva riportato in patria, io stavo con gli occhi fissi sulle onde rosee che avevano specchiato l’immagine di quel bastimento.

Tre anni. Un lungo periodo in complesso, benché fosse trascorso così rapidamente. E la patria m’era assai cara, ed anche Agnese... ma ella non era mia... non sarebbe mai stata mia. Una volta, forse, lo sarebbe stata, ma ora non più!

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LIX.

RITORNO

Una rigida sera d’autunno sbarcai a Londra. Era buio e pioveva, e vidi più nebbia e fango in un minuto di quanto ne avessi visti in un anno. Feci a piedi il tratto dalla Dogana al Monumento prima di trovare una vettura, e benché i vecchi cornicioni, sulle grondaie gonfie, mi avessero l’aria di vecchi amici, non potei non pensare che mi sarebbero piaciuti più puliti.

Ho spesso notato, e forse l’hanno notato anche gli altri, che la nostra partenza da un luogo che ci è familiare, sembra il segnale d’una trasformazione. Guardando fuori dello sportello della vettura, vidi che una vecchia casa di Fish Street Hill, che da un secolo non aveva visto più l’ombra di un pittore, di un fabbro, di un muratore, era stata, durante la mia assenza, abbattuta; e che una strada vicina, celebre per la sua onorata insalubrità e il suo sudiciume d’ogni genere, era stata allargata e risanata.

M’aspettavo quasi che la Cattedrale di San Paolo mi dovesse sembrare più vecchia del consueto; A qualche mutamento nelle condizioni dei miei familiari ed amici ero preparato. Mia zia da parecchio tempo s’e-ra stabilita di nuovo a Dover, e Traddles aveva comin-1458

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ciato a farsi un po’ di clientela poco tempo dopo la mia partenza, per aver il piacere di fare a tutti una sorpresa.

E pure, non vedendo nessuno che mi desse il benvenuto, fui così cattivo da sentire un freddo disinganno, mentre scarrozzavo tacito e solo per le vie nebbiose.

Le botteghe, però, con lo sfolgorìo dei loro lumi, fecero per me qualche cosa, e quando scesi all’ingresso del caffè di Gray’s Inn, il buon umore m’era tornato. Nel primo momento mi ricordai quel periodo della mia vita, così diverso, in cui ero disceso al Golden Cross, e mi ricordai dei cambiamenti che erano avvenuti. Era naturale.

– Sapete dove abita Traddles nell’Inn? – chiesi al cameriere, mentre mi scaldavo innanzi al fuoco.

– Holborn Court, signore. Al numero due.

– Credo che il signor Traddles si stia facendo un bel nome fra gli avvocati – dissi.

– Forse, signore, è probabile – rispose il cameriere – ma non ne so nulla.

Il cameriere, che era di mezza età e magro, si volse a un cameriere di maggiore autorità... un vecchio robusto e massiccio, con doppio mento, calzoni neri corti e calze nere, che sbucò da un cantuccio come da una panca di sagrestia, all’estremità della sala, dov’egli teneva compagnia alla cassetta degl’introiti, a una Guida, a una lista degli avvocati, e ad altri libri e carte.

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– Il signor Traddles – disse il cameriere magro. – Numero due, nella Corte.

Il cameriere massiccio lo mandò via con un gesto, e si volse gravemente a me.

– Chiedevo – io dissi – se il signor Traddles, del numero due della Corte, non si stia facendo un bel nome fra gli avvocati.

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