Quando desinavo regolarmente e bene, compravo della cervellata e un pane da due soldi, o un piatto di otto soldi di carne da un rosticciere; o un pezzo di pane e cacio e un bicchiere di birra da una povera trattoria di fronte al nostro magazzino, chiamata il Leone, o il Leone e qualche altra cosa che ho dimenticato. Una volta, ricordo di essere entrato, col mio pane sotto il braccio (me l’ero portato di casa la mattina), avvolto in un foglio di carta a mo’ di un libro, in un ristorante di Drury Lane, famoso per il bove alla moda, e d’aver ordinato mezza porzione di quella leccornia per mangiarla col mio pane.
Che pensasse il cameriere di quella strana, piccola apparizione entrata lì così soletta, non so; ma lo veggo ancora in questo istante fissarmi mentre mangiavo e convo-car l’altro cameriere a godersi lo spettacolo. Lasciai un soldo per lui, e vorrei che non l’avesse accettato.
Mi sembra che avessimo mezz’ora di tempo per il tè.
Quando avevo abbastanza denaro, solevo comprare mezza pinta di caffè bell’e fatto e una fetta di pane im-288
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burrato. Quando non ne avevo, andavo a guardare una bottega di cacciagione in Fleet Street; o facevo una passeggiata, talvolta fino al mercato di Covent Garden, per contemplare estasiato gli ananassi. Mi piaceva di gironzare intorno all’Adelphi, perché era un luogo misterioso con tutti quegli archi di fronte a un caffeuccio sul fiume, che aveva davanti uno spiazzo dove ballavano alcuni scaricatori di carbone; e per guardarli mi sedetti su una panca. Chi sa che pensarono di me!
Ero così fanciullo, e così minuscolo che quando entravo nella sala di vendita di qualche caffè, per me nuovo, a bere un bicchiere di birra per mandar giù ciò che avevo mangiato a desinare, si esitava a darmelo. Una sera d’a-fa opprimente, entrai, ricordo nella sala di vendita di un caffè, e dissi al padrone:
– Quanto costa un bicchiere della migliore... ma veramente della migliore birra che avete? – Perché si trattava d’una speciale ricorrenza.
Non so quale. Forse era il mio genetliaco.
– Cinque soldi – disse il padrone – è il prezzo della birra migliore.
– Allora – dissi io, porgendo il denaro – datemene un bicchiere, per piacere, ma con molta spuma, vi raccomando.
In risposta, il padrone mi squadrò, di sul banco, dalla testa ai piedi, e sulla faccia gli apparve uno strano sorriso; 289
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e invece d’andare a spillare la birra, guardò oltre il tramezzo, e disse qualche cosa alla moglie, la quale si levò, col suo lavoro in mano, e si mise anche lei a contemplarmi. Veggo ancora la scena. Il padrone in maniche di camicia, che s’appoggia all’apertura del banco; la moglie che guarda di sulla mezza porticina; e io, un po’
confuso, che guardo entrambi dall’altro lato del tramezzo. Essi mi fecero tante domande: come mi chiamassi, quanti anni avessi, dove abitassi, come fossi occupato, e come fossi capitato lì dentro. Alle quali domande, per non comprometter nessuno, diedi, inventandole, credo, appropriate risposte. Mi servirono la birra, ma non credo fosse la migliore; e la moglie del padrone, aprendo la porticina, e chinandosi su di me, mi restituì il denaro, e mi diede un bacio che era mezzo d’ammirazione e mezzo di compassione, e caldo, credo, di molta tenerezza femminile.
So di non esagerare, inconsapevolmente e involontariamente, la insufficienza dei miei mezzi o le difficoltà della mia vita. So che se allora mi veniva dato dal signor Quinion uno scellino, io lo spendevo in un desinare o in un tè. So che lavoravo da mattina a sera, malvestito, tra gente volgare. So che erravo per le vie, male e insufficientemente nutrito. So che, senza la misericordia divina, sarei potuto diventare, in tale abbandono, un piccolo vagabondo o un ladruncolo.
Pure da Murdstone e Grinby cercavo di mantenermi in 290
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un certo grado di dignità. Il signor Quinion faceva ciò che poteva fare una persona, come lui, indifferente e molto occupata, verso quel ragazzo in balia di sé stesso, per trattarmi come uno di diversa condizione dagli altri; ma, d’altra parte, io non dicevo mai a nessuno lì dentro come mi ci trovassi, e non accennavo minimamente d’esser dolente di trovarmici. Che in segreto soffrissi, e in maniera atroce, nessuno sapeva. Quanto io soffrissi, l’ho già detto, non m’è possibile descriverlo. Ma tacevo e lavoravo. Avevo compreso fin dal principio, che se non fossi riuscito a far il mio lavoro come gli altri, non sarei sfuggito ai motteggi e al dispregio degli altri. Presto divenni rapido e abile almeno quanto il più rapido e abile di tutti gli altri ragazzi. Benché in perfetta familiarità con loro, la mia condotta e i miei modi erano tali da lasciare una certa distanza fra noi. Essi e gli operai lì dentro parlavano di me come del «piccolo signorino» o del «ragazzo del Suffolk». Certo Gregory, il capo de-gl’imballatori, e un certo Tipp, che faceva il vetturale e portava una giacca rossa, solevano a volte chiamarmi
«Davide»; ma per lo più, ricordo, nei momenti confidenziali, quando m’ero sforzato di divertirli, durante il lavoro, con qualche strascico delle mie vecchie letture, le quali stavano quasi uscendomi di mente. Fecola di Patate una volta si levò indispettito, ribellandosi contro quella certa considerazione che mi s’accordava; ma Mick Walker lo mise subito a posto.
Credevo assolutamente disperata la mia riscossa da 291
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quella specie di esistenza, e rinunciai a pensarci. Neppure per un’ora, certo, mi ci sentii riconciliato, e continuavo a soffrirne, crudelissimamente; ma la sopportavo; e a Peggotty, un po’ per amor suo, un po’ per vergogna, in nessuna lettera (benché ce ne scrivessimo molte) rivelai la verità.
Le difficoltà del signor Micawber aggiungevano qualche cosa alle mie angosce individuali. Nella mia condizione di abbandono, m’ ero alleato strettamente alla sua famiglia, e solevo vagare rimuginando i calcoli fantastici e laboriosi della signora Micawber per uscir d’imbarazzo, e onusto del peso dei debiti del signor Micawber. La sera del sabato, giorno di gran festa per me –
un po’ perché era una gran cosa andare a casa con sei o sette scellini in tasca, contemplando le vetrine dei negozi e pensando a che cosa si potesse comprare con una somma come quella, e un po’ perché si usciva più presto dal magazzino – la signora Micawber soleva farmi le più strazianti confidenze, senza pregiudizio della mattina della domenica, quando mi versavo la porzione di tè o di caffè, comprata la sera, in un vasetto per la barba, e facevo colazione tardi. Non era insolito per il signor Micawber mettersi a singhiozzare violentemente al principio di una di quelle conversazioni della sera del sabato, e poi cantare una canzonetta allegra prima d’andare a letto. Una sera lo vidi arrivare a cena tra un fiotto di lagrime, dichiarando che non gli rimaneva altro che la prigione; e poi andare a letto, calcolando la spesa occorren-292
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te per aprire un balcone in un muro «nel caso che la carta si voltasse», come era solito esprimersi.
Nonostante la disparità degli anni, una strana eguaglianza amichevole, originata forse dalle nostre condizioni rispettive, andò formandosi fra quella gente e me. Ma non mi permisi mai d’accettar di mangiare con loro e a loro spese (informato com’ero, delle loro cattive relazioni col macellaio e col fornaio, e che spesso non ne avevano d’avanzo per sé), finché la signora Micawber non mi accordò tutta la sua confidenza. Ecco che mi disse una sera.
– Copperfield – disse la signora Micawber – io non ti tratto come un estraneo, e perciò non esito a dirti che le difficoltà di mio marito sono giunte alla crisi.
Quell’annunzio mi addolorò profondamente, e guardai con la massima simpatia gli occhi arrossati della signora Micawber.
– Ecco un pezzetto di formaggio olandese... che non si confà ai bisogni d’una giovane famiglia – disse la signora Micawber – e nella credenza non c’è più un boccone d’altro. Ero solita di parlare della credenza quando ero a casa mia con papà e mamma, e uso le parole senza pensarci. Ciò che voglio dire è che in casa non c’è nulla da mangiare.
– Giusto Cielo! – dissi con molta commozione.
Avevo due o tre scellini del denaro della settimana in ta-293
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