sca – ne arguisco che questa conversazione si dové svol-gere una sera di mercoledì – e li cavai sollecito, e con sentita commozione pregai la signora Micawber di ac-cettarli in prestito. Ma la signora, baciandomi, e facen-domeli rimettere in tasca, rispose che non c’era da pensarci neanche.
– No, mio caro Copperfield – disse – neppur per ombra.
Ma tu hai una discrezione superiore all’età tua, e puoi farmi un altro favore,se vuoi, che accetterò con gratitudine.
Pregai la signora Micawber di dirlo.
– Ho impegnato io stessa l’argenteria – disse la signora Micawber. – Sei cucchiaini da tè, due saliere, un paio di mollette. Ma per i gemelli m’è difficilissimo muovermi; e poi, coi ricordi di papà e mamma, queste escursioni mi sono penosissime. Ho ancora dei piccoli oggetti di cui posso disporre. I sentimenti di mio marito non gli permettono di disporne, e Clickett – era la ragazza uscita dall’ospizio – volgare com’è, si prenderebbe delle libertà, se le dessimo un incarico di tanta fiducia. Copperfield, ti potrei chiedere...
Avevo compreso il desiderio della signora Micawber, e la pregai di disporre di me a suo piacere. Quella stessa sera cominciai a portare gli oggetti meno ingom-branti; e uscii per simili escursioni quasi ogni mattina, prima di recarmi da Murdstone e Grinby.
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Il signor Micawber aveva pochi libri in uno scaffale, che chiamava la biblioteca; e prima se n’andarono via i libri.
Li portai, a uno a uno, a una banchetta della City Road –
una parte di questa strada, vicino a casa, era tutta un’esposizione di banchette di libri e di botteghe di uccelli –
e li vendevo per qualunque prezzo. Il padrone di quella banchetta, che abitava in una casuccia lì dentro, era bril-lo tutte le sere, e veniva fragorosamente sgridato dalla moglie tutte le mattine. Più d’una volta, recandomi in casa sua presto, mi dava udienza in un canapè a letto, con un occhio nero e una ferita in fronte, testimoni degli eccessi della vigilia (temo che egli fosse di natura liti-giosa sotto i fumi del vino) sforzandosi, con la mano che gli tremava, di trovare gli scellini occorrenti in questa o quella tasca degli abiti sparsi sul pavimento, mentre la moglie, con un bambino in braccio e le calcagna fuor delle scarpe, non cessava un momento di strillare, rimproverandogli la sua vergogna. A volte aveva perduto il denaro, e mi pregava di ritornare più tardi; ma la moglie ne aveva sempre un po’ – glielo aveva tolto, forse, mentre era ubriaco – e sulle scale, in segreto, discendendo insieme con me, concludeva il contratto.
Fui presto noto anche dove si accettavano in pegno gli oggetti. Il signore che pareva il capoufficio, e stava dietro il banco, mi prese in gran considerazione, e spesso, ricordo, mi chiedeva di declinargli all’orecchio un nome latino o un aggettivo, o coniugare un verbo, mentre s’occupava del mio contratto. Dopo tutte queste gite, la 295
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signora Micawber faceva una piccola festa, che in generale era una cena; e quei pasti, non li ho dimenticati, erano d’una squisitezza particolare.
Finalmente le difficoltà del signor Micawber giunsero alla crisi, e una mattina egli fu arrestato e condotto nella prigione di King’s Bench nel Borough. Egli mi disse, uscendo di casa, che su lui allora era tramontato il dio del giorno – e in realtà credetti che il suo cuore fosse infranto e il mio col suo. Ma seppi, dopo, che prima di mezzogiorno egli era stato visto giocare un’animata partita ai birilli.
La prima domenica, dopo che egli era stato condotto in prigione, dovevo andare a trovarlo e desinar con lui.
Dovevo domandar della via fino a tal punto, e un po’
prima di quel punto avrei visto un altro punto, e un po’
prima di questo avrei visto un cortile, che dovevo attraversare, e andar dritto innanzi, finché non avessi visto un carceriere. E così feci; e quando finalmente vidi un carceriere (povero piccino che m’ero!), pensando che allorché Roderick Random era in una prigione per debiti, egli vi aveva visto un uomo che non aveva addosso che il brandello di un tappeto vecchio, il carceriere si dileguò dai miei occhi annebbiati e dal mio cuore saltellan-te.
Il signor Micawber m’aspettava accanto al cancello, e mi condusse nella sua camera al penultimo piano, e si mise a piangere. Egli solennemente mi scongiurò, ricor-296
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do, di apprendere da lui, di trarre un insegnamento dal suo fato; osservando che chi ha venti sterline all’anno di rendita, e spende diciannove sterline, diciannove scellini e sei pence, è felice; ma che, invece, è da compiangere, se ne spende ventuna. Dopo di che mi chiese uno scellino in prestito per la birra, mi fece un buono per la stessa somma sulla cassa della signora Micawber, mise da parte il fazzoletto e si rasserenò.
Ci sedemmo innanzi al fuoco, che aveva due mattoni sotto l’inferriata arrugginita, da un lato e dall’altro, per non consumare troppo carbone; ed ecco un altro debito-re, che divideva la camera del signor Micawber, ritornare dal forno col cosciotto castrato, che doveva formare il nostro pasto in comune. Poi io fui inviato alla camera di sopra, dal «Capitano Hopkins», coi saluti del signor Micawber, per dire che io ero il suo giovane amico, e domandare al capitano Hopkins di prestarmi per gentilezza un coltello e una forchetta.
Il capitano Hopkins mi prestò il coltello e la forchetta coi suoi saluti al signor Micawber. Vi era una signora molto sudicia in quella cameretta, e due ragazze pallide, le figliuole, con delle chiome scarmigliate in modo repugnante. Pensai che fosse meglio farsi prestare il coltello e la forchetta del capitano Hopkins, che il pettine del capitano Hopkins; il quale era anche lui nel peggiore arnese, con delle fedine enormi e un decrepito soprabito bruno, che non copriva nessun altro indumento. Vidi il 297
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suo letto arrotolato in un angolo; e tutti i piatti e i tondi e i vasi che possedeva su una mensoletta, e indovinai (Dio sa come!) che, benché le due ragazze con le chiome scarmigliate in modo repugnante fossero figlie del capitano Hopkins, la signora sudicia non era maritata al capitano Hopkins. La mia timida sosta su quella soglia non occupò più d’un paio di minuti al massimo; ma ridiscesi così sicuro delle cognizioni che avevo appreso, come d’avere in mano il coltello e la forchetta.
Dopo tutto, nel desinare vi fu qualche cosa di piacevolmente zingaresco. Nel pomeriggio riportai subito la forchetta e il coltello al capitano Hopkins, e tornai a casa a confortare, col racconto della mia visita, la signora Micawber, che svenne, quando mi vide entrare, e fece uno zabaione dopo per consolar me e se stessa durante la narrazione.
Non so che via si seguisse per vendere i mobili e tirare innanzi la famiglia, o chi li vendesse; certo, non fui io.
Venduti, però, furono, e portati via in un furgone, meno il letto, poche sedie, e la tavola di cucina. Con questi arredi ci accampammo, per così dire, in due camere della casa nuda di Windsor Terrace; la signora Micawber, i figli, l’orfana e io; e in quelle stavamo la notte e il giorno.
Non ho un’idea esatta del termine, ma mi sembra per molto tempo. Finalmente la signora Micawber si risolse di trasferirsi nella prigione, dove il signor Micawber aveva potuto avere una camera per sé solo. Così portai 298
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la chiave dell’appartamento al padrone di casa, che fu felice di rivederla; e i letti furono mandati nella prigione di King’s Bench, tranne il mio, per il quale fu presa a pigione una stanzina fuori le mura, ma in vicinanza di quell’istituto, con gran mia soddisfazione, giacché fra i Micawber e me c’era già troppa consuetudine e troppi vincoli d’infelicità per poterci separare senza rimpianto.
Per l’orfana fu parimenti provveduto con poca spesa nello stesso vicinato. La mia cameretta era una specie di soffitta col tetto in pendio, donde si godeva la vista d’un gran cantiere di legname. Quando ne presi possesso, pensando che le difficoltà del signor Micawber erano giunte finalmente alla crisi, mi parve assolutamente un piccolo Eden.
Lavoravo nel magazzino di Murdstone e Grinby sempre allo stesso modo, con gli stessi compagni e con lo stesso senso d’immeritata abiezione provato fin dall’inizio. Ma non mai, fortunatamente per me certo, feci una sola conoscenza, o parlai a nessuno fra i molti ragazzi che incontravo nell’andare e venire dal magazzino, e nell’errare per le vie vicine, all’ora del desinare. Menavo la stessa vita segretamente infelice; ma sempre allo stesso modo solitaria e indipendente.