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– falciati quasi rasente alla pelle; un giovane che quasi non aveva sopracciglia e non ombra di ciglia, con occhi di un rosso fulvo, così nudi e scoperti, che mi domandai, ricordo, come facesse ad addormentarsi. Aveva le spalle alte e ossute; era vestito decentemente di nero, con una minuscola cravatta bianca; era abbottonato fino alla gola; e aveva le mani così lunghe, magre e scheletrite, che attrassero particolarmente la mia attenzione, quand’egli si mise accanto al cavallo, a carezzargli il muso e a guardar noi nella vetturetta.

– È in casa il signor Wickfield, Uriah Heep? – disse mia 389

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zia.

– Sì, signora – disse Uriah Heep: – favorite entrare. – E

indicò con la lunga mano la stanza che intendeva.

Scendemmo; e lasciandogli la custodia del cavallino, entrammo in un lungo salotto basso di prospetto sulla via. Dalla finestra vidi Uriah Heep soffiare nelle narici del cavallo e immediatamente coprirgliele con la mano, come se gli stesse facendo un incantesimo. Di fronte a un antico e grande caminetto erano due ritratti: l’uno d’un signore dai capelli grigi, ma per nulla affatto vecchio, e dalle sopracciglia nere, occupato a guardare in certe carte, tenute insieme da un nastrino rosso; l’altro, d’una signora, che mi fissava con espressione di calma e di dolcezza.

Mi voltavo attorno, in traccia, credo, del ritratto di Uriah, quando una porta all’estremità della stanza si aperse, e n’entrò un signore, alla cui vista mi volsi di nuovo al ritratto già menzionato, per assicurarmi che non fosse uscito dalla cornice. Ma il ritratto non s’era mosso; e mentre il signore veniva verso di noi alla luce, vidi ch’egli era un po’ più vecchio del ritratto.

– Signora Betsey Trotwood – disse il signore – favorite, prego. Sono stato un momento occupato, e vi prego di scusarmi. Voi sapete il mio scopo. Non ne ho che uno al mondo.

La signora Betsey lo ringraziò, e lo seguimmo nella sua 390

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stanza ch’era arredata come quella di un uomo d’affari, con libri, carte, scatole di latta, e così via. La stanza guardava su un giardino, e aveva una cassaforte di ferro incastrata nel muro, così a ridosso della cappa del caminetto, che mi domandai come potessero passarci di dietro gli spazzacamini quando dovevano spazzarne la canna.

– Bene, signora Trotwood – disse il signor Wickfield; perché seppi subito ch’era lui, e che era avvocato, e am-ministratore dei beni d’un ricco signore della contea. –

Che vento vi mena qui? Non un cattivo vento, spero?

– No – rispose mia zia – non son venuta per motivi di giustizia.

– Molto meglio, signora – disse il signor Wickfield; –

molto meglio venire per qualche altra cosa.

Egli ora aveva i capelli perfettamente candidi, ma le sopracciglia ancora nere: il viso piacente, e, pensavo, bello. Nel colorito mostrava una certa vivacità, che da molto io ero abituato, grazie agl’insegnamenti di Peggotty, ad attribuire al vino di Porto; e alla stessa causa attribuii il tono della sua voce e la sua pinguedine già più che in-cipiente. Era vestito con molta lindura, in un abito turchino, sottoveste a strisce e calzoni di cotone, e il fine sparato della camicia e la cravatta di batista apparivano così morbidi e bianchi, che rammentarono alla mia immaginazione errabonda il petto candido d’un cigno.

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– Questo è mio nipote – disse mia zia.

– Non sapevo che aveste un nipote, signora Trotwood –

disse il signor Wickfield.

– Mio pronipote, cioè – corresse mia zia.

— Non sapevo che aveste un pronipote, vi assicuro –

disse il signor Wickfield.

— L’ho adottato – disse mia zia, facendo con la mano un gesto, come a dire che le importava poco ch’egli sapesse o no dell’esistenza di questo pronipote – e l’ho condotto qui, per metterlo in una scuola dove possa essere bene istruito e ben trattato. Ora mi dovete dire dov’è questa scuola, e qual è, e tutte le informazioni necessarie.

– Prima di potervi ben consigliare – disse il signor Wickfield – voi sapete la mia solita domanda. Qual è lo scopo che vi muove?

– Il diavolo vi porti! – esclamò mia zia. – Sempre intento a pescare gli scopi, quando sono a fior d’acqua! Ebbene, quello di far contento e utile il ragazzo.

– Allora è uno scopo misto – disse il signor Wickfield, scotendo il capo e abbozzando un sorriso incredulo.

– Miste le vostre frottole – rispose mia zia. – Voi preten-dete d’avere uno scopo chiaro e semplice in tutto ciò che fate. Ma non immaginate, spero, che voi siate l’unica persona al mondo che miri dritto innanzi a sé.

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– Certo, non ho che uno scopo al mondo, signora Trotwood – egli soggiunse con un sorriso. – Gli altri ne hanno a dozzine, a centinaia, a migliaia. Io ne ho uno solo.

Questa è la differenza. Ma questo non c’entra. Qual è la scuola migliore? Qualunque sia lo scopo, volete la migliore?

Mia zia accennò con la testa di sì.

– Nella migliore che abbiamo – disse il signor Wickfield, pensoso – vostro nipote non potrebbe essere ricevuto che come esterno.

– Ma nel frattempo potrebbe stare a pensione in qualche altra parte, credo? – suggerì mia zia.

Il signor Wickfield credeva di sì. Dopo un po’ di discussione, offrì a mia zia di condurla a visitare la scuola, perché potesse vederla e giudicare da sé; e poi, di condurla, con lo stesso scopo, in due o tre case dove egli credeva io potessi stare a pensione. La proposta piacque a mia zia, e stavamo uscendo tutti e tre, quando egli si fermò per dire:

– Il nostro piccolo amico qui presente potrebbe, forse, avere qualche scopo per non accompagnarci. Non sarebbe meglio lasciarlo qui?

Mia zia pareva inclinata a contestar la cosa; ma per facilitare l’escursione, dissi che, se avessero così voluto, li avrei aspettati lì volentieri; e ritornai nello studio del signor Wickfield, dove, in attesa, mi sedetti nella sedia già 393

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dianzi occupata.

La sedia era messa di fronte a un corridoio vicino, che finiva, nella stanzina circolare, dalla cui finestra avevo visto apparire la pallida faccia di Uriah Heep. Uriah, dopo aver condotto il cavallino in una stalla vicina, s’era messo al lavoro in quella stanza, a uno scrittoio a piano inclinato che terminava al di sopra con una intelaiatura d’ottone alla quale s’appoggiavano le carte, e alla quale era appoggiato il manoscritto di cui egli allora faceva la copia. Benché il suo viso fosse voltato dalla mia parte, per qualche tempo credetti che, per l’interposizione del manoscritto, egli non potesse vedermi; ma, guardando con più attenzione, m’accorsi, con un certo fastidio, che, di tanto in tanto, i suoi occhi insonni sbucavano di sotto il manoscritto come due soli rossi, e furtivamente mi fis-savano ogni volta per la durata di un minuto, mentre la penna andava, o fingeva d’andare, più rapidamente che mai. Tentai parecchie volte di sottrarmi a quegli sguardi, sia col salire su una sedia a studiare una carta geografica all’altro lato della stanza; sia con l’immergermi nelle colonne d’un giornale della contea di Kent; ma quegli occhi mi attiravano di nuovo; e ogni volta che davo un’occhiata a quei due soli rossi, ero sicuro di vederli spuntare o tramontare subito.

Finalmente, con mio sollievo, dopo un’assenza piuttosto lunga, vidi mia zia e il signor Wickfield di ritorno. Il risultato delle loro ricerche, al contrario delle mie speran-394

Are sens