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Charles Dickens

David Copperfield

ze, non era stato soddisfacente; poiché mia zia, sebbene non avesse nulla da ridire sui vantaggi della scuola, non aveva trovato convenienti le pensioni visitate.

– È una disdetta – disse mia zia. – Non so che fare, Trot.

– È un caso sfortunato – disse il signor Wickfield. – Ma vi dirò ciò che dovete fare, signora Trotwood.

– Che cosa? – disse mia zia.

– Per ora, lasciate qui vostro nipote. È un ragazzo quieto, e non mi darà alcun disturbo. E la mia è una casa perfettamente adatta allo studio. Tranquilla come un monastero; e quasi spaziosa quanto un monastero. La-sciatelo qui.

A mia zia evidentemente non dispiaceva la proposta, benché ella si facesse uno scrupolo di accettarla. Come anche a me.

– Su, signora Trotwood – disse il signor Wickfield. –

Questo è il mezzo di superare le difficoltà. È un acco-modamento transitorio. Se non funziona bene, o non s’accorda con la nostra convenienza reciproca, si lascia subito andare. Frattanto ci sarà sempre tempo di trovare al ragazzo un posto migliore. Per ora, il meglio è di decidere di lasciarlo qui.

Vi sono molto riconoscente – disse mia zia – e anche lui, vedo; ma...

– Su! So che volete dire – esclamò il signor Wickfield. –

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Io non voglio costringervi ad accettare un favore, signora Trotwood. Se preferite, mi pagherete un tanto. Fisse-remo di buon accordo la somma, e me la pagherete, se così vi piace.

– A questa condizione – disse mia zia – che non di-minuisce la mia gratitudine, io sarò felicissima di lasciarlo.

– Allora venite a vedere la mia padroncina di casa –

disse il signor Wickfield.

Ci avviammo quindi per una vecchia scalinata, addirittura meravigliosa; con una balaustrata così spaziosa che su di essa si sarebbe potuto salir quasi con la stessa facilità. Entrammo poi in un salotto vecchio e fosco, rischiarato da tre o quattro delle bizzarre finestre viste nella via, le quali avevano nei vani delle vecchie scranne di quercia, costruite forse con gli stessi alberi che avevano dato le grosse travi del soffitto e il pavimento lucente. Era una stanza squisitamente arredata con un pianoforte e alcuni bei mobili splendenti di rosso e di verde, e con fiori. Sembrava fatta tutta d’angoli e cantucci, e in ogni angolo o cantuccio c’era o un bizzarro tavolinetto, o un armadietto, o uno scaffale di libri, o una sedia, o questo o quell’oggetto, che mi faceva pensare che non vi fosse nella stanza un cantuccio più grazioso; quando, guardando in giro, ne scoprivo uno simile, se non più leggiadro. V’era da per tutto la stessa aria di raccoglimento e di nettezza squisita notata al di fuori.

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Il signor Wickfield picchiò a una porta in un angolo della parete rivestita di legno, e ne uscì una ragazza della mia età che si slanciò a baciarlo. Sul viso di lei scorsi subito la calma e dolce espressione del ritratto della signora osservato a pianterreno. Parve alla mia immaginazione che il ritratto fosse cresciuto e diventato donna, e l’originale rimasto bambina. Benché il viso di lei fosse fulgido e lieto, aleggiava nella persona e nei suoi tratti una tranquillità – uno spirito di quiete, di bontà e di calma – che non ho mai dimenticato, e non dimenticherò mai più.

Era la sua padroncina di casa, sua figlia Agnese, ci disse il signor Wickfield. Quando sentii come lo diceva, e vidi come le teneva la mano, indovinai qual fosse il suo scopo al mondo.

Ella aveva al fianco una specie di panierino per le chiavi; e sembrava la padroncina più adatta per quella casa raccolta e antica. Ascoltava, compiaciuta, il padre. che le parlava di me; e quando questi ebbe finito, ella propose a mia zia d’andar tutti su a vedere la mia camera. E vi andammo, preceduti da lei. Era una camera magnifica, con alte travi di quercia nel soffitto e piccoli vetri sfac-cettati alle finestre; e la massiccia balaustrata della scala saliva fin lassù.

Non arrivo a ricordarmi dove o quando, nella mia infanzia, avessi visto una vetrata dipinta in una chiesa.

Non ricordo neppure che vi fosse dipinto. Ma so che 397

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quando vidi la fanciulla voltarsi sul pianerottolo, nella tenue luce dell’antica scala, ad aspettarci, pensai a quella finestra; e la mite lucentezza di quella finestra si associò sempre nel mio pensiero con Agnese Wickfield.

Mia zia era come me lieta della decisione presa, e ritornammo giù nel salotto contenti e soddisfatti. Siccome non volle a nessun costo rimanere a desinare, per tema di non arrivare a casa col cavallino prima di sera; e siccome il signor Wickfield la conosceva benissimo per neppure tentar di persuaderla, le fu servita una merendi-na lì stesso. Così Agnese ritornò dalla sua governante, il signor Wickfield nel suo studio, e noi fummo lasciati soli per dirci liberamente addio.

Mia zia mi disse che il signor Wickfield avrebbe pensato per me a tutto, e che non mi sarebbe mancato nulla, ed aggiunse le parole più affettuose e i consigli più saggi.

– Trot – disse mia zia concludendo – cerca di fare onore a te stesso, a me e a Dick, e che il Cielo sia con te.

Io ero profondamente commosso, e non potei che ringraziarla più e più volte, e mandare i miei saluti affettuosi al signor Dick.

– Non commettere mai bassezze – disse mia zia; – non mentire mai; non esser mai crudele. Sfuggi questi tre vizi, Trot, e tu mi darai sempre delle buone speranze.

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Promisi, come meglio potei, che non avrei mai abusato della sua bontà, e non mai dimenticato i suoi avverti-menti.

– Il cavallino è alla porta – disse mia zia – e io vado. Rimani pur qui.

Con queste parole, m’abbracciò in fretta, e uscì, tirandosi la porta dietro. In principio fui un po’ sorpreso da una partenza così improvvisa, e quasi temei d’averla offesa in chi sa che cosa; ma quando m’affacciai alla finestra e la vidi salire afflitta nella vetturetta, e allontanarsi senza levar gli occhi, la compresi meglio, e non le feci quella ingiustizia.

Alle cinque, l’ora del pasto del signor Wickfield, avevo già più coraggio, ed ero già disposto a far onore alla tavola. La tavola era soltanto apparecchiata per noi due; ma Agnese, che aspettava nel salotto, venne giù con suo padre, e gli sedette di fronte. Non potevo credere ch’egli desinasse senza di lei.

Dopo desinare, andammo di nuovo nel salotto, e nel cantuccio più comodo; Agnese portò dei bicchieri per il padre e una bottiglia di vino di Porto. Egli non vi avrebbe trovato, credo, la solita fragranza, se fosse stata portata da altre mani.

E se ne stette colà per due ore a bere, e in abbondanza; mentre Agnese sonava il pianoforte, o lavorava, o con-versava con lui e con me. Egli si mostrò, per lo più, alle-399

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gro e spensierato con noi; ma a volte posava gli occhi sulla figliuola, e rimaneva in silenzio a meditare. Mi parve che ella, osservandolo in quei momenti, cercasse subito di distrarnelo con una domanda o una carezza.

Allora, egli usciva dalla sua distrazione, e beveva altro vino.

Agnese fece il tè, e lo servì; e il tempo passò, come dopo il desinare, fino all’ora d’andare a letto. Allora il padre se la prese fra le braccia e la baciò; poi, quando ella se ne fu andata, fece accendere le candele nello studio. Anch’io allora andai a coricarmi.

Are sens