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– Copperfield – disse il signor Micawber – addio!

Tutti gli auguri di felicità e di prosperità. Se, nel giro degli anni futuri, io potessi persuadermi che il mio sciagurato destino t’avrà servito di lezione, sentirò di non aver occupato del tutto invano il posto d’un altro nella vita. In caso che la carta si volti (cosa nella quale ho una certa fiducia), sarei veramente felice, se fosse in mio potere, di esaudire le tue speranze.

Credo che alla signora Micawber, che stava di dietro coi bambini e che mi vide sulla strada guardarli tristemente, si togliesse d’improvviso un velo dagli occhi, accorgendosi come d’una cosa nuova della mia estrema giovinezza. Lo credo, perché mi fece cenno di arrampicarmi, mostrando in viso un’espressione assolutamente materna e musata, e mi cinse con le braccia il collo, e mi diede un bacio quale avrebbe potuto dare a un suo figliuolo. Ebbi appena il tempo di scender, prima che la diligenza si movesse, e potei appena veder la famiglia tra i fazzoletti che s’agitavano. Tutto finì in un minuto. L’orfana e io rimanemmo, in mezzo alla strada, a guardarci melanconicamente a vicenda, e poi ci stringemmo le mani, dicendoci addio; lei per tornare, credo, nell’ospizio di San Luca; io per cominciare la mia triste giornata da Murdstone e Grinby.

Ma non con l’intenzione di passarvi molte altre tristi giornate. No. Avevo risoluto di fuggire. D’andare a tro-314

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vare in campagna, in un modo o nell’altro, la sola parente ch’io avessi al mondo, e narrare la mia storia a mia zia, la vecchia signora Betsey.

Ho già osservato che non so come questa idea mi entrasse in mente. Ma, una volta entrata, vi rimase; e si concretò in un proposito d’una fermezza tale che in vita mia non ne ho mai conosciuto uno eguale. Non son certo se vi vedessi qualche speranza; ma ero incrollabilmente deciso a metterlo in esecuzione.

Dalla notte che prima m’era venuta l’idea fugandomi il sonno, non avevo fatto che pensare continuamente, centinaia e centinaia di volte, alla vecchia storia che m’aveva narrata la mia povera mamma intorno alla mia nascita, storia che aveva formato la delizia della mia infanzia e che io sapevo a memoria. In essa mia zia entrava e usciva, come un minaccioso e terribile personaggio; ma v’era un piccolo particolare nella sua condotta sul quale m’indugiavo con compiacenza e che mi dava un barlume di speranza. Non potevo dimenticare come mia madre avesse creduto di sentirsi toccar da lei i capelli con mano delicata; e benché la cosa potesse essere effetto dell’immaginazione di mia madre e mancar d’u-na qualsiasi base di realtà, mi figuravo l’effigie della mia terribile zia che s’inteneriva per quella giovine bel-tà che io ricordavo con tanta vivezza, e che amavo tanto. Questo serviva a rammorbidire e a dare un altro carattere alla cosa. È probabile che questo particolare 315

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avesse covato nella mia mente a lungo, generando gradatamente la mia risoluzione.

Siccome non sapevo neppure dove dimorasse la signora Betsey, scrissi una lunga lettera a Peggotty, e le chiesi, per incidenza, se lo ricordasse. Fingevo di aver sentito dire di una certa signora che stava in un certo luogo che nominai a caso, e avevo la curiosità di sapere se fosse la signora Betsey. Nella stessa lettera, dicevo a Peggotty che avevo particolare bisogno d’una mezza ghinea e che se fosse stata in grado di prestarmi quella somma lei, finché non avessi potuto restituirgliela, gliene sarei stato veramente riconoscente. Le avrei detto dopo la ragione che mi costringeva a chiederle quel prestito.

La risposta di Peggotty arrivò subito, e, come il solito, piena di affettuosa devozione. Ella mi mandava la mezza ghinea (chi sa quanti sforzi per cavarla fuori dal baule di Barkis!) dicendomi che la signora Betsey s’era stabilita vicino a Dover, ma se proprio a Dover, a Hythe, Sandgate, o Folkestone, non poteva assicurare. Uno dei nostri operai, però, al quale chiesi notizie di quei luoghi, mi disse che erano tutti a breve distanza l’uno dall’altro.

Questo mi bastava, e decisi di partire alla fine della settimana.

Onesto com’ero, non volevo lasciare cattiva memoria di me da Murdstone e Grinby: consideravo mio dovere di rimanere fino al sabato sera; e, siccome al mio ingresso nel magazzino ero stato pagato con una settimana d’an-316

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ticipo, pensai che non sarebbe stato giusto presentarmi in magazzino, all’ora usuale, a riscuotere il salario. Per questa precisa ragione avevo chiesto in prestito mezza ghinea: per aver qualche soldo per le spese di viaggio.

Per conseguenza, arrivata la sera del sabato, mentre tutti nel magazzino erano in attesa della paga, e Tipp, il vetturale, che aveva sempre la precedenza, s’era diretto alla cassa, io strinsi la mano a Mick Walker; e lo pregai, quando sarebbe stato il suo turno, di dire al signor Quinion ch’ero andato a fare il trasporto del mio baule in casa di Tipp; e, dicendo per l’ultima volta buona sera a Fecola di Patate, me la diedi a gambe.

Il baule l’avevo ancora nella vecchia camera, sull’altra riva, e avevo scritto per esso un indirizzo su uno dei car-toncini che la nostra ditta inchiodava sulle casse: «Signorino Copperfield, da lasciar fermo fin quando sarà domandato, Ufficio della Diligenza, Dover» . L’avevo pronto in tasca per metterlo sul baule, dopo averlo ritirato dal luogo dove stava; e mentre mi dirigevo a quella volta, guardavo intorno cercando qualcuno che potesse aiutarmi a portarlo all’ufficio di spedizione.

V’era, fermo accanto all’ Obelisco, nella Blackfriars Road, un giovanottone dalle gambe lunghe con un carrettino vuoto al quale era attaccato un asino. Passando-gli vicino, lo guardai con qualche insistenza; ed egli chiamandomi: «Mozzicone di sigaretta» s’augurò che

«potessi riconoscerlo un’altra volta» – alludendo senza 317

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dubbio al mio sguardo insistente. Mi fermai per assicurarlo che non lo avevo fatto per male, ma soltanto nel dubbio che egli volesse o no incaricarsi d’un servizio.

– Che servizio? – disse il giovanottone dalle gambe lunghe.

– Portare un baule – risposi.

– Che baule? – disse il giovanottone dalle gambe lunghe.

Gli dissi il mio, che era in quella via là, e che gli avrei dato dodici soldi se me l’avesse portato all’ufficio della diligenza di Dover.

– Vada per dodici soldi! – disse il giovanottone dalle gambe lunghe, e immediatamente saltò sul carretto, che era nient’altro che un gran vassoio di legno messo su delle ruote, e partì a una tale velocità, che io dovevo fare dei violenti sforzi per tenere il passo con l’asino.

C’era certa baldanza in quel giovane e specialmente nel modo di masticar un filo di paglia mentre parlava, che non mi piaceva molto; ma siccome il contratto era fatto, lo condussi su alla camera che lasciavo, e, portato il baule giù, lo mettemmo sul carro. Ora, non volendo mettere lì il cartoncino con l’indirizzo, per tema che la famiglia del padrone di casa s’accorgesse della mia intenzione e mi trattenesse, pregai il giovane di fermarsi quando fosse arrivato al muro di cinta della prigione di King’s Bench. Non avevo ancora finito di dire quelle 318

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parole, che si diede a correre precipitosamente come se lui, il baule, il carretto e l’asino fossero tutti egualmente invasi da un accesso di follia; e io non avevo più fiato per correre e gridargli dietro, quando lo raggiunsi nel punto stabilito.

Ansante ed agitato com’ero, cavando di tasca il cartoncino dell’indirizzo, mi venne in mano anche la mezza ghinea. Me la misi in bocca per maggior sicurezza, e benché le mani mi tremassero molto, ero già riuscito, con mia grande soddisfazione, a legare il cartoncino dell’indirizzo, quand’ecco mi sentii arrivare sul mento un pugno violento del giovanottone dalle gambe lunghe, e vidi la mezza ghinea che tenevo fra i denti volargli in mano.

– Che! – disse il giovane, afferrandomi per il bavero della giacca, con un terribile ghigno. – Tu vuoi scappare, tu! Vieni alla polizia, piccolo brigante, vieni alla polizia!

– Ridammi il mio denaro, per carità! – dissi io, con una gran paura – e lasciami andare.

– Vieni alla polizia – diceva il giovane. – Dimostrerai alla polizia che è tuo.

– Dammi il mio baule e il mio denaro, dammeli! – pregai, scoppiando in lagrime.

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