Charles Dickens
David Copperfield
signor Wickfield.
– Grazie – disse l’altro – ve ne sono molto grato. Guardare in bocca a un caval donato è sempre odioso; altrimenti direi che mia cugina Annie avrebbe potuto accomodar le cose a suo modo. Son certo che se Annie avesse detto al vecchio dottore...
– Volete dire che sarebbe bastato che la signora Strong avesse detto a suo marito... non è così? – disse il signor Wickfield.
– Appunto – rispose l’altro. – Sarebbe bastato dire che questa o quella cosa venisse fatta così e così; e la cosa naturalmente sarebbe stata fatta così e così.
– E perché naturalmente, signor Maldon? – chiese il signor Wickfield, continuando tranquillamente a mangiare.
– Perché Annie è una signora giovane e bella, e il vecchio dottore... il dottor Strong, voglio dire... non si può dire che sia un bel ragazzo – disse Jack Maldon ridendo.
– Non intendo di offendere nessuno, signor Wickfield.
Dico solo che in questa specie di matrimonio credo che qualche compenso sia ragionevole ed equo.
– Qualche compenso per la donna, signore? – chiese gravemente il signor Wickfield.
– Per la donna, signore – rispose ridendo Jack Maldon.
Ma poiché gli parve notare che il signor Wickfield con-412
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tinuava a mangiare nella stessa sua maniera pacata e ferma, e che non v’era speranza di fargli allentare un solo muscolo del viso, aggiunse:
– Del resto, dettovi ciò che volevo dirvi, me ne vado, chiedendovi scusa di questa indiscrezione. Naturalmente seguirò i vostri consigli, considerando che la cosa dovrà esser trattata soltanto fra me e voi, e che non si deve neppure accennare in casa del dottore.
– Avete mangiato? – chiese il signor Wickfield, con un gesto alla tavola.
– Grazie. Vado a mangiare – disse Jack Maldon – con Annie, mia cugina. Addio.
Il signor Wickfield, senza levarsi, lo seguì con uno sguardo pensoso. A me Jack Maldon aveva fatto l’impressione d’un giovane leggero, con un bel viso, una rapida parlantina, e un’aria di baldanza. Era la prima volta che incontravo Jack Maldon, e non avevo sperato di vederlo così presto quando la mattina avevo udito dal dottore fare il suo nome.
Dopo pranzo, ci recammo ancora di sopra, e tutto si svolse come il giorno precedente. Agnese portò i bicchieri e le bottiglie nello stesso angolo, e il signor Wickfield si indugiò a bere, e molto. Agnese, seduta accanto a lui, sonò il pianoforte, e lavorò, e conversò, e giocò a domino con me. All’ora consueta fece il tè; e dopo, quando portai lì i miei libri, li esaminò, e mi mostrò ciò 413
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che ne sapeva (che non era poco, benché ella dicesse altrimenti), e qual fosse il miglior modo d’imparare a in-tenderli. La riveggo ancora, con le sue maniere modeste, calme, ordinate; riascolto la sua bella e tranquilla voce, mentre scrivo queste parole. L’effetto benefico che ella eserciterà su di me più tardi, comincio già a sentirlo nel segreto del cuore. Io amo l’Emilietta, e non Agnese –
non nello stesso modo, intendo; – ma sento che dov’è questa, è la pace, la bontà e la sincerità; e che la blanda luce della finestra dipinta, veduta in chiesa lungo tempo fa, l’avvolge sempre, e avvolge me pure quando le sono accanto, e avvolge ogni cosa intorno.
Giunto il tempo di andare a letto, ella ci lasciò, e io stesi la mano al signor Wickfield, per ritirarmi anch’io. Ma egli mi trattenne, dicendomi:
– Ti piace di rimaner con noi, Trotwood, o d’andare altrove?
– Di rimanere – risposi subito.
– Certo?
– Se non vi dispiace, se posso!
– Temo che la vita che meniamo qui, ragazzo mio, debba esserti uggiosa – egli disse.
– Non più uggiosa per me che per Agnese, signore. Per nulla affatto uggiosa.
– Che per Agnese! – ripeté andando pianamente verso il 414
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caminetto, e appoggiandovisi di contro. – Che per Agnese!
Egli aveva bevuto tanto vino quella sera, credo, che aveva gli occhi iniettati di sangue. Non che io potessi vederli in quel momento, perché li teneva abbassati e ripa-rati dalla mano; ma li avevo osservati pochi istanti prima.
– Mi domando – egli mormorò – se la mia Agnese non sia stanca di me. Io invece non mi stancherei mai di lei!
Ma è diverso, assolutamente diverso.
Parlava a sé stesso, non a me; così non dissi nulla.
– Una vecchia casa uggiosa – egli disse – e una vita monotona; ma io debbo sentirmela vicina; debbo tenermela vicina. Se il pensiero che io possa morire e lasciare la mia diletta, o che la mia diletta possa morire e lasciarmi, mi sorge innanzi come uno spettro a rattristar le mie ore di felicità, non so far altro che annegarlo nel... Non disse la parola; ma andando lentamente verso il suo posto, e facendo meccanicamente l’atto di versare il vino dalla bottiglia vuota, la depose di nuovo, e si rimise a passeggiare.
– Se è un’angoscia pensarci, quando essa è qui – egli disse – che sarebbe, se fosse lontana? No, no, no. Non posso pensarci.
S’appoggiò contro il caminetto, e rimase assorto nei suoi pensieri così a lungo, che non seppi decidermi tra 415
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l’arrischiare di disturbarlo andandomene, e il rimanermene tranquillo dov’ero, aspettando che uscisse da quella fantasticheria. Finalmente si riscosse, e si guardò intorno, finché non incontrò i miei occhi.
– Rimaner con noi, Trotwood, eh? – disse nel suo tono solito, e come per rispondere a qualche cosa che io avessi detto in quel punto. – Ne sono lieto. Tu ci farai compagnia. È bene averti qui. Bene per te, bene per Agnese, bene per tutti.
– Per me, certo, signore – dissi. – Io sono felice d’essere qui.
– Sei un bravo ragazzo! – disse il signor Wickfield. –
Finché sarai contento di star qui, ci starai. – E mi strinse la mano, e mi batté sulla spalla, e mi disse che la sera, dopo che Agnese si fosse ritirata, sarei potuto andare, avendo da far qualche cosa o desiderando legger per mio diletto, o semplicemente avendo bisogno di compagnia, liberamente giù nella sua stanza. Lo ringraziai per la sua benevolenza; e siccome egli si recava da basso subito dopo, ed io non ero stanco, andai giù anch’io con un libro in mano, ad approfittare, per una mezz’ oretta, del suo permesso.