Il giovane diceva sempre: «Vieni alla polizia», e mi stava trascinando violentemente contro l’asino, come se 319
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vi fosse qualche affinità tra quell’animale e un funzionario, quando, mutando improvvisamente di parere, saltò sul carro, si sedette sul baule, ed annunciandomi che andava difilato alla polizia, partì più velocemente e più strepitosamente che mai.
Gli corsi dietro più velocemente che potevo, ma non avevo fiato per richiamarlo, e, avendolo, non avrei osato. Fui ad un pelo dall’esser travolto, venti volte almeno, in mezzo miglio. Ora lo perdevo di vista, ora lo rivede-vo, ora lo perdevo ancora, ora m’arrivava un colpo di staffile, ora un urto, ora ero giù nel fango, ora mi levavo di nuovo, ora urtavo nel petto di qualche passante, ora correvo con la testa contro un pilastro. Finalmente, confuso dalla foga e dalla paura, e temendo che mezza Londra potesse mettermisi alle calcagna per arrestarmi, lasciai il giovane andare dove volesse col mio baule e il mio denaro; e, ansando e piangendo, ma non fermandomi mai, presi la strada di Greenwich, che avevo compreso era su quella di Dover; portando verso il ritiro di mia zia, la signora Betsey, delle ricchezze di questo mondo non più di quante ne portassi al mio arrivo, la notte che le suscitò tanta stizza e dispetto.
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XIII.
LA VITA PER CONTO MIO
Credo mi balenasse la folle idea, quando rinunziai al-l’inseguimento del giovane carrettiere e presi la via di Greenwich, di correre sempre fino a Dover. Ma presto moderai il passo, e mi fermai sulla strada di Kent su una spianata con un po’ d’acqua innanzi e nel mezzo una brutta e grossa statua, che soffiava in una conchiglia asciutta. Mi sedei sullo scalino d’una porta, assolutamente spossato dallo sforzo compiuto, e con appena il fiato da piangere la perdita del baule e della mezza ghinea. Era già buio; e sentii, stando a sedere, gli orologi sonare le dieci.
Fortunatamente s’era d’estate e con un tempo bellissimo. Dopo aver ripigliato fiato, ed essermi liberato da una sensazione di soffocamento in gola, m’alzai e mi rimisi in cammino. Nonostante la mia angoscia, non pensai neppure lontanamente a tornare indietro: non ci avrei pensato neppure se sulla strada di Kent avesse cominciato a nevicare come su una montagna della Svizzera.
Ma il pensiero d’avere soltanto sei soldi in tasca (veramente era una strana combinazione possedere ancora sei soldi una sera di sabato!) non cessava dal turbarmi 321
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profondamente. Immaginai che fra un paio di giorni un paragrafetto di giornale avrebbe annunziato che ero stato rinvenuto morto sotto qualche siepe; e continuavo a trascinarmi penosamente innanzi, come le gambe mi permettevano, allorché m’avvenne di passare davanti a una botteguccia, sulla quale era scritto che vi si compravano abiti usati da signori e signore, e che si pagavano profumatamente cenci, ossa e cianfrusaglie inservibili d’ogni specie. Il padrone della bottega era seduto sulla porta in maniche di camicia, e fumava: e siccome cion-dolavano dal soffitto molte giacche e molte paia di calzoni, illuminate da due fioche candele, la sua figura mi suggerì l’idea d’un uomo vendicativo, che avesse impiccato tutti i suoi nemici, e stesse a contemplarseli soddisfatto.
L’esperienza acquistata nei miei rapporti col signore e la signora Micawber mi fece pensare che avevo forse ancora il mezzo di tener lontana la fame per qualche poco. Entrai in un vicoletto vicino, mi tolsi la sottoveste, l’arrotolai con garbo, me la misi sotto il braccio, e mi presentai sulla porta della bottega.
– Per piacere – dissi – vorrei vendere questa sottoveste a un prezzo conveniente.
Dolloby – non so se fosse lui; ad ogni modo sulla porta della bottega c’era scritto Dolloby – prese la sottoveste, depose la pipa contro uno stipite della porta, entrò nella bottega, precedendomi, smoccolò le due candele con le 322
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dita, allargò la sottoveste sul banco e la esaminò, la levò distesa contro luce, la riesaminò, e finalmente disse:
– E così, quanto chiedete per questo cencio?
– Oh, voi lo sapete meglio di me! – risposi modestamente.
– Io non posso essere compratore e venditore nello stesso tempo – disse Dolloby. – Dite voi il prezzo di questo cencio.
– Se dicessi due lire? – accennai, dopo un istante di esitazione.
Dolloby arrotolò di nuovo la sottoveste e me la restituì.
– Deruberei la mia famiglia – egli disse – se ve ne dessi più di una.
Presentata in questi termini, la cosa non era lusinghiera: si attribuiva a me, perfettamente estraneo, il reo proposito di indurre Dolloby a derubare la sua famiglia in mio favore. Nella urgente necessità in cui mi trovavo, però, dissi che, se egli avesse voluto, avrei accettato la lira.
Dolloby, non senza aggiungervi qualche brontolìo, mi contò la lira. Gli augurai la buona sera, e me ne uscii più ricco di una lira, e più povero d’una sottoveste: circostanza poco grave, dopo che mi fui abbottonata la giacca.
Veramente, prevedevo chiaramente che essa avrebbe seguito la sottoveste, e che avrei dovuto fare la maggior 323
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parte del viaggio per Dover con la sola camicia e i calzoni: avrei dovuto, anzi, ritenermi fortunato, se fossi arrivato almeno in quell’acconciatura. Ma di questo non m’importava gran che, come è facile immaginare. Oltre un’impressione generale della distanza che avevo da percorrere, e del crudele trattamento usatomi dal giovane carrettiere, credo non avessi, allorché mi rimisi in viaggio con la lira in tasca, un’idea molto precisa di tutte le mie difficoltà.
Avevo pensato intanto al modo di passar la notte, e mi disponevo a metterlo in atto: sdraiarmi, cioè, dietro il muro del mio antico convitto, in un angolo dove soleva esserci un pagliaio. Mi sembrava che fosse una specie di compagnia trovarmi così, là presso ai miei compagni e al dormitorio, dove avevo narrato tante storie, benché i miei compagni non ne sapessero nulla e il dormitorio ancora meno.
La giornata era stata faticosissima, mi sentivo stanco morto, quando arrivai finalmente all’altezza di Blackheath. Non mi fu facile scoprire Salem House; ma lo trovai, e trovai il pagliaio in un angolo. Mi ci buttai su, dopo aver fatto un giro intorno al recinto e aver dato uno sguardo alle finestre, e rilevato che di dentro tutto era buio e silenzio. Non dimenticherò mai l’impressione di solitudine che provai nell’allungarmi senza avere un soffitto sul capo!
Il sonno discese su me quella notte come discese su 324
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tanti altri abbandonati, contro i quali tutte le porte si chiudevano e i cani abbaiavano – e sognai di star nel letto del convitto a conversar coi ragazzi della mia ca-merata; e mi trovai levato a metà, col nome di Steerforth sulle labbra, a guardar smarrito le stelle scintillanti che mi splendevano sul capo. Ricordando dove mi trovavo, a quell’ora indebita, m’invase un sentimento che mi fece levar su in fretta, con la paura di non so che, e mi persuase a muovermi. Ma lo scintillìo delle stelle più debole e il pallore del cielo nel punto dove il giorno spuntava, mi rassicurarono: e con le palpebre ancora pesanti, mi allungai giù di nuovo, e dormii pur avvertendo nel sonno una sensazione di freddo – finché i caldi raggi del sole e il suono della campana mattutina di Salem House non mi ridestarono. Se avessi potuto sperare nella presenza di Steerforth, mi sarei tenuto nascosto finché non avessi potuto vederlo; ma sapevo ch’egli se n’era andato da parecchio. Forse c’era ancora Traddles; ma non avevo abbastanza fiducia nella sua discrezione e nella sua buona stella, per quanto fossi profondamente persuaso della sua bontà, per desiderar di con-fidargli il mio stato. Così, mentre gli scolari del signor Creakle si stavano levando, m’allontanai dal recinto, e presi la lunga strada polverosa che, sapevo, conduceva a Dover, fin da quando ero uno di loro ed ero lontano le mille miglia dall’immaginare che un giorno l’avrei percorsa in quelle condizioni.