– Ebbene, se fossi in voi – disse il signor Dick, pensoso, e fissandomi in viso uno sguardo distratto – io, io... – La contemplazione della mia persona parve gli ispirasse un’idea luminosa, ed egli aggiunse con vivacità:
– Lo laverei!
– Giannina – disse mia zia con tranquilla aria di trionfo, che allora non compresi: – Dick ha perfettamente ragione. Metti a scaldare l’acqua per il bagno.
Benché fossi profondamente interessato in questo dialogo, non potevo fare a meno dall’osservare mia zia, il signor Dick e Giannina, nel frattempo, e finire l’esame della stanza già incominciato.
Mia zia era una donna alta, dai lineamenti duri, ma 344
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per nulla affatto spiacevoli. V’era nel suo viso, nella sua voce, nel suo contegno e nel suo portamento un’in-flessibilità che giustificava ampiamente l’impressione da lei fatta su un essere gentile come mia madre; ma le sue fattezze erano più belle che brutte, benché rigide e austere. Osservai specialmente che aveva gli occhi vivi e penetranti. La capigliatura, che era grigia, la portava pettinata in due bande lisce sotto una specie di cappellino, molto comune a quel tempo, con certe linguette laterali che si legavan sotto il mento. Indossava una gonna del colore della lavanda, perfettamente linda, e attillatissima, quasi perché fosse il meno possibile in-gombrante. Pareva, così senza alcuna superfluità, piuttosto un vestito da amazzone che altro. Ella aveva poi al fianco un orologio da uomo, a giudicar dalla grandezza e dalla forma, con catena e suggelli; e portava al collo una striscetta di tela inamidata non dissimile da un solino, e all’estremità delle braccia due maniche che avevan tutto l’aspetto di polsini.
Il signor Dick, come ho già osservato, aveva la testa grigia e l’aspetto florido; e così dicendo avrei detto tutto, se non avesse avuto la testa stranamente incurvata – non dall’età: mi rammentava le teste dei ragazzi del signor Creakle dopo che erano stati battuti – e gli occhi grigi, grossi e prominenti, con una strana specie d’umida lucentezza che me lo fece, insieme con la sua maniera distratta e la sua sottomissione a mia zia, e la sua gioia infantile, quand’ella lo lodava, sospettare un po’ matto; 345
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benché non sapessi minutamente spiegarmi come si trovasse lì, essendo matto. Era vestito comunemente con un soprabito, una sottoveste grigia e un paio di calzoni bianchi; e aveva l’orologio in un taschino alla cintura e del denaro nelle tasche: che faceva tintinnare, come se ne fosse immensamente orgoglioso.
Giannina era una bella ragazza di diciannove o venti anni e il ritratto perfetto della pulizia. Benché non osser-vassi altro in lei in quell’istante, mi si conceda di dire qui ciò che scopersi in appresso, che ella formava, cioè, parte di una schiera di protette che mia zia aveva suc-cessivamente assunte in suo servizio con l’espresso scopo di educarle alla rinuncia del mondo, e che avevano generalmente coronato la loro abiura con lo sposare i garzoni del fornaio.
La stanza aveva la stessa nitidezza di Giannina o di mia zia. Deponendo la penna, un momento fa, ripensandoci, ho sentito di nuovo passare un soffio d’aria marina insieme col profumo dei fiori; e ho rivisto i mobili antichi fortemente lucidati e brillanti, l’inviolabile poltrona di mia zia e la ventola verde sulla finestra, il tappeto sotto la guida, il gatto, i due canarini, le vecchie porcel-lane, il vaso da tè pieno di foglie di rosa disseccate, il grosso armadio che aveva in custodia ogni sorta di bottiglie e di vasi, e, in meraviglioso disaccordo con tutto il resto, sul canapè, la mia persona sudicia e impolverata, nell’atto di osservare ogni cosa.
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Giannina era andata via a preparare il bagno, quando mia zia, con mio gran spavento, si dipinse in un momento di violenta indignazione ed ebbe appena la forza di gridare: «Giannina! Gli asini!».
A questo, Giannina discese correndo per le scale, come se la casa fosse in fiamme, uscì come una freccia su un praticello verde, innanzi al giardino, e ne espulse due asini insellati, con due donne a cavallo, per la sfronta-tezza di averlo profanato coi loro zoccoli; mentre mia zia, precipitatasi anche lei fuori, s’impadroniva della ca-vezza d’un terzo animale sul quale andava a cavalcioni un bambino, lo faceva voltare, se lo traeva lontano da quei limiti sacri, e schiaffeggiava il disgraziato piccolo asinaio a piedi, che aveva osato violare quel terreno vietato.
Non so neppur ora se mia zia avesse un legittimo diritto di passaggio su quel pezzo di verde; ma era perfettamente convinta di averlo, e si regolava in conseguenza. La maggiore ingiuria che le si potesse fare, e quella che doveva essere costantemente vendicata, era il passaggio d’un asino su quell’erba immacolata. In qualunque cosa fosse affaccendata, comunque viva e animata la conversazione alla quale ella poteva partecipare, un asino aveva il potere di stornarle immediatamente il corso delle idee, facendola balzare di scatto, e uscire difilato a cacciarlo dal praticello. Vasi pieni d’acqua e annaffiatoi erano nascosti in luoghi segreti, pronti ad esse-347
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re scaricati sui ragazzi violatori del confine; bastoni stavano in agguato dietro la porta; si facevano sortite in tutti i momenti; e la guerra era sempre aperta. Forse questa era una ragione di continua tentazione per i piccoli asinai, o forse gli asini più sagaci, comprendendo lo stato delle cose, secondavano lieti la loro naturale ostinazione nel varcare quel passaggio vietato. So soltanto che vi furono tre allarmi prima che il bagno fosse pronto; e che nell’ultimo assalto, il più terribile, vidi mia zia, armata delle sole mani, e in lotta con un biondo ragazzo quindicenne, battergli più volte la testa contro il cancello, prima ch’egli arrivasse a comprender perché. Ma occupata, com’era allora, a darmi il brodo con un cucchiaio (era fermamente persuasa che io stessi positivamente morendo di fame, e dovevo essere alimentato prima a piccole dosi), quelle sue interruzioni m’apparvero anche più ridicole del naturale; ché, mentre spalancavo la bocca per ricevere il cucchiaio, ella lo rimetteva nella scodella, gridando: « Giannina! Gli asini!», e usciva all’assalto.
Il bagno fu un gran sollievo. Cominciavo, per aver dormito all’aperto, a sentire dei dolori acuti alle ossa, ed ero così stanco e depresso, che duravo gran fatica a tenermi sveglio per cinque minuti di seguito. Finito il bagno, esse (mia zia e Giannina, cioè) mi avvolsero in una camicia e in un paio di calzoni del signor Dick, e mi legarono in due o tre grandi scialli. Non so a quale strano fagotto rassomigliassi, ma certo a un fagotto assai caldo.
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Sentendomi sempre debole e sonnecchiante, mi allungai sul canapè di nuovo, e m’addormentai.
Forse fu un sogno, nato da quello che mi aveva occupato a lungo lo spirito, ma mi svegliai con l’impressione che mia zia si fosse avvicinata e chinata su di me, e mi avesse scostato dal viso i capelli, e rassettato meglio il guanciale perché la mia testa posasse più comoda, e poi fosse rimasta ritta a guardarmi. Avevo anche nelle orecchie le parole: «Bello», « Poverino»; ma certo non vidi nulla, quando mi svegliai, che m’inducesse a credere che fossero state pronunziate da mia zia, la quale, seduta accanto alla finestra, dietro la ventola verde, che girava su una specie di perno, aveva gli sguardi fissi sul mare.
Desinammo, appena fui desto, con un pollo arrosto e un budino, e stetti a tavola anch’io impastoiato come un pulcino, movendo con molta difficoltà le braccia. Ma siccome mi aveva fasciato mia zia, non ardii minimamente lagnarmi di quegli impacci. Nel frattempo, ero ansiosissimo di sapere che cosa avrebbe fatto di me; ma ella mangiava senza dir sillaba, tranne che di tanto in tanto fissava gli occhi su di me che le sedevo dirimpetto, ed esclamava: «Misericordia!»: cosa che non mi lasciava l’animo tranquillo.
Tolta la tovaglia, e messa sulla tavola una bottiglia di vino di Xères (della quale ebbi un bicchiere), mia zia mandò di nuovo a chiamare il signor Dick, che venne subito, e assunse la maggiore gravità possibile quando 349
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gli fu detto di stare attento alla mia storia, che mia zia mi fece narrare gradatamente, con una serie di accorte domande. Durante il mio racconto, ella tenne sempre gli occhi fissi sul signor Dick, che, altrimenti, credo, sarebbe andato volentieri a letto, e che, quando tentava di sorridere, era tenuto a freno da un aggrottamento di ciglia di mia zia.
– Non arrivo a comprendere che diavolo accecasse mai quella povera disgraziata piccina per maritarsi una seconda volta – disse mia zia, quand’ebbi finito.
– Forse s’innamorò del suo secondo marito – suggerì il signor Dick.
– Innamorarsi! – esclamò mia zia. – Che intendi dire? Perché doveva innamorarsene?
– Forse – sorrise il signor Dick, dopo aver pensato un poco – forse le piaceva.
– Le piaceva proprio! – rispose mia zia. – Un bel piacere per quella povera piccina giurar la sua fede a una specie di bruto, che doveva sicuramente maltrattarla. Sarei proprio curiosa di sapere che si proponesse di fare! S’era maritata una volta. Aveva visto andarsene via da questo mondo Davide Copperfield, che fin dalla culla era corso sempre dietro alle bambole di cera. Aveva avuto un bambino... oh, quella notte di venerdì, quando ella diede alla luce il ragazzo qui presente, i bambini erano due... e che voleva di più?
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