lungo quella fulgida strada, a guardarmi come m’aveva guardato l’ultima volta che avevo contemplato il suo volto soave. Ricordo come il sentimento solenne, col quale finalmente volsi gli occhi, cedesse, alla vista del letto dalle cortine candide, a un senso di gratitudine e di riposo, che fu più soave quando mi sentii morbidamente annidato nelle lenzuola fragranti e nivee. Ricordo che pensai a tutti i luoghi solitari che mi avevan visto dormire sotto il cielo stellato, e che pregai il Signore perché non mi facesse più trovare senza tetto e non mi facesse dimenticare i senza tetto. Ricordo, poi, che mi parve di salire aleggiando, su da mare per quel melanconico splendore della luna, via nel mondo dei sogni.
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XIV.
MIA ZIA SI RISOLVE
La mattina, nella stanza da pranzo, innanzi alla tavola della colazione, trovai mia zia puntata col gomito sul vassoio, e così profondamente assorta, che il contenuto della teiera era traboccato, passando per il colino, e inondava la tovaglia. Il mio ingresso mise subito le sue meditazioni in fuga. Convinto d’esser stato io il soggetto dei suoi pensieri, sentivo la più viva ansia di conoscere che cosa avesse risoluto a mio riguardo; ma per paura d’offenderla non osai di domandarle nulla.
Ma i miei occhi, molto più sciolti della lingua, si mosse-ro a fissar mia zia spessissimo durante la colazione. E
non potei mai guardarla per pochi istanti di seguito che non la sorprendessi con gli occhi fissi su di me – in atteggiamento pensoso e strano, come se fosse immensamente lontana, e non al lato opposto della tavola circolare. Quand’ebbe finito di far colazione, mia zia si appoggiò risoluta alla spalliera della seggiola, aggrottò le sopracciglia, incrociò le braccia, e mi contemplò a suo agio con tale fermezza e intensità, che me ne stetti lì so-praffatto dalla confusione, come da un pesante fardello.
D’altra parte, non avendo io ancora finito di far colazio-356
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ne, tentai, mostrando di attendervi con maggiore alacrità, di nascondere l’impaccio in cui mi trovavo; ma il coltello incespicò sulla forchetta, la forchetta mi saltò sul coltello, e feci schizzare il prosciutto in aria, a considerevole altezza, invece di tagliarlo nel piatto a mio beneficio; e ci corse un pelo che non mi strozzassi col tè, che s’ostinava ad andarmi giù di traverso, finché non vi rinunziai scoraggiato, e rimasi immobile, rosso come un papavero, sotto l’occhio scrutatore di mia zia.
– Oilà! – disse mia zia, dopo un lungo silenzio.
Guardai in su, e sostenni con rispetto la sua occhiata acuta e lucente.
– Gli ho scritto – disse mia zia.
– A... chi?
– Al tuo padrigno – disse mia zia. – Gli ho mandato una lettera che lo farà riflettere. Stia pur sicuro, l’avrà da far con me.
– E sa dove sono, zia? – domandai sgomento.
– Gliel’ho detto – disse mia zia, con un cenno del capo.
– Do... dovrò ri... ritornare con lui? – balbettai.
– Non so – disse mia zia – vedremo.
– Oh! Non so che farei – esclamai – se dovessi ritornare col signor Murdstone.
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– Non so nulla di nulla – disse mia zia scotendo il capo. – Ora, certo, non so dirti nulla. Vedremo.
Mi sentii mancare a quelle parole, e tacqui assai sconfortato e depresso. Mia zia, senza mostrar di curarsi gran fatto di me, si mise un rozzo grembiule a baveruo-la, che aveva tratto dall’armadio; lavò lei stessa le tazze; e quando le ebbe lavate e rimesse sul vassoio, ed ebbe ripiegata la tovaglia sulle tazze, chiamò col campanello Giannina per far portar via tutto. Raspò poi le briciole con uno spazzolino (dopo essersi infilata un paio di guanti), finché non vide il tappeto mondo da ogni minu-zia anche microscopica; poi spolverò e riassettò la stanza, che era già spolverata e riassettata con la massima diligenza. Quando tutto le parve soddisfacente, si tolse i guanti e il grembiule, li piegò, li ripose nell’angolo particolare dell’armadio dal quale li aveva tratti, prese e portò la sua cassetta da lavoro sul tavolino accanto alla finestra, e si sedette dietro la ventola verde a lavorare.
– Vorrei che tu andassi su – disse zia mentre infilava l’a-go – a dare i miei saluti a Dick, e a dirgli che mi piacerebbe sapere dov’è arrivato col suo memoriale.
Mi levai con la maggior sveltezza per eseguire l’incarico.
– Immagino – disse mia zia, guardandomi con la stessa intensità di quando aveva mirato l’ago per infilarlo –
che tu pensi che Dick sia un nome troppo corto?
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– Ieri – confessai – mi parve un nome piuttosto corto.
– E non pensi che se egli volesse, ne avrebbe uno più lungo – disse mia zia con aspetto più altero. – Babley...
il signor Riccardo Babley... Questo è il vero nome di quel signore.
Stavo per dire, pieno di rispetto e confuso per la familiarità della quale già m’ero reso colpevole, che avrei dovuto chiamarlo col suo vero nome, quando mia zia continuò:
– Ma non lo chiamare così, per carità. Egli non può sopportare quel nome. È un capriccio... Benché, poi, io non creda che sia veramente capriccio... il Cielo sa com’è stato maltrattato... È stato molto maltrattato da una persona che si chiama come lui, ed egli ha concepito per quel nome un’antipatia mortale. Qui si chiama Dick, e dovunque ora... se andasse in qualche parte: cosa che non fa. Così, bada, ragazzo mio, non chiamarlo altrimenti che signor Dick.