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David Copperfield

bambino, andar via all’altro capo del mondo, lasciandosi dietro tutti gli amici, senza sapere che troverà innanzi a sé. Un giovane che fa un simile sacrificio – con un’occhiata al dottore – merita costante appoggio e protezione.

– Il tempo passerà presto per te, Jack Maldon – proseguì il dottore – e presto per tutti. Alcuni di noi possono appena sperare, forse, nel corso naturale delle cose, di salutarti al tuo ritorno. Ma il meglio da fare è di sperarlo; e così faccio io. Non ti tedierò coi consigli. Tu hai avuto per molto tempo un buon modello innanzi agli occhi, nella tua cugina Annie. Cerca d’imitare, meglio che puoi, le sue virtù.

La signora Markleham agitava il ventaglio, scotendo il capo.

– Addio, Jack – disse il dottore, levandosi; e tutti ci levammo. – Ti auguro un buon viaggio, una magnifica carriera, e un felice ritorno in patria.

Tutti brindammo, e tutti stringemmo la mano a Jack Maldon; egli quindi si congedò in fretta dalle signore, e si precipitò alla porta, dove fu ricevuto, nell’atto che saliva nella vettura, con una formidabile scarica d’applausi dai ragazzi, che s’erano raccolti a bella posta sul prato. Io, essendo corso fra loro a ingrossare le file, ero quasi vicino alla vettura quando si mosse; e potei vedere distintamente, in mezzo al frastuono e alla polvere, pas-435

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sar Jack col viso sconvolto e qualche cosa color ciliegia in mano.

Dopo un’altra scarica di evviva al dottore, e un’altra per la moglie del dottore, i ragazzi si sbandarono, e io ritornai in casa fra gli ospiti che, tutti in gruppo e in piedi intorno al dottore, parlavano della partenza di Jack Maldon, e di come egli l’aveva affrontata, di come l’aveva sentita, e di altre cose della stessa specie. In mezzo a queste ciarle, la signora Markleham esclamò: «E Annie dov’è?».

Annie non c’era, e quando fu chiamata, Annie non rispose. Si precipitarono tutti in folla fuori della stanza per veder che fosse successo, e fu trovata distesa sul pavimento del vestibolo. Vi fu un gran spavento in principio; ma poi si vide che era uno svenimento, e ch’ella cominciava a rinvenire mercé i soccorsi che s’apprestano in casi simili. Il dottore, che le teneva la testa sul ginocchio, allontanandole con la mano i riccioli dalla fronte, disse, guardando intorno:

– Povera Annie! È tanto affettuosa e cara! È stato per la partenza del suo vecchio compagno di giuochi, il suo diletto cugino. Ah, peccato! Mi dispiace tanto!

Quando aprì gli occhi, e vide dov’era, e che tutti le stavano intorno, ella si levò, aiutata, volgendo la testa, mentre si levava, per metterla sulla spalla del dottore, o per nasconderla, veramente non so. Noi rientrammo nel 436

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salotto, per lasciarla con la madre e il dottore; ma ella disse che si sentiva meglio di come s’era sentita fin dalla mattina, e che preferiva esser ricondotta fra noi: così ci raggiunse, bianca e spossata, mi parve; e si sedette sul canapè.

– Annie cara – le disse la madre, toccandola in petto –

vedi! Hai perduto un nastro. C’è qualcuno così gentile che si voglia incomodare per trovare un nastro; un nastro color ciliegia?

Era quello ch’essa aveva appuntato sul petto. Lo cercammo tutti; anch’io frugai per ogni cantuccio; ma nessuno poté trovarlo.

– Ricordi l’ultimo momento che l’avevi ancora, Annie?

– disse la madre.

Quando ella rispose che ricordava d’averlo ancora pochi momenti prima, ma che non metteva conto di cercarlo, era così rossa di fuoco in viso, che mi domandai come mai avesse potuto sembrarmi bianca.

Si cercò di nuovo, nondimeno, ma non si trovò nulla.

Ella supplicò che si lasciasse andare, che non ci affan-nassimo a cercare; ma, a intervalli, la caccia continuò: finché la signora Strong non si fu completamente rimessa, e la compagnia non si sciolse.

Ci avviammo lentamente a casa, il signor Wickfield, Agnese e io: Agnese e io, ammirando la luce della luna, e il signor Wickfield quasi sempre con gli occhi al suo-437

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lo. Quando, finalmente, giungemmo innanzi alla nostra porta, Agnese s’accorse di aver dimenticato la borsetta in casa del dottore. Ben lieto di poterla servire, tornai di corsa indietro a pigliarla.

La sala da pranzo, dove la borsa era stata lasciata, era deserta e buia. Ma essendo aperta una porta di comunicazione fra quella e lo studio del dottore, ch’era illuminato, entrai per dire ciò che volevo e per avere una candela.

Il dottore sedeva nella poltrona accanto al fuoco, e la giovane moglie stava su uno sgabellino ai suoi piedi. Il dottore leggeva, con un sorriso di compiacenza, qualche spiegazione manoscritta o parte del disegno del suo in-terminabile dizionario; ed ella aveva gli occhi su di lui.

Ma con un’espressione che io non le avevo mai veduta.

Il suo viso era ancor bello, ma così cinereo, così lontano dal presente, così pieno d’un selvaggio, fantastico orrore di non so che. Aveva gli occhi spalancati, e i capelli bru-ni le cadevano in due ricche trecce sulle spalle e sulla veste bianca, priva del nastro sparito. Non so dire che esprimesse quel suo sguardo, che ricordo distintamente.

Neanche ora che ho un giudizio più maturo, so dire che esprimesse. Pentimento, umiliazione, vergogna, orgoglio, amore e fedeltà... vedevo tutti questi sentimenti, e in tutto scorsi l’orrore di non so che.

Il mio ingresso e la mia domanda la scossero. Scossero anche il dottore che, quando rientrai a rimetter la cande-438

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la dove l’avevo presa, stava carezzando, con un gesto paterno, i capelli della moglie, dicendole ch’egli era un bruto crudele a tenerla lì e ad annoiarla con le sue carte nell’ora ch’ella sarebbe andata più volentieri a letto.

Ma ella lo pregò, insistentemente, di lasciarla stare... Per sentirsi sicura (la sentii sussurrare delle frasi interrotte) della fiducia di lui. E, voltandosi di nuovo al marito, dopo che m’ebbe seguito alla porta con un’occhiata, gli abbracciò le ginocchia, e si mise a guardarlo, mentr’egli ripigliava la lettura, con la stessa espressione, un po’ più calma.

N’ebbi una grande impressione, e me ne ricordai un bel pezzo dopo, come avrò a suo tempo occasione di narrare.

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XVII.

UN INCONTRO

Mi sembra che dal momento della mia fuga non mi sia più occorso di far menzione di Peggotty; ma, naturalmente, non appena mi fui stabilito a Dover, le scrissi una lettera, e poi, allorché mia zia m’ebbe assunto formalmente sotto la sua protezione, gliene scrissi un’altra più lunga coi più minuti particolari d’ogni circostanza.

Al mio ingresso nella scuola del dottor Strong, le scrissi ancora, intrattenendola particolarmente della mia perfetta soddisfazione e di tutte le speranze che s’erano accese in me. Spendendo il denaro regalatomi dal signor Dick non avrei sentito lo stesso piacere che provai restituendo per posta a Peggotty, in quella stessa lettera, la mezza ghinea da lei prestatami; e soltanto allora le narrai il fatto del giovinastro dall’asino e dal carretto.

A quelle comunicazioni Peggotty rispose con la stessa prontezza, se non con la stessa concisione, dell’impiegato d’un commerciante. I suoi massimi poteri d’espressione (che sulla carta non erano grandi) si esaurirono nel tentativo di scrivere ciò che sentiva sull’argomento del mio viaggio. Quattro pagine di principi di frasi incoerenti e riboccanti d’interiezioni, e che non concludevano 440

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che con macchie d’inchiostro, non furono sufficienti a confortarla in qualche modo. Ma le macchie d’inchiostro mi parlarono meglio d’un abile discorso; perché mi dimostravano – e che avrei potuto desiderare di più? –

Are sens