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Il signor Dick scosse il capo, e rinunciò manifestamente a questa spiegazione, e avendo molte e molte volte af-fermato, e con gran convinzione: «Non era un mendicante! non era un mendicante!» continuò dicendo che dopo, a notte alta, aveva veduto mia zia, nella luce della luna, a traverso la cancellata del giardino, dare del denaro a quella persona, che poi s’era dileguata – sotterra forse, com’era probabile – e non s’era vista più: mentre mia zia rientrava in casa in fretta e di soppiatto, e s’era mostrata la mattina appresso, assai diversa dal solito; cosa che rodeva l’animo del signor Dick.

Credetti, in principio, che l’incognito non fosse che un’allucinazione del signor Dick, e uno degli aspetti di quello sciagurato principe che gli dava tanto da pensare; ma, dopo aver riflettuto parecchio, cominciai a domandarmi se non fosse stato fatto due volte il tentativo, o almeno non si fosse minacciato di strappare il signor Dick 446

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dalla protezione di mia zia, e se mia zia, che m’aveva parlato lei stessa del vivo affetto ch’ella nutriva per lui, non si fosse piegata a pagare una certa somma, perché il suo protetto non venisse molestato. Siccome anch’io ero molto affezionato al signor Dick e desideroso del suo benessere, i miei timori inclinarono verso questa ipotesi; e per molto tempo non spuntò mercoledì che non mi tor-mentasse il presentimento di non vederlo, come il solito, apparire accanto al cocchiere sulla diligenza. Pur nondimeno, apparve sempre, sorridente e felice con la sua testa grigia; e non mi disse più sillaba mai dell’uomo che aveva il potere di far paura a mia zia.

Quei mercoledì, che erano molto felici per me, erano i giorni più felici della vita del signor Dick. Egli fu subito noto a tutti gli allievi; e, benché non partecipasse attivamente ad alcun giuoco, tranne che a sciogliere il volo all’aquilone, prendeva vivamente a cuore tutti i nostri divertimenti, come uno di noi. Quante volte lo vidi intento a una partita di palline o di trottole, con una faccia d’indescrivibile interesse, che non osava neppur di respirare nei momenti critici! Quante volte, al giuoco delle lepri e dei levrieri, non lo vidi, dall’alto d’un poggetto, incoraggiare con grida tutto il campo, agitando in aria il cappello sulla sua testa grigia, dimentico della testa di Carlo I il Martire, e di tutto ciò che le si riferiva.

Quante ore d’estate, passate ad assistere al giuoco delle bocce, non gli parvero semplici istanti beati! Quante volte in inverno non lo vidi col naso livido, nella neve e 447

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nel vento, guardare, picchiando con entusiasmo i guanti di lana, i ragazzi che sdrucciolavano sul ghiaccio! Tutti gli volevano bene, e la sua abilità in certe inezie era prodigiosa. Egli sapeva tagliar le arance in cento maniere diverse per noi incomprensibili. Sapeva fare una barca con qualunque cosa, perfino con uno spiedo; tagliare i pezzi degli scacchi nell’osso delle costolette; foggiare cocchi romani nelle carte vecchie; fare delle ruote rag-giate coi rocchetti di refe; e gabbie di uccelli col vecchio filo di ferro. Ma era assolutamente, prodigioso negli oggetti che costruiva con la paglia o con lo spago; tanto che eravamo persuasi che con quei soli materiali egli potesse costruire tutto ciò che è possibile fare con mani d’uomo.

La fama del signor Dick varcò in breve i nostri confini.

Dopo alcuni mercoledì, il dottor Strong mi chiese informazioni su di lui, e io gli dissi ciò che m’aveva detto mia zia: e questo interessò tanto il dottore che mi chiese d’essere presentato al signor Dick, in occasione della sua prossima visita. E io feci la presentazione. Avendo poi il dottore pregato il signor Dick di venire, se non mi trovasse nell’ufficio della diligenza, difilato alla scuola a riposarsi e ad aspettare la fine della lezione, il signor Dick prese l’abitudine di venire naturalmente, e, se eravamo un po’ in ritardo, come spesso accadeva il mercoledì, di entrare addirittura nel cortile ad attendermi. Ivi fece la conoscenza della bella e giovane moglie del dottore (più pallida di prima, in tutto quel tempo; veduta 448

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più di rado da me e da tutti; non più così lieta, ma non meno bella), e così gradatamente si rese sempre più familiare del luogo, e quindi entrò senz’altro nella scuola ad aspettarmi. Si sedeva sempre in un certo angolo, su un certo sgabello, che per lui poi venne denominato

«Dick»: se ne rimaneva lì con la testa grigia curva in avanti, ad ascoltare attentamente tutto ciò che si diceva, con una profonda venerazione per la scienza che non era stato mai capace di conquistare.

E questa venerazione il signor Dick la estendeva al dottore, che giudicava il più sottile e perfetto dei filosofi viventi e vissuti. Ci volle del tempo prima che il signor Dick si decidesse a parlargli a testa coperta; e anche quando fra lui e il dottore s’erano già stretti vivi rapporti di amicizia, e si vedevano passeggiare per ore insieme verso quel lato del cortile al quale da noi si dava il nome di Passeggiata del Dottore, il signor Dick si cavava di tanto in tanto il cappello in segno di rispetto per la sapienza e la dottrina del compagno. Non seppi mai come il dottore cominciasse, in quelle passeggiate, a legger dei brani del famoso dizionario; forse gli parve, le prime volte, come di leggerli a sé stesso. Però, prese quell’abitudine; e il signor Dick, in ascolto con un viso fulgido di piacere e d’orgoglio, credeva, nell’imo cuore, che il dizionario fosse il più delizioso libro del mondo.

Rivedendoli in mente passar su e giù innanzi alle finestre della scuola – il dottore che legge, con un sorriso 449

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di compiacenza, un casuale tratto arguto del manoscritto, o con un grave moto del capo; e il signor Dick che lo ascolta incantato dal più vivo interesse, mentre il suo povero cervello veleggia Dio sa dove, sulle ali delle parole difficili – penso a quella scena come a uno degli spettacoli più dolci e calmi ai quali io abbia mai assistito. Mi sembra che se quei due avessero potuto passeggiare eternamente così il mondo non sarebbe andato peggio; e che migliaia di cose intorno alle quali fa tanto scalpore non valgano per esso e per me la metà di quelle passeggiate.

Presto, Agnese fu annoverata fra gli amici del signor Dick; il quale venendo spesso a trovarmi a casa, fece anche la conoscenza di Uriah. L’amicizia fra lui e me s’andava continuamente accrescendo, e si manteneva su questa base singolare: che, mentre veniva espressamente a sorvegliarmi in qualità di tutore, il signor Dick finiva sempre col consultare me in ogni più piccolo dubbio che gli sorgesse, e col regolarsi invariabilmente sui consigli che gli davo io; non solo per un gran rispetto alla mia ingenita sagacia, ma per la considerazione che io la ere-ditavo in gran parte da mia zia.

Un giovedì mattina, mentre m’accingevo, prima di tornare a scuola (avevamo un’ora di lezione prima della colazione), ad andare col signor Dick dall’albergo al-l’ufficio della diligenza, incontrai per strada Uriah che mi ricordò la promessa d’andare a bere il tè con lui e la 450

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madre, aggiungendo, con una contorsione: «Ma io non aspettavo che la manteneste, signorino Copperfield, noi siamo così umili».

In realtà non ero stato ancora in grado di comprendere se Uriah mi piacesse o mi dispiacesse: ero ancora nell’incertezza, e nella via mi misi a guardarlo fisso in faccia. Ma mi parve mal fatto dargli il pretesto di credere che fossi superbo, e risposi che non aspettavo che d’essere invitato.

– Oh, se è veramente per questo, signorino Copperfield

– disse Uriah – e non è la nostra umiltà che ve lo impedisce, volete venir questa sera? Ma se è per l’umiltà delle nostre condizioni, non vi fate uno scrupolo di confessarlo, signorino Copperfield; perché noi sappiamo benissimo ciò che siamo.

Dissi che ne avrei parlato col signor Wickfield, e che se egli me lo avesse permesso, e non ne avevo il minimo dubbio, sarei andato con piacere. Così alle sei, quella sera, che era una di quelle in cui lo studio si chiudeva presto, annunziai a Uriah d’esser pronto a seguirlo.

– La mamma sarà veramente orgogliosa – egli disse, av-viandoci insieme. – Cioè sarebbe orgogliosa, se non fosse un peccato, signorino Copperfield.

– Eppure questa mattina non avete esitato a creder me orgoglioso – io risposi.

– Oh no, signorino Copperfield! – rispose Uriah. – Oh, 451

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credetemi pure. Non ho avuto mai un pensiero simile.

Non v’avrei giudicato orgoglioso, se ci aveste considerati troppo umili per voi. Perché noi siamo tanto umili.

– Avete studiato molto la legge in questi ultimi tempi? –

chiesi per cambiar discorso.

– Oh, signorino Copperfield – egli disse con accento d’infinita umiltà; – le mie letture non hanno la pretesa d’esser considerate studi. A volte, la sera, mi occupo per un’ora o due a leggere Tidd.

– Lettura difficile, immagino – dissi.

– Per me a volte è difficile – rispose Uriah. – Ma non per una persona d’ingegno, credo.

Dopo aver stamburellato, camminando, col medio e l’indice della destra, un’arietta sul mento, aggiunse:

– Vi sono delle espressioni, sapete, signorino Copperfield... parole e denominazioni latine... nel Tidd, che sono difficilissime per un lettore della mia modesta intelligenza.

– Vi piacerebbe d’apprendere il latino? – dissi vivamente. – Ve lo insegnerò con piacere, mentre lo imparo io.

– Oh, grazie, signorino Copperfield – rispose, scotendo il capo. – Certo è un tratto di gran bontà, da parte vostra, farmi una simile offerta; ma la mia umiltà m’impedisce d’accettarla.

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– Sciocchezze, Uriah!

Are sens