Fïalte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a' dèi; le braccia ch'el menò, già mai non move».
E io a lui: «S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Brïareo
esperïenza avesser li occhi mei».
Ond' ei rispuose: «Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, che ne porrà nel fondo d'ogne reo.
Quel che tu vuo' veder, più là è molto ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto».
Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fïalte a scuotersi fu presto.
Allor temett' io più che mai la morte, e non v'era mestier più che la dotta, s'io non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo più avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
«O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,
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quand' Anibàl co' suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a l'alta guerra de' tuoi fratelli, ancor par che si creda ch'avrebber vinto i figli de la terra: mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama, ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».
Così disse 'l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese 'l duca mio, ond' Ercule sentì già grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»; poi fece sì ch'un fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr' essa sì, ched ella incontro penda: tal parve Antëo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora
ch'i' avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, lì fece dimora,
e come albero in nave si levò.
CANTO XXXII
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[Canto XXXII, nel quale tratta de' traditori di loro schiatta e de'
traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l'inferno.]
S'ïo avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch' io non l'abbo, non sanza tema a dicer mi conduco; ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l'universo, né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro, mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro sotto i piè del gigante assai più bassi, e io mirava ancora a l'alto muro, dicere udi'mi: «Guarda come passi: va sì, che tu non calchi con le piante le teste de' fratei miseri lassi».
Per ch'io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d'acqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, né Tanaï là sotto 'l freddo cielo, 144
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com' era quivi; che se Tambernicchi vi fosse sù caduto, o Pietrapana, non avria pur da l'orlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l'acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana,
livide, insin là dove appar vergogna eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna.