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È l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrude la sua forma. Se ci passi fischiettando, a naso librato dietro al fischio, la conoscerai di sotto in su: davanzali, tende che sventolano, zampilli. Se ci cammini col mento sul petto, con le unghie ficcate nelle palme, i tuoi sguardi s’impiglieranno raso terra, nei rigagnoli, i tombini, le resche di pesce, la cartaccia. Non puoi dire che un aspetto della città sia piú vero dell’altro, però della Zemrude d’in su senti parlare sopratutto da chi se la ricorda affondando nella Zemrude d’in giù, percorrendo tutti i Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili giorni gli stessi tratti di strada e ritrovando al mattino il malumore del giorno prima incrostato a piè dei muri.

Per tutti presto o tardi viene il giorno in cui abbassiamo lo sguardo lungo i tubi delle grondaie e non riusciamo piú a staccarlo dal selciato. Il caso inverso non è escluso, ma è piú raro: perciò continuiamo a girare per le vie di Zemrude con gli occhi che ormai scavano sotto alle cantine, alle fondamenta, ai pozzi.

Le città e il nome. 1.

Poco saprei dirti d’Aglaura fuori delle cose che gli abitanti stessi della città ripetono da sempre: una serie di virtù proverbiali, d’altrettanto proverbiali difetti, qualche bizzarria, qualche puntiglioso ossequio alle regole. Antichi osservatori, che non c’è ragione di non supporre veritieri, attribuirono ad Aglaura il suo dure-vole assortimento di qualità, certo confrontandole con quelle d’altre città dei loro tempi. Né l’Aglaura che si di-ce né l’Aglaura che si vede sono forse molto cambiate da allora, ma ciò che era eccentrico è diventato usuale, stra-nezza quello che passava per norma, e le virtù e i difetti hanno perso eccellenza o disdoro in un concerto di virtù e difetti diversamente distribuiti. In questo senso nulla è vero di quanto si dice d’Aglaura, eppure se ne trae un’immagine solida e compatta di città, mentre minor consistenza raggiungono gli sparsi giudizi che se ne possono trarre a viverci. Il risultato è questo: la città che dicono ha molto di quel che ci vuole per esistere, mentre la città che esiste al suo posto, esiste meno.

Se dunque volessi descriverti Aglaura tenendomi a quanto ho visto e provato di persona, dovrei dirti che è una città sbiadita, senza carattere, messa lí come vien viene. Ma non sarebbe vero neanche questo: a certe ore, in certi scorci di strade, vedi aprirtisi davanti il sospetto Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili di qualcosa d’inconfondibile, di raro, magari di magnifi-co; vorresti dire cos’è, ma tutto quello che s’è detto d’Aglaura finora imprigiona le parole e t’obbliga a ridire anziché a dire.

Perciò gli abitanti credono sempre d’abitare un’Aglaura che cresce solo sul nome Aglaura e non s’accorgono dell’Aglaura che cresce in terra. E anche a me che vorrei tener distinte nella memoria le due città, non resta che parlarti dell’una, perché il ricordo dell’altra, mancando di parole per fissarlo, s’è disperso.

– D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, – avevadetto il Kan. – Tu nei tuoi viaggi verificherai se esistono.

Ma le città visitate da Marco Polo erano sempre diverseda quelle pensate dall’imperatore.

– Eppure io ho costruito nella mia mente un modello dicittà da cui dedurre tutte le città possibili, – disse Kublai.

– Esso racchiude tutto quello che risponde alla norma. Sic-come le città che esistono s’allontanano in vario gradodalla norma, mi basta prevedere le eccezioni alla norma ecalcolarne le combinazioni piú probabili.

– Anch’io ho pensato un modello di città da cui deducotutte le altre, – rispose Marco. – È una città fatta solo d’eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, contro-sensi. Se una città cosí è quanto c’è di piú improbabile, di-minuendo il numero degli elementi abnormi si accresconole probabilità che la città ci sia veramente. Dunque bastache io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi ordine proceda arriverò a trovarmi davanti una delle cittàche, pur sempre in via d’eccezione, esistono. Ma non possono spingere la mia operazione oltre un certo limite: ot-terrei delle città troppo verosimili per essere vere.

Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili V

Dall’alta balaustra della reggia il Gran Kan guarda crescere l’impero. Prima era stata la linea dei confini a dila-tarsi inglobando i territori conquistati, ma l’avanzata deireggimenti incontrava plaghe semideserte, stentati villaggi di capanne, acquitrini dove attecchiva male il riso, popolazioni magre, fiumi in secca, canne. “È tempo che ilmio impero, già troppo cresciuto verso il fuori, – pensavail Kan, – cominci a crescere al di dentro”, e sognava boschidi melegranate mature che spaccano la scorza, zebú rosola-ti allo spiedo e gocciolanti lardo, vene metallifere chesgorgano in frane di pepite luccicanti.

Ora molte stagioni d’abbondanza hanno colmato i granai. I fiumi in piena hanno trascinato foreste di travi destinate a sostenere tetti di bronzo di templi e palazzi. Carovane di schiavi hanno spostato montagne di marmoserpentino attraverso il continente. Il Gran Kan contempla un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e sugli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracaricod’ornamenti e d’incombenze, complicato di meccanismi edi gerarchie, gonfio, teso, greve.

“È il suo stesso peso che sta schiacciando l’impero”,pensa Kublai, e nei suoi sogni ora appaiono città leggerecome aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenticome zanzariere, città nervatura di foglia, città linea dellamano, città filigrana da vedere attraverso il loro opaco efittizio spessore.

– Ti racconterò cosa ho sognato stanotte, – dice a Marco. – In mezzo a una terra piatta e gialla, cosparsa di me-teoriti e massi erratici, vedevo di lontano elevarsi le guglied’una città dai pinnacoli sottili, fatti in modo che la Lunanel suo viaggio possa posarsi ora sull’uno ora sull’ altro, odondolare appesa ai cavi delle gru.

E Polo: – La città che hai sognato è Lalage. Questi invi-ti alla sosta nel cielo notturno i suoi abitanti disposero Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibiliperché la Luna conceda a ogni cosa nella città di crescere ericrescere senza fine.

– C’è qualcosa che tu non sai, – aggiunse il Kan. – Ri-conoscente la Luna ha dato alla città di Lalage un privile-gio piú raro: crescere in leggerezza.

Le città sottili. 5.

Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città–ragnatela. C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’ intravede piú in basso il fondo del bur-rone.

Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d’elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d’acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, telefe-riche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.

Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che piú di tanto la rete non regge.

Le città e gli scambi. 4.

A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o grigi o bianco–e–neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rap-Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili presentanza. Quando i fili sono tanti che non ci si può piú passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case vengono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili.

Dalla costa d’un monte, accampati con le masserizie, i profughi di Ersilia guardano l’intrico di fili tesi e pali che s’innalza nella pianura. È quello ancora la città di Ersilia, e loro sono niente.

Riedificano Ersilia altrove. Tessono con i fili una figura simile che vorrebbero piú complicata e insieme piú regolare dell’altra. Poi l’ abbandonano e trasportano ancora piú lontano sé e le case.

Cosí viaggiando nel territorio di Ersilia incontri le ro-vine delle città abbandonate, senza le mura che non du-rano, senza le ossa dei morti che il vento fa rotolare: ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma.

Le città e gli occhi. 3.

Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie, chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I sottili trampoli che s’alzano dal suolo a gran distanza l’uno dall’altro e si perdono sopra le nubi sostengono la città.

Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano di rado: hanno già tutto l’occorrente lassú e preferiscono non scendere. Nulla della città tocca il suolo tranne quelle lunghe gambe da fenicottero a cui si appoggia e, nelle giornate luminose, un’ombra traforata e angolosa che si disegna sul fogliame.

Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odi-no la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giú non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza.

Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili Le città e il nome. 2.

Dèi di due specie proteggono la città di Leandra. Gli uni e gli altri sono cosí piccoli che non si vedono e cosí numerosi che non si possono contare. Gli uni stanno sulle porte delle case, all’interno, vicino all’attaccapanni e al portaombrelli; nei traslochi seguono le famiglie e s’installano nei nuovi alloggi alla consegna delle chiavi.

Gli altri stanno in cucina, si nascondono di preferenza sotto le pentole, o nella cappa del camino, o nel riposti-glio delle scope: fanno parte della casa e quando la famiglia che ci abitava se ne va, loro restano coi nuovi inqui-lini; forse erano già lí quando la casa non c’era ancora, tra l’erbaccia dell’area fabbricabile, nascosti in un barattolo arrugginito; se si butta giú la casa e al suo posto si costruisce un casermone per cinquanta famiglie, ce li si ritrova moltiplicati, nella cucina d’altrettanti apparta-menti. Per distinguerli, chiameremo Penati gli uni e gli altri Lari.

In una casa, non è detto che i Lari stiano sempre coi Lari e i Penati coi Penati: si frequentano, passeggiano insieme sulle cornici di stucco, sui tubi dei termosifoni, commentano i fatti della famiglia, è facile che litighino, ma possono pure andar d’accordo per degli anni; a ve-derli tutti in fila non si distingue quale è l’uno e quale è l’altro. I Lari hanno visto passare tra le loro mura Penati delle piú diverse provenienze e abitudini; ai Penati tocca farsi un posto gomito a gomito coi Lari d’illustri palazzi decaduti, pieni di sussiego, o coi Lari di baracche di latta, permalosi e diffidenti.

La vera essenza di Leandra è argomento di discussioni senza fine. I Penati credono d’essere loro l’anima della città, anche se ci sono arrivati l’anno scorso, e di portarsi Leandra con sé quando emigrano. I Lari considerano i Penati ospiti provvisori, importuni, invadenti; la vera Leandra è la loro, che dà forma a tutto quello che contie-Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili ne, la Leandra che era lí prima che tutti questi intrusi ar-rivassero e resterà quando tutti se ne saranno andati.

Are sens