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segno che sono morto anch’io”. Pensai anche: “È segno che l’aldilà non è felice “.

Le città e il cielo. 1.

A Eudossia, che si estende in alto e in basso, con vico-li tortuosi, scale, angiporti, catapecchie, si conserva un tappeto in cui puoi contemplare la vera forma della città. A prima vista nulla sembra assomigliare meno a Eudossia che il disegno del tappeto, ordinato in figure simmetriche che ripetono i loro motivi lungo linee rette e circolari, intessuto di gugliate dai colori splendenti, l’alternarsi delle cui trame puoi seguire lungo tutto l’or-dito. Ma se ti fermi a osservarlo con attenzione, ti per-suadi che a ogni luogo del tappeto corrisponde un luogo della città e che tutte le cose contenute nella città sono comprese nel disegno, disposte secondo i loro veri rapporti, quali sfuggono al tuo occhio distratto dall’andirivieni dal brulichio dal pigia–pigia. Tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo, l’odore di pesce, è quanto appare nella prospettiva par-ziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c’è un punto dal quale la città mostra le sue vere proporzioni, lo sche-ma geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio.

Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili Perdersi a Eudossia è facile: ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filo cremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro ti fa entrare in un recinto color porpora che è il tuo vero punto d’arrivo. Ogni abitante di Eudossia confronta all’ordine immobile del tappeto una sua immagine della città, una sua angoscia, e ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschi una risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino.

Sul rapporto misterioso di due oggetti cosí diversi co-me il tappeto e la città fu interrogato un oracolo. Uno dei due oggetti, – fu il responso, – ha la forma che gli dei diedero al cielo stellato e alle orbite su cui ruotano i mondi; l’altro ne è un approssimativo riflesso, come ogni opera umana.

Gli àuguri già da tempo erano certi che l’armonico disegno del tappeto fosse di fattura divina; in questo senso fu interpretato l’oracolo, senza dar luogo a controversie.

Ma nello stesso modo tu puoi trarne la conclusione opposta: che la vera mappa dell’universo sia la città d’Eudossia cosí com’è, una macchia che dilaga senza forma, con vie tutte a zigzag, case che franano una sull’altra nel polverone, incendi, urla nel buio.

– ... Dunque è davvero un viaggio nella memoria, iltuo! – Il Gran Kan, sempre a orecchie tese, sobbalzavasull’amaca ogni volta che coglieva nel discorso di Marcoun’inflessione sospirosa. – È per smaltire un carico di nostalgia che sei andato tanto lontano! – esclamava, oppure:

– Con la stiva piena di rimpianti fai ritorno dalle tue spedizioni! – e soggiungeva, con sarcasmo: – Magri acquisti, adire il vero, per un mercante della Serenissima!

Era questo il punto cui tendevano tutte le domande diKublai sul passato e sul futuro, era da un’ora che ci gioca-va come il gatto col topo, e finalmente metteva Marco allestrette, piombandogli addosso, piantandogli un ginocchiodul petto, afferrandolo per la barba: – Questo volevo sape-Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili re da te: confessa cosa contrabbandi: stati d’animo, stati di grazia, elegie!

Frasi e atti forse soltanto pensati, mentre i due, silen-ziosi e immobili, guardavano salire lentamente il fumo delle loro pipe. La nuvola ora si dissolveva su un filo di vento, ora restava sospesa a mezz’aria; e la risposta era in quella nuvola. Al soffio che portava via il fumo Marco pensava ai vapori che annebbiano la distesa del mare e le catene delle montagne e al diradarsi lasciano l’aria secca e diafana svelando città lontane. Era al di là di quello scher-mo d’umori volatili che il suo sguardo voleva giungere: la forma delle cose si distingue meglio in lontananza.

Oppure, la nuvola si fermava appena uscita dalle labbra, densa e lenta, e rimandava a un’altra visione: le esala-zioni che ristagnano sui tetti delle metropoli, il fumo opaco che non si disperde, la cappa di miasmi che pesa sulle vie bituminose. Non le labili nebbie della memoria né l’asciutta trasparenza, ma il bruciaticcio delle vite bruciate che forma una crosta sulle città, la spugna gonfia di materia vitale che non scorre piú, l’ingorgo di passato presente futuro che blocca le esistenze calcificate nell’illusione del movimento: questo trovavi al termine del viaggio.

VII

KUBLAI:– Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino.

POLO:– Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel momento in cui mi concentro a riflettere, mi ri-trovo sempre in questo giardino, a quest’ora della sera, al tuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare i barili di pesce salato che calano nella stiva.

KUBLAI:– Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a pas-seggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sangue alla testa del mio esercito, conquistando i paesi che tu do-vrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che sca-lano le mura d’una fortezza assediata.

POLO:– Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrat-tare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a con-siderare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano.

KUBLAI:– Forse questo nostro dialogo si sta svolgen-do tra due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente.

POLO:– Forse del mondo è rimasto un terreno vago ricoperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggia del Gran Kan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si sa quale è dentro e quale è fuori.

Le città gli occhi. 5.

Guadato il fiume, valicato il passo, l’uomo si trova di fronte tutt’a un tratto la città di Moriana, con le porte d’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpenti-na, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l’uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per im-piccarsi a un trave marcio.

Da una parte all’altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d’immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.

Le città e il nome. 4.

Clarice, città gloriosa, ha una storia travagliata. Piú volte decadde e rifiorí, sempre tenendo la prima Clarice come modello ineguagliabile d’ogni splendore, al cui confronto lo stato presente della città non manca di su-scitare nuovi sospiri a ogni volgere di stelle.

Nei secoli di degradazione, la città, svuotata dalle pesti-lenze, abbassata di statura dai crolli di travature e cornicioni e dagli smottamenti di terriccio, arrugginita e intasa-ta per incuria o vacanza degli addetti alla manutenzione, si ripopolava lentamente al riemergere da scantinati e tane d’orde di sopravvissuti che come topi brulicavano mossi dalla smania di rovistare e rodere, e pure di racimolare e raffazzonare, come uccelli che nidificano. S’attaccavano a tutto quel che poteva essere tolto di dov’era e messo in un altro posto per servire a un altro uso: i tendaggi di brocca-to finivano a fare da lenzuola; nelle urne cinerarie di marmo piantavano il basilico; le griglie in ferro battuto sradi-cate dalle finestre dei ginecei servivano ad arrostire carne di gatto su fuochi di legna intarsiata. Messa su coi pezzi Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili scompagnati della Clarice inservibile, prendeva forma una Clarice della sopravvivenza, tutta tuguri e catapecchie, rigagnoli infetti, gabbie di conigli. Eppure, dell’antico splendore di Clarice non s’era perso quasi nulla, era tutto lí, disposto solamente in un ordine diverso ma appropriato alle esigenze degli abitanti non meno di prima.

Ai tempi d’indigenza succedevano epoche piú giulive: una Clarice farfalla suntuosa sgusciava dalla Clarice cri-salide pezzente; la nuova abbondanza faceva traboccare la città di materiali edifici oggetti nuovi; affluiva nuova gente di fuori; niente e nessuno aveva piú a che vedere con la Clarice o le Clarici di prima; e piú la nuova città s’insediava trionfalmente nel luogo e nel nome della prima Clarice, piú s’accorgeva d’allontanarsi da quella, di distruggerla non meno rapidamente dei topi e della muffa: nonostante l’orgoglio del nuovo fasto, in fondo al cuore si sentiva estranea, incongrua, usurpatrice.

Ecco allora i frantumi del primo splendore che si erano salvati adattandosi a bisogne piú oscure venivano nuovamente spostati, eccoli custoditi sotto campane di vetro, chiusi in bacheche, posati su cuscini di velluto, e non piú perché potevano servire ancora a qualcosa ma perché attraverso di loro si sarebbe voluto ricomporre una città di cui nessuno sapeva piú nulla.

Altri deterioramenti, altri rigogli si susseguirono a Clarice. Le popolazioni e le costumanze cambiarono piú volte; restano il nome, l’ubicazione, e gli oggetti piú dif-ficili da rompere. Ogni nuova Clarice, compatta come un corpo vivente coi suoi odori e il suo respiro, sfoggia come un monile quel che resta delle antiche Clarici frammentarie e morte. Non si sa quando i capitelli co-rinzi siano stati in cima alle loro colonne: solo si ricorda d’uno d’essi che per molti anni in un pollaio sostenne la cesta dove le galline facevano le uova, e di lí passò al Museo dei Capitelli, in fila con gli altri esemplari della collezione. L’ordine di successione delle ere s’è perso; Letteratura italiana Einaudi

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Italo Calvino - Le città invisibili che ci sia stata una prima Clarice è credenza diffusa, ma non ci sono prove che lo dimostrino; i capitelli potrebbero essere stati prima nei pollai che nei templi, le urne di marmo essere state seminate prima a basilico che a ossa di defunti. Di sicuro si sa solo questo: un certo numero d’oggetti si sposta in un certo spazio, ora sommer-so da una quantità d’oggetti nuovi, ora consumandosi senza ricambio; la regola è mescolarli ogni volta e ripro-vare a metterli insieme. Forse Clarice è sempre stata solo un tramestio di carabattole sbrecciate, male assortite, fuori uso.

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