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Add to favorite 🔥 🔥 "Il barone rampante" di Italo Calvino

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Questo ricordo, tutt’a un tratto, da smarrita che era per apprensione materna, la riportò al clima militare suo favorito, e, come fosse riuscita finalmente a darsi ragione del comportamento di suo figlio, divenne più tranquilla e quasi fiera. Nessuno le diede retta, tranne l’Abate Fauchelafleur che assentì con gravità al racconto guerresco e al parallelo che mia madre ne traeva, perché si sarebbe aggrappato a qualsiasi argomento pur di trovar naturale quel che stava succedendo e di sgombrar il capo da responsabilità e preoccupazioni.

Dopo cena, noi s’andava presto a dormire, e non cambiammo orario neppure quella sera. Ormai i nostri genitori erano decisi a non dar più a Cosimo la soddisfazione di badargli, aspettando che la stanchezza, la scomodità e il freddo della notte lo snidassero. Ognuno salì nei suoi quartieri e sulla facciata della casa le candele accese aprivano occhi d’oro nel riquadro delle impannate. Che nostalgia, che ricordo di calore doveva dare quella casa tanto nota e vicina, a mio fratello che 0

pernottava al sereno! M’affacciai alla finestra della nostra stanza, e indovinai la sua ombra rannicchiata in un incavo dell’elce, tra ramo e tronco, avvolta nella coperta, e - credo - legata a più giri con la corda per non cadere.

La luna si levò tardi e risplendeva sopra i rami. Nei nidi dormivano le cincie, rannicchiate come lui. Nella notte, all’aperto, il silenzio del parco attraversavano cento fruscii e rumori lontani, e trascorreva il vento. A tratti giungeva un remoto mugghio: il mare. Io dalla finestra tendevo l’orecchio a questo frastagliato respiro e cercavo d’imma-ginarlo udito senza l’alveo familiare della casa alle spalle, da chi si trovava pochi metri più in là soltanto, ma tutto affidato ad esso, con solo la notte intorno a sé; unico oggetto amico cui tenersi abbracciato un tronco d’albero dalla scorza ruvida, percorso da minute gallerie senza fine in cui dormivano le larve.

Andai a letto, ma non volli spegnere la candela. Forse quella luce alla finestra della sua stanza poteva tenergli compagnia. Avevamo una camera in comune, con due lettini ancora da ragazzi. Io guardavo il suo, intatto, e il buio fuor dalla finestra in cui egli stava, e mi rivoltavo tra le lenzuola avvertendo forse per la prima volta la gioia dello stare spogliato, a piedi nudi, in un letto caldo e bianco, e come sentendo 0

insieme il disagio di lui legato lassù nella coperta ruvida, le gambe allacciate nelle ghette, senza potersi girare, le ossa rotte. È un sentimento che non m’ha più abbandonato da quella notte, la coscienza di che fortuna sia aver un letto, lenzuola pulite, materasso morbido! In questo sentimento i miei pensieri, per tante ore proiettati sulla persona che era oggetto di tutte le nostre ansie, vennero a richiudersi su di me e così m’addormentai.

0

IV

Io non so se sia vero quello che si legge nei libri, che in antichi tempi una scimmia che fosse partita da Roma saltando da un albero all’altro poteva arrivare in Spagna senza mai toccare terra. Ai tempi miei di luoghi così fitti d’alberi c’era solo il golfo d’Ombrosa da un capo all’altro e la sua valle fin sulle creste dei monti; e per questo i nostri posti erano nominati dappertutto.

Ora, già non si riconoscono più, queste contrade. S’è cominciato quando vennero i Francesi, a tagliar boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e poi ricrescono. Non sono ricresciuti. Pareva una cosa della guerra, di Napoleone, di quei tempi: invece non si smise 0

più. I dossi sono nudi che a guardarli, noi che li conoscevamo da prima, fa impressione.

Allora, dovunque s’andasse, avevamo sempre rami e fronde tra noi e il cielo. L’unica zona di vegetazione più bassa erano i limoneti, ma anche là in mezzo si levavano contorti gli alberi di fico, che più a monte ingombravano tutto il cielo degli orti, con le cupole del pesante loro fogliame, e se non erano fichi erano ciliegi dalle brune fronde, o più teneri cotogni, peschi, mandorli, giovani peri, prodighi susini, e poi sorbi, carrubi, quando non era un gelso o un noce annoso. Finiti gli orti, cominciava l’oliveto, grigio-argento, una nuvola che sbiocca a mezza costa. In fondo c’era il paese accatastato, tra il porto in basso e in su la rocca; ed anche lì, tra i tetti, un continuo spuntare di chiome di piante: lecci, platani, anche roveri, una vegetazione più disinteressata e altera che prendeva sfogo - un ordinato sfogo - nella zona dove i nobili avevano costruito le ville e cinto di cancelli i loro parchi.

Sopra gli olivi cominciava il bosco. I pini dovevano un tempo aver regnato su tutta la plaga, perché ancora s’infiltravano in lame e ciuffi di bosco giù per i versanti fino sulla spiaggia del mare, e così i larici.

Le roveri erano più frequenti e fitte di quel che oggi non sembri, perché furono la prima e più pregiata vittima della scure. Più in su i 0

pini cedevano ai castagni, il bosco saliva la montagna, e non se ne vedevano confini. Questo era l’universo di linfa entro il quale noi vivevamo, abitanti d’Ombrosa, senza quasi accorgercene.

Il primo che vi fermò il pensiero fu Cosimo. Capì che, le piante essendo così fitte, poteva passando da un ramo all’altro spostarsi di parecchie miglia, senza bisogno di scendere mai. Alle volte, un tratto di terra spoglia l’obbligava a lunghissimi giri, ma lui presto s’impratichì di tutti gli itinerari obbligati e misurava le distanze non più secondo i nostri estimi, ma sempre con in mente il tracciato contorto che doveva seguire lui sui rami. E dove neanche con un salto si raggiungeva il ramo più vicino, prese a usare degli accorgimenti; ma questo lo dirò più in là; ora siamo ancora all’alba in cui svegliandosi si trovò in cima a un elce, tra lo schiamazzo degli storni, madido di rugiada fredda, intirizzito, le ossa rotte, il formicolio alle gambe ed alle braccia, e felice si diede a esplorare il nuovo mondo.

Giunse sull’ultimo albero dei parchi, un platano. Giù digradava la valle sotto un cielo di corone di nubi e fumo che saliva da qualche tetto d’ardesia, casolari nascosti dietro le ripe come mucchi di sassi; un cielo di foglie alzate in aria dai fichi e dai ciliegi; e più bassi prugni e peschi divaricavano tarchiati rami; tutto si vedeva, anche l’erba, 0

fogliolina a fogliolina, ma non il colore della terra, ricoperta dalle pigre foglie della zucca o dall’accesparsi di lattughe o verze nei semenzai; e così era da una parte e dall’altra del V in cui s’apriva la valle ad un imbuto alto di mare.

E in questo paesaggio correva come un’onda, non visibile e nemmeno, se non di tanto in tanto, udibile, ma quel che se n’udiva bastava a propagarne l’inquietudine: uno scoppio di gridi acuti tutt’a un tratto, e poi come un croscio di tonfi e forse anche lo scoppio d’un ramo spezzato, e ancora grida, ma diverse, di vociacce infuriate, che andavano convergendo nel luogo da cui prima erano venuti i gridi acuti. Poi niente, un senso fatto di nulla, come d’un trascorrere, di qualcosa che c’era da aspettarsi non là ma da tutt’altra parte, e difatti riprendeva quell’insieme di voci e rumori, e questi luoghi di probabile provenienza erano, di qua o di là della valle, sempre dove si muovevano al vento le piccole foglie dentate dei ciliegi. Perciò Cosimo, con la parte della sua mente che veleggiava distratta - un’altra parte di lui invece sapeva e capiva tutto in precedenza - formulò questo pensiero: le ciliegie parlano.

Era verso il più vicino ciliegio, anzi una fila d’alti ciliegi d’un bel verde frondoso, che Cosimo si dirigeva, e carichi di ciliege nere, ma 0

mio fratello ancora non aveva l’occhio a distinguere subito tra i rami quello che c’era e quello che non c’era. Stette lì: prima ci si sentiva del rumore ed ora no. Lui era sui rami più bassi, e tutte le ciliege che c’erano sopra di lui se le sentiva addosso, non avrebbe saputo spiegare come, parevano convergere su di lui, pareva insomma un albero con occhi invece che ciliege.

Cosimo alzò il viso e una ciliegia troppo matura gli cascò sulla fronte con un ciacc! Socchiuse le palpebre per guardare in su controcielo (dove il sole cresceva) e vide che su quello e sugli alberi vicini c’era pieno di ragazzi appollaiati.

Al vedersi visti non stettero più zitti, e con voci acute benché smorzate dicevano qualcosa come: - Guardalo lì quanto l’è bello! - e spartendo davanti a sé le foglie ognuno dal ramo in cui stava scese a quello più basso, verso il ragazzo col tricorno in capo. Loro erano a capo nudo o con sfrangiati cappelli di paglia, e alcuni incappucciati in sacchi; vestivano lacere camicie e brache; ai piedi chi non era scalzo aveva fasce di pezza, e qualcuno legati al collo portava gli zoccoli, tolti per arrampicarsi; erano la gran banda dei ladruncoli di frutta, da cui Cosimo ed io c’eravamo sempre - in questo obbedienti alle ingiunzioni familiari - tenuti ben lontani. Quel mattino invece mio 0

fratello sembrava non cercasse altro, pur non essendo nemmeno a lui ben chiaro che cosa se ne ripromettesse.

Stette fermo ad aspettarli mentre calavano indicandoselo e lanciandogli, in quel loro agro sottovoce, motti come: - Cos’è ch’è qui che cerca questo qui? - e sputandogli anche qualche nocciolo di ciliegia o tirandogliene qualcuna di quelle bacate o beccate da un merlo, dopo averle fatte vorticare in aria sul picciòlo con mossa da frombolieri.

- Uuuh! - fecero tutt’a un tratto. Avevano visto lo spadino che gli pendeva dietro. - Lo vedete cosa ci ha? - E giù risate. - Il battichiappe!

Poi fecero silenzio e soffocavano le risa perché stava per succedere una cosa da diventare matti dal divertimento: due di questi piccoli manigoldi, zitti zitti, si erano portati su di un ramo proprio sopra a Cosimo e gli calavano la bocca d’un sacco sulla testa (uno di quei lerci sacchi che a loro servivano certo per metterci il bottino, e quando erano vuoti si acconciavano in testa come cappucci che scendevano sulle spalle). Tra poco mio fratello si sarebbe trovato insaccato senza neanche capir come e lo potevano legare come un salame e caricarlo di pestoni.

Cosimo fiutò il pericolo, o forse non fiutò niente: si sentì deriso per 0

lo spadino e volle sfoderarlo per punto d’onore. Lo brandì alto, la lama sfiorò il sacco, lui lo vide, e con un’accartocciata lo strappò di mano ai due ladroncelli e lo fece volar via.

Era una buona mossa. Gli altri fecero degli «Oh!» insieme di disappunto e meraviglia, e ai due compari che s’erano lasciati portar via il sacco lanciarono insulti dialettali come: - Cuiasse! Belinùi!

Non ebbe tempo di rallegrarsi del successo, Cosimo. Una furia opposta si scatenò da terra; latravano, tiravano dei sassi, gridavano: -

Stavolta non ci scappate, bastardelli ladri! - e s’alzavano punte di forcone. Tra i ladruncoli sui rami ci fu un rannicchiarsi, un tirar su di gambe e gomiti. Era stato quel chiasso attorno a Cosimo a dar l’allarme agli agricoltori che stavano all’erta.

L’attacco era preparato in forze. Stanchi di farsi rubar la frutta man mano che maturava, parecchi dei piccoli proprietari e dei fìttavoli della vallata s’erano federati tra loro; perché alla tattica dei furfantelli di dar la scalata tutti insieme a un frutteto, saccheggiarlo e scappare da tutt’altra parte, e lì daccapo, non c’era da opporre che una tattica simile: cioè far la posta tutti insieme in un podere dove prima o poi sarebbero venuti, e prenderli in mezzo. Ora i cani sguinzagliati abbaiavano rampando al piede dei ciliegi con bocche irte di denti, e in 0

aria si protendevano le forche da fieno. Dei ladruncolitre o quattro saltarono a terra giusto in tempo per farsi bucare la schiena dalle punte dei tridenti e il fondo dei calzoni dal morso dei cani, e correre via urlando e sfondando a testate i fìlari delle vigne. Così nessuno osò più scendere: stavano sbigottiti sui rami, tanto loro che Cosimo. Già gli agricoltori mettevano le scale contro i ciliegi e salivano facendosi precedere dai denti puntati dei forconi.

Ci vollero alcuni minuti prima che Cosimo capisse che essere lui spaventato perché era spaventata quella banda di vagabondi era una cosa senza senso, Com’era senza senso quell’idea che loro fossero tanto in gamba e lui no. Il fatto che se ne stessero lì come dei tonti era già una prova: cosa aspettavano a scappare sugli alberi intorno? Mio fratello così era giunto fin lì e così poteva andarsene: si calcò il tricorno in testa, cercò il ramo che gli aveva fatto da ponte, passò dall’ultimo ciliegio a un carrubo, dal carrubo penzolandosi calò su di un susino, e così via. Quelli, al vederlo girare per quei rami come fosse in piazza, capirono che dovevano tenergli subito dietro, se no prima di ritrovare la sua strada chissà quanto avrebbero penato; e lo seguirono zitti, carponi per quell’itinerario tortuoso. Lui intanto, salendo per un fico, scavalcava la siepe del campo, calava su di un pesco, tenero di 1

rami tanto che bisognava passarci uno alla volta. Il pesco serviva solo ad aggrapparsi al tronco storto d’un olivo che sporgeva da un muro; dall’olivo con un salto s’era su una rovere che allungava un robusto braccio oltre il torrente, e si poteva passare sugli alberi di là.

Gli uomini con le forche, che credevano ormai d’avere in mano i ladri di frutta, se li videro scappare per l’aria come uccelli. Li inseguirono, correndo insieme ai cani latranti, ma dovettero aggirare la siepe, poi il muro, poi in quel punto del torrente non c’erano ponti, e per trovare un guado persero tempo ed i monelli erano lontani che correvano.

Correvano come cristiani, con i piedi per terra. Sui rami c’era rimasto solo mio fratello. - Dov’è finito quel saltimpalo con le ghette?

- si chiedevano loro, non vedendoselo più davanti. Alzarono lo sguardo: era là che rampava per gli olivi. - Ehi, tu, cala dabbasso, ormai non ci pigliano! - Lui non calò, saltò tra fronda e fronda, da un olivo passò a un altro, sparì alla vista tra le fitte foglie argentee.

Il branco dei piccoli vagabondi, con i sacchi per cappuccio e in mano canne, ora assaltava certi ciliegi in fondo valle. Lavoravano con metodo, spogliando ramo dopo ramo, quando, in cima alla pianta più alta, appollaiato con le gambe intrecciate, spiccando con due dita i 1

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