- Ma quest’anno non beccano!
- Se i merli sono tanti, qui siamo tutti cacciatori!
- C’è chi invece non vuol farsi vedere. C’è chi scappa.
- Come mai quest’anno la vendemmia non piace più a tanta gente?
- Da noi volevano rimandarla. Ma ormai l’uva è matura!
- È matura!
L’indomani invece la vendemmia cominciò silenziosa. Le vigne erano affollate di gente a catena lungo i filari, ma non nasceva nessun canto. Qualche sparso richiamo, grida: - Ci siete anche voi? È matura!
- un muovere di squadre, un che di cupo, forse anche del cielo, che era non del tutto coperto ma un po’ greve, e se una voce attaccava una canzone rimaneva subito a mezzo, non raccolta dal coro. I mulattieri portavano le corbe piene d’uva ai tini. Prima di solito si facevano le parti per i nobili, il vescovo e il governo; quest’anno no, pareva che se ne dimenticassero.
II barone rampante 235
Gli esattori, venuti per riscuotere le decime, erano nervosi, non sapevano che pesci pigliare. Più passava il tempo, più non succedeva niente, più si sentiva che doveva succedere qualcosa, più gli sbirri capivano che bisognava muoversi ma meno capivano che fare.
Cosimo, coi suoi passi da gatto, aveva preso a camminare per i pergolati. Con una forbice in mano, tagliava un grappolo qua e un grappolo là, senz’ordine, porgendolo poi ai vendemmiatori e alle vendemmiatrici là di sotto, a ciascuno dicendo qualcosa a bassa voce.
Il capo degli sbirri non ne poteva più. Disse: - E ben, e allora, così, vediamo un po’ ‘ste decime? -L’aveva appena detto e s’era già pentito.
Per le vigne risuonò un cupo suono tra il boato e il sibilo: era un vendemmiatore che soffiava in una conchiglia di quelle a buccina e spargeva un suono d’allarme nelle valli. Da ogni poggio risposero suoni uguali, i vignaiuoli levarono le conchiglie come trombe, e anche Cosimo, dall’alto d’una pergola.
Per i fìlari si propagò un canto; dapprima rotto, discordante, che non si capiva che cos’era. Poi le voci trovarono un’intesa, s’intonarono, presero l’aire, e cantarono come se corressero, di volata, e gli uomini e le donne fermi e seminascosti lungo i filari, e i pali le viti i grappoli, tutto pareva correre, e l’uva vendemmiarsi da sé, gettarsi dentro i tini e pigiarsi, e l’aria le nuvole il sole diventare tutto mosto, e già si cominciava a capire quel canto, prima le note della musica e poi qualcuna delle parole, che dicevano: - Ça ira! Ça ira! Ça ira! - e i giovani pestavano l’uva coi piedi scalzi e rossi, - Ça ira! - e le ragazze
cacciavano le forbici appuntite come pugnali nel verde fìtto ferendo le contorte attaccature dei grappoli, - Ça ira! - e i moscerini a nuvoli invadevano l’aria sopra i mucchi di graspi pronti per il torchio, - Ça ira! - e fu allora che gli sbirri persero il controllo e: - Alto là! Silenzio! Basta col bordello! Chi canta lo si spara! - e cominciarono a scaricare fucili in aria.
Rispose loro un tuono di fucileria che parevano reggimenti schierati a battaglia sulle colline. Tutti gli schioppi da caccia d’Ombrosa esplodevano, e Cosimo in cima a un alto fico suonava la carica nella conchiglia a tromba. Per tutte le vigne ci fu un muoversi di gente. Non si capiva più quel che era vendemmia e quel che era mischia: uomini uva donne tralci roncole pampini scarasse fucili corbe cavalli fil di ferro pugni calci di mulo stinchi mammelle e tutto cantando: Ça ira!
- Eccovi le decime! - Finì che gli sbirri e gli esattori furono cacciati a capofitto nei tini pieni d’uva, con le gambe che restavano fuori e scalciavano. Se ne tornarono senza aver esatto niente, lordi da capo a piedi di succo d’uva, d’acini pestati, di vinacce, di sansa, di graspi che restavano impigliati ai fucili, alle giberne, ai baffi.
La vendemmia proseguì come una festa, tutti essendo convinti d’aver abolito i privilegi feudali. Intanto noialtri nobili e nobilotti
c’eravamo barricati nei palazzi, armati, pronti a vender cara la pelle.
(Io veramente mi limitai a non mettere il naso fuori dall’uscio, soprattutto per non farmi dire dagli altri nobili che ero d’accordo con quell’anticristo di mio fratello, reputato il peggior istigatore, giacobino e clubista di tutta la zona). Ma per quel giorno, cacciati gli esattori e la truppa, non fu torto un capello a nessuno.
Erano tutti in gran daffare a preparare feste. Misero su anche l’Albero della Libertà, per seguire la moda francese; solo che non sapevano bene com’erano fatti, e poi da noi d’alberi ce n’erano talmente tanti che non valeva la pena di metterne di 11 barone rampante 237
finti. Così addobbarono un albero vero, un olmo, con fiori, grappoli d’uva, festoni, scritte: «Vive la Grande Nation!» In cima in cima c’era mio fratello, con la coccarda tricolore sul berretto di pel di gatto, e teneva una conferenza su Rousseau e Voltaire, di cui non si udiva neanche una parola, perché tutto il popolo là sotto faceva girotondo cantando:
Çaira!
L’allegria durò poco. Vennero truppe in gran forza: genovesi, per esigere le decime e garantire la neutralità del territorio, e austrosarde,
perché s’era sparsa già la voce che i giacobini d’Ombrosa volevano proclamare l’annessione alla «Grande Nazione Universale» cioè alla Repubblica francese. I rivoltosi cercarono di resistere, costruirono qualche barricata, chiusero le porte della città... Ma sì, ci voleva altro!
Le truppe entrarono in città da tutti i lati, misero posti di blocco in ogni strada di campagna, e quelli che avevano nome d’agitatori furono imprigionati, tranne Cosimo che chi lo pigliava era bravo, e altri pochi con lui.
Il processo ai rivoluzionari fu messo su alle spicce, ma gli imputati riuscirono a dimostrare che non c’entravano niente e che i veri capi erano proprio quelli che se l’erano svignata. Così furono tutti liberati, tanto con le truppe che si fermavano di stanza a Ombrosa non c’era da temere altri subbugli. Si fermò anche un presidio d’Austrosardi, per garantirsi da possibili infiltrazioni del nemico, e al comando d’esso c’era nostro cognato D’Estomac, il marito di Battista, emigrato dalla Francia al seguito del Conte di Provenza.
Mi ritrovai dunque tra i piedi mia sorella Battista, con che piacere vi lascio immaginare. Mi s’installò in casa, col marito ufficiale, i cavalli, le truppe d’ordinanza. Lei passava le serate raccontandoci le ultime esecuzioni capitali di Parigi; anzi, ave-
va un modellino di ghigliottina, con una vera lama, e per spiegare la fine di tutti i suoi amici e parenti acquistati decapitava lucertole, orbettini, lombrichi ed anche sorci. Così passavamo le serate. Io invidiavo Cosimo che viveva i suoi giorni e le sue notti alla macchia, nascosto in chissà quali boschi.
XXVII
Sulle imprese da lui compiute nei boschi durante la guerra, Cosimo ne raccontò tante, e talmente incredibili, che d’avallare una versione o un’altra io non me la sento. Lascio la parola a lui, riportando fedel-mente qualcuno dei suoi racconti:
Nel bosco s’avventuravano pattuglie d’esploratori degli opposti eserciti. Dall’alto dei rami, a ogni passo che sentivo tonfare tra i cespugli, io tendevo l’orecchio per capire se era di Austrosardi o di Francesi.
Un tenentino austriaco, biondo biondo, comandava una pattuglia di soldati in perfetta divisa, con codino e fiocco, tricorno e uosa, bande bianche incrociate, fucile e baionetta, e li faceva marciare in fila per due, cercando di tenere l’allineamento in quegli scoscesi sentieri.
Ignaro di come fosse fatto il bosco, ma sicuro d’eseguire a puntino gli ordini ricevuti, l’ufficialetto procedeva secondo le linee tracciate sulla carta, prendendo continuamente delle nasate contro i tronchi, facendo scivolare la truppa con le scarpe chiodate su pietre lisce o cavar gli occhi nei roveti, ma sempre conscio della supremazia delle armi imperiali.
Erano dei magnifici soldati. Io li attendevo al varco nascosto su di un pino. Avevo in mano una pigna da mezzo chilo e la lasciai cadere sulla testa del
serrafìla. Il fante allargò le braccia, piegò le ginocchia e cadde tra le felci del sottobosco. Nessuno se ne accorse; la squadra continuò la sua marcia.
Li raggiunsi ancora. Questa volta buttai un porcospino appallottolato sul collo d’un caporale. Il caporale reclinò il capo e svenne. Il tenente stavolta osservò il fatto, mandò due uomini a prendere una barella, e proseguì.
La pattuglia, come se lo facesse apposta, andava a impelagarsi nei più fitti gineprai di tutto il bosco. E l’aspettava sempre un nuovo agguato. Avevo raccolto in un cartoccio certi bruchi pelosi, azzurri, che a toccarli facevano gonfiare la pelle peggio dell’ortica, e glie ne
feci piovere addosso un centinaio. Il plotone passò, sparì nel folto, riemerse grattandosi, con le mani e i visi tutti bollicine rosse, e marciò avanti.
Meravigliosa truppa e magnifico ufficiale. Tutto nel bosco gli era così estraneo, che non distingueva quel che v’era d’insolito, e proseguiva con gli effettivi decimati, ma sempre fieri e indomabili.