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votre luxuriante... - e faceva un saltino in là perché Cosimo in un inchino d’assenso gli aveva di nuovo scoperto il sole.

Vedendo l’inquietudine di Bonaparte, Cosimo domandò, cortese: -

Posso fare qualcosa per voi, mon Empereur?

- Sì, sì, - disse Napoleone, - statevene un po’ più in qua, ve ne prego, per ripararmi dal sole, ecco, così, fermo... - Poi si tacque, come assalito da un pensiero, e rivolto al Viceré Eugenio: - Tout cela me rappelle quelque chose... Quelque chose que j’ai déjà vu...

Cosimo gli venne in aiuto: - Non eravate voi, Maestà: era Alessandro Magno.

- Ah, ma certo! - fece Napoleone. - L’incontro di Alessandro e Diogene!

- Vous n’oubliez jamais votre Plutarque, mon Empereur, - disse il Beauharnais.

- Solo che allora, - soggiunse Cosimo, - era Alessandro a domandare a Diogene cosa poteva fare per lui, e Diogene a pregarlo di scostarsi...

Napoleone fece schioccare le dita come avesse finalmente trovato la frase che andava cercando. S’assicurò con un’occhiata che i dignitari del seguito lo stessero ascoltando, e disse, in ottimo italiano: - Se io

non era l’Imperator Napoleone, avria voluto ben essere il cittadino Cosimo Rondò!

E si voltò e andò via. Il seguito gli tenne dietro con un gran rumore di speroni.

Tutto finì lì. Ci si sarebbe aspettato che entro una settimana arrivasse a Cosimo la croce della Legion d’Onore. Invece niente. Mio fratello magari se ne infischiava, ma a noi in famiglia avrebbe fatto piacere.

XXIX

La gioventù va via presto sulla terra, figuratevi sugli alberi, donde tutto è destinato a cadere: foglie, frutti. Cosimo veniva vecchio. Tanti anni, con tutte le loro notti passate al gelo, al vento, all’acqua, sotto fragili ripari o senza nulla intorno, circondato dall’aria, senza mai una casa, un fuoco, un piatto caldo... Cosimo era ormai un vecchietto rattrappito, gambe arcuate e braccia lunghe come una scimmia, gibboso, insaccato in un mantello di pelliccia che finiva a cappuccio, come un frate peloso. La faccia era cotta dal sole, rugosa come una castagna, con chiari occhi rotondi tra le grinze.

Alla Beresina l’armata di Napoleone volta in rotta, la squadra

inglese in sbarco a Genova, noi passavamo i giorni attendendo le notizie dei rivolgimenti. Cosimo non si faceva vedere a Ombrosa: stava appollaiato su di un pino del bosco, sul ciglio del cammino dell’Artiglieria, là dov’erano passati i cannoni per Marengo, e guardava verso oriente, sul battuto deserto in cui ora soltanto s’incontravano pastori con le capre o muli carichi di legna. Co-s’aspettava? Napoleone l’aveva visto, la Rivoluzione sapeva Com’era finita, non c’era più da attendersi che il peggio. Eppure stava lì, a occhi fìssi, come se da un momento all’altro alla svolta dovesse comparire l’Armata Imperiale ancora ricoperta di ghiaccioli russi, e Bonaparte in sella, il mento

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malraso chino sul petto, febbricitante, pallido... Si sarebbe fermato sotto il pino (dietro di lui, un confuso smorzarsi di passi, uno sbattere di zaini e fucili a terra, uno scalzarsi di soldati esausti al ciglio della strada, uno sbendar piedi piagati) e avrebbe detto: «Avevi ragione, cittadino Rondò: ridammi le costituzioni da te vergate, ridammi il tuo consiglio che né il Direttorio né il Consolato né l’Impero vollero ascoltare: ricominciamo da capo, rialziamo gli Alberi della Libertà, salviamo la patria universale!» Questi erano certo i sogni, le speranze

di Cosimo.

Invece, un giorno, arrancando sul Cammino dell’Artiglieria, da oriente vennero avanti tre figuri. Uno, zoppo, si reggeva a una stampella, l’altro aveva il capo in un turbante di bende, il terzo era il più sano perché aveva solo un legaccio nero sopra un occhio. Gli stracci stinti che portavano indosso, i brandelli d’alamari che gli pendevano dal petto, il colbacco senza più il cocuzzolo ma col pennacchio che uno di loro aveva, gli stivali stracciati lungo tutta la gamba, parevano aver appartenuto a uniformi della Guardia napoleonica. Ma armi non ne avevano: ossia uno brandiva un fodero di sciabola vuoto, un altro teneva su una spalla una canna di fucile come un bastone, per reggere un fagotto. E venivano avanti cantando:

- De mon pays... De mon pays... De mon pays... - come tre ubriachi.

- Ehi, forestieri, - gridò loro mio fratello, - chi siete?

- Guarda che razza d’uccello! Che fai lassù? Mangi pinoli?

E un altro: - Chi vuol darci dei pinoli? Con la fame arretrata che abbiamo, vuol farci mangiare dei pinoli?

- E la sete! La sete che c’è venuta a mangiar neve!

- Siamo il Terzo Reggimento degli Usseri!

- Al completo!

- Tutti quelli che rimangono!

- Tre su trecento: non è poco!

- Per me, sono scampato io e tanto basta!

- Ah, non è ancora detto, la pelle a casa non l’hai ancora portata!

- Ti pigli un canchero!

- Siamo i vincitori d’Austerlitz!

- E i fottuti di Vilna! Allegria!

- Di’, uccello parlante, spiegaci dov’è una cantina, da queste parti!

- Abbiamo vuotato le botti di mezza Europa ma la sete non ci passa!

- È perché siamo crivellati dalle pallottole, e il vino cola.

- Tu sei crivellato in quel posto!

- Una cantina che ci faccia credito!

- Passeremo a pagare un’altra volta!

Are sens

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